Marco Invernizzi, Cristianità n. 427 (2024)
Relazione, rivista e annotata, al Capitolo Generale di Alleanza Cattolica tenuto a Roma il 23 giugno 2024.
Vi è un tema nella vita interna della Chiesa di cui si parla troppo poco, nonostante la reiterata insistenza del Magistero pontificio, almeno dal pontificato del venerabile Pio XII (1939-1958) in poi, ma forse anche da prima. Il tema è l’apostolato, frutto della convinzione che ogni battezzato è chiamato a far conoscere la fede che professa, a testimoniarla pubblicamente, a difenderla e a proporre di aderirvi nei modi leciti, suggeriti dalle diverse circostanze storiche.
Il magistero petrino ha cominciato a insistere sul punto proprio a partire da Papa Pacelli, quando matura la constatazione che è venuto meno il senso comune ispirato dalla fede cristiana fra gli abitanti dei Paesi europei e che occorre, dunque, una nuova evangelizzazione dei Paesi dell’antica cristianità occidentale (1). Se prima di allora esisteva una civiltà ancora rubricabile come cristiana, almeno in alcuni suoi aspetti, con l’avvento dei regimi tendenzialmente totalitari in Italia nel 1922 e in Germania nel 1933, con la diffusione dell’ideologia comunista in tutto il mondo dopo la rivoluzione bolscevica scoppiata in Russia nel 1917, con la guerra dei cristeros in Messico e la guerra civile in Spagna (1936-1939) e, soprattutto, con il processo di penetrazione del secolarismo nel corpo sociale, prima limitatamente alle élite poi, dopo la Grande Guerra (1914-1918), anche nella maggioranza delle popolazioni, era sempre più evidente che il cristianesimo e la Chiesa cattolica, salvo eccezioni, non avevano più un ruolo centrale nella vita pubblica delle nazioni europee. Era allora necessario e doveroso l’appello alla ripresa dell’apostolato fatto dall’organo supremo della pastorale cattolica. Occorreva, cioè, ricordare ai fedeli che, se Cristo è il Figlio di Dio venuto nel mondo per salvare gli uomini, questo fatto non poteva essere taciuto da chi si professava cristiano e avrebbe dovuto diventare il motivo dominante e ispiratore della sua vita. Non soltanto: l’apostolato, a mano a mano che la società si allontanava dalla fede e dalla Chiesa, avrebbe dovuto riguardare sì il primo annuncio della fede, ma anche l’evangelizzazione della cultura alla luce della dottrina sociale della Chiesa. Così però non è stato.
Dobbiamo al card. Joseph Ratzinger (1927-2022) la memoria dell’eccellenza dell’apostolato. Egli ha affermato: «Dobbiamo essere animati da una santa inquietudine: l’inquietudine di portare a tutti il dono della fede, dell’amicizia con Cristo. In verità, l’amore, l’amicizia di Dio ci è stata data perché arrivi anche agli altri. Abbiamo ricevuto la fede per donarla ad altri […]. Tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i librinemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scompaiono. L’unica cosa, che rimane in eterno, è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane — l’amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla gioia del Signore. Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane. Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime in giardino di Dio» (2).
L’apostolato non è un optional
Credo che oggi esista un problema all’interno del mondo cattolico legato all’apostolato, rappresentato da coloro che hanno cessato di credere che Cristo sia il Salvatore degli uomini e del mondo. Naturalmente questa verità non viene rifiutata esplicitamente, ma se ne prescinde. Le verità ultime sono spesso accantonate nella predicazione e nelle catechesi. Ed è un problema che riguarda anche chi ha vissuto la stagione della contrapposizione con una Rivoluzione visibile e organizzata, l’epoca delle ideologie moderne (1914-1989), che forse potrebbe tornare, in un futuro magari non troppo lontano, ma che adesso pare finita.
In tale contesto vi sono cattolici che non sono tanto preoccupati che la grande maggioranza degli uomini diserti la Chiesa e abbia perso — o non abbia mai avuto — il dono della fede, ma sono assillati dalla crisi nella Chiesa, quasi fosse l’unica o principale causa della crisi antropologica in atto. La crisi nella Chiesa esiste ed è un ostacolo serio alla missione (3), ma anziché attardarsi unicamente nella sua denuncia occorre essere realmente attrattivi, come ha ricordato Benedetto XVI (2005-2013): «non dobbiamo tanto accettare la verità come un atto puramente intellettuale, quanto piuttosto accoglierla mediante una dinamica spirituale che penetra sino alle più intime fibre del nostro essere […], mediante la testimonianza di vite vissute integralmente, fedelmente e santamente; coloro che vivono della e nella verità riconoscono istintivamente ciò che è falso e, proprio perché falso, è nemico della bellezza e della bontà che accompagna lo splendore della verità, veritatis splendor» (4).
Nell’epoca post-ideologica in cui viviamo diventa sempre più necessario attrarre alla fede e spiegarla, più che contrapporsi agli errori, se è vero che l’errore più grande della nostra epoca è il relativismo, cioè quella sorta di dogma che afferma l’impossibilità della ragione umana di conoscere la verità da cui deriva l’irrilevanza pubblica della stessa.
Si tratta di un problema serio, perché se non sorge nel cuore del cristiano il desiderio di trasmettere la fede e di comunicare la cultura che nasce dalla fede, non potranno mai nascere degli ambienti omogenei, rigenerati, delle micro-cristianità che possano preludere alla restaurazione di una società «a misura d’uomo e secondo il piano di Dio». Questo desiderio non può essere sostituito dalla lotta contro l’errore, perché il suo obiettivo primario sono le persone. La ricostruzione di una società passa, infatti, attraverso la loro conversione: una persona che si converte ha un valore incommensurabile a prescindere dalle conseguenze storiche della sua conversione.
Ora, per ottenere entrambi i risultati, conversione personale e trasformazione storica, sono necessari soggetti non soltanto a loro volta convertiti ma anche ben formati. E allora chiediamoci: li cerchiamo? Quando troviamo persone disposte ad ascoltarci ci sforziamo di voler loro bene e di avere pazienza, almeno quanto qualcuno ne ha avuta con noi? E, quindi, di dedicare loro un po’ del nostro tempo?
Il problema non è solo di carattere spirituale o ascetico, cioè non si risolve soltanto con un po’ più di fervore. Certo, vi è pure questo aspetto, ma il problema è anche «dottrinale», nel senso che occorre porre al centro del nostro modus agendi la persona: meglio, le persone concrete che incontriamo, anzitutto perché Dio le ha messe sulla nostra strada e poi perché soltanto attraverso delle persone può nascere un ambiente che sia preludio di una nuova società cristiana. In questo ci aiuta il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, che indica nella persona imago Dei, — riprendendo la prima enciclica di san Giovanni Paolo II (1978-2005), Redemptor hominis (5) — la via scelta dalla Chiesa. Cristo non è morto e risorto per l’umanità in generale, ma per ogni singolo uomo. Da qui discende il nostro compito di avere attenzione per ogni persona che Dio mette sulla nostra strada e di andarle a cercare con entusiasmo e con la convinzione di avere loro tanto da trasmettere.
L’apostolato nell’epoca del relativismo
Le cerchiamo? Dove? Ovunque. Ci ricordiamo di vivere in una società «coriandolizzata», divisa in mille rigagnoli, piccoli ambienti, con pochi autentici rapporti umani sopravvissuti allo sgretolarsi delle famiglie e delle parrocchie? E, soprattutto, preghiamo per trovare queste situazioni e per chiedere al Signore che non si spenga dentro il nostro cuore il desiderio di trasmettere la fede e l’amore per il prossimo che incontriamo? Questo è un aspetto che dovrebbe interrogare ogni battezzato, ma che certamente riguarda chi vuole essere un militante per Cristo Re e Maria Regina.
Papa Francesco, a questo proposito, ha detto: «Ma prima di partire, quando apparve agli Undici, disse loro: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15). C’è la missionarietà della fede. La fede, o è missionaria o non è fede. La fede non è una cosa soltanto per me, perché io cresca con la fede: questa è un’eresia gnostica. La fede ti porta sempre a uscire da te. Uscire. La trasmissione della fede; la fede va trasmessa, va offerta, soprattutto con la testimonianza: “Andate, che la gente veda come vivete” (cfr v. 15)» (6). Nella stessa omelia ha ricordato un episodio significativo: «Qualcuno mi diceva, un prete europeo, di una città europea: “C’è tanta incredulità, tanto agnosticismo nelle nostre città, perché i cristiani non hanno fede. Se l’avessero, sicuramente la darebbero alla gente”. Manca la missionarietà. Perché alla radice manca la convinzione: “Sì, io sono cristiano, sono cattolico…”. Come se fosse un atteggiamento sociale. Nella carta d’identità ti chiami così e così… e “sono cristiano”. È un dato della carta d’identità. Questa non è fede! Questa è una cosa culturale» (7). E recentemente, sempre il Papa ci ha ricordato che il Signore «insegna anche a noi a seminare fiduciosamente il Vangelo là dove siamo, e poi ad attendere che il seme gettato cresca e porti frutto in noi e negli altri, senza scoraggiarci e senza smettere di sostenerci e aiutarci a vicenda anche là dove, nonostante gli sforzi, ci sembra di non vedere risultati immediati. Spesso infatti anche tra noi, al di là delle apparenze, il miracolo è già in atto, e a suo tempo porterà frutti abbondanti!
«Perciò possiamo chiederci: io lascio seminare in me la Parola? A mia volta, semino con fiducia la Parola di Dio negli ambienti in cui vivo? Sono paziente nell’aspettare, oppure mi scoraggio perché non vedo subito i risultati? E so affidare tutto serenamente al Signore, pur facendo del mio meglio per annunciare il Vangelo?» (8).
Il contesto attuale
Un «cambiamento d’epoca» e la «guerra mondiale a pezzi»
Ci siamo soffermati più volte su queste due frasi di Papa Francesco, che sono ormai diventate caratterizzanti del suo pontificato.
La prima è sotto gli occhi di tutti, ma stentiamo a rendercene conto. Vi sono passaggi epocali nella storia degli uomini che però vengono percepiti con decenni di ritardo perché gli uomini sono tendenzialmente abitudinari, faticano a mutare gli atteggiamenti acquisiti nel corso degli anni e spesso tendono a privilegiare, con un po’ di nostalgia, i modi di pensare e di comportarsi della giovinezza. È così anche per i cristiani e per le grandi stagioni della storia della Chiesa. Dall’Editto di Milano del 313, con cui Costantino I (274-337) diede libertà totale alla Chiesa all’interno dell’impero, alla fine dell’impero romano d’Occidente nel 476, che nel frattempo era stato guidato da imperatori cristiani, come Teodosio il Grande (347-395), fino alla continuazione dell’impero a Costantinopoli, la nuova capitale imperiale, alla rinascita del Sacro Romano Impero nell’800 con Carlo Magno (742-814), al passaggio della Chiesa dalla persecuzione nei primi tre secoli al monachesimo e quindi alla costruzione di una cristianità, anche giuridica: tutto ciò è stato vissuto dai cristiani con un periodico cambiamento della propria azione evangelizzatrice, del proprio stile di apostolato, adeguandolo alle diverse caratteristiche culturali dei popoli del tempo. Questo perché, come nota lo storico del cristianesimo Paolo Siniscalco (1931-2022), l’animazione missionaria dei cristiani aveva un’anima, non unica, «[…] che tende a coniugare con il vangelo le culture davanti a cui si trova, che vuole impregnare del suo mesaggio le civiltà umane con cui viene a contatto, un’anima dunque di incarnazione» (9). I cristiani dovettero impegnarsi nel primo millennio e sino alla fine della cristianità medioevale a diffondere la fede in Cristo e a difendere la cristianità dai nemici esterni e dalle eresie; ma a partire dal Rinascimento e dalla Riforma del 1517 sorse negli antichi Paesi evangelizzati dell’Occidente un «nemico», come lo chiamò Pio XII (10), che sferrò un attacco totale alla Chiesa, costringendola a cambiare il proprio stile pastorale: non più soltanto per evangelizzare meglio e salvare le anime — come era stato per esempio con la nascita degli ordini mendicanti nel secolo XII per rispondere al pauperismo diffuso dalle sette ereticali e per cercare e formare le anime nelle aree urbane dove si erano trasferite —, ma anche perché, con gli effetti della Riforma protestante e le conseguenti guerre di religione, l’apostolato dei cattolici doveva radicalmente adeguarsi a una situazione completamente mutata. Così, dalla Riforma cattolica del Concilio di Trento (1545-1563) nacque la cosiddetta «civiltà parrocchiale», ma anch’essa non sarebbe durata all’infinito, perché cinque secoli dopo i cristiani diventeranno una minoranza, e le parrocchie e i seminari non saranno più strumenti adeguati a evangelizzare la società ormai profondamente secolarizzata, e quindi da ri-evangelizzare, come indicherà il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965).
Sessant’anni dopo il Concilio, la sua «profezia» si è completamente avverata. I cristiani sono in minoranza in Europa e anche nel mondo occidentale, mentre la Chiesa cresce di numero e d’importanza in Asia e, soprattutto, in Africa. Non solo la cristianità è scomparsa, ma anche la civiltà moderna che l’aveva sostituita dopo il 1789 — quando inizia l’epoca delle ideologie — è venuta meno con la rimozione del Muro di Berlino nel 1989, esattamente duecento anni dopo la Rivoluzione francese.
La nostra è veramente una nuova epoca.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II
Il Concilio Vaticano II segna per diversi aspetti un nuovo atteggiamento pastorale della Chiesa di fronte a un mondo in grande trasformazione. L’allora don Ratzinger ne era consapevole, tanto da affermare, in una conferenza del 1959, che i cristiani praticanti, pur ancora numerosi, erano diventati in larga misura come dei pagani e che era quindi fuorviante illudersi circa l’esistenza di un’Europa cristiana (11). E vi era tutto un ambiente all’interno della Chiesa che, consapevole che la cristianità era finita e che bisognava riprendere la missione all’interno dei popoli di antica evangelizzazione, ormai sempre più lontani dalla fede, auspicava una nuova stagione missionaria. Fra questi il futuro Paolo VI (1963-1978), che da arcivescovo di Milano, nella Domenica delle Palme del 1963, così si rivolgeva ai propri sacerdoti diocesani: «La nostra riforma non deve consistere tanto in un’indulgenza verso lo stile di vita del nostro secolo, come se dovessimo diventare un sale insipido privo di reazioni cocenti ma salutari, quanto in un’affermazione vigorosa della nostra forma di vita originale e autonoma, come scaturisce dal Vangelo e dall’interpretazione concreta che ci viene data dall’esperienza ascetica e dalla legge canonica della Chiesa» (12).
Con il Concilio l’attenzione della Chiesa si spostava più tematicamente rispetto a prima anche verso i continenti dov’era in corso la prima evangelizzazione, Africa e Asia, dove, al contrario dell’Europa, il cristianesimo cominciava a essere in crescita. Inoltre, pochi anni dopo, la crisi del comunismo seguita alla rimozione del Muro di Berlino e alla fine della Guerra Fredda (1947-1991) avrebbe sì offerto nuovo spazio all’evangelizzazione, ma anche dato inizio alla stagione cosiddetta «post-moderna», caratterizzata dal declino delle ideologie novecentesche e dall’emergere, in Occidente, della «dittatura del relativismo», per usare le parole con le quali il futuro Papa Benedetto XVI ha voluto definire il tentativo di imporre un senso comune che non nascesse dalla ricerca della verità e non vedesse in ciò un compito fondamentale dell’uomo in quanto creatura voluta a immagine e somiglianza del Creatore: «Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero… La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde — gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4,14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» (13).
L’ultimo Concilio è passato alla storia come un evento rivoluzionario, che avrebbe cambiato radicalmente i connotati della Chiesa. Ma non è in questo senso che lo intendevano i Pontefici che lo hanno promosso e concluso. Due sono le parole-chiave per comprenderne la portata: «continuità» e «rinnovamento». Queste sono le finalità che il Magistero pontificio ha sempre cercato di indicare: sarà Benedetto XVI a definirle felicemente come «rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa» (14). Queste due parole sottolineano la necessità della riforma della Chiesa per far fronte ai grandi mutamenti avvenuti nelle società scristianizzate e, soprattutto, quella di riproporre in un modo più approfondito — cioè, rinnovato dal profondo — la dottrina di sempre della Chiesa e, contemporaneamente, la continuità che caratterizza la Chiesa stessa, che è e rimane il corpo di Cristo che opera per la salvezza degli uomini di tutti i tempi. Il mancato rispetto di queste due finalità, continuità e rinnovamento, ha prodotto un duplice vulnus alla Chiesa, dovuto allo scontro fra chi sottolinea soltanto la necessità del rinnovamento — fino a ipotizzare la nascita di una «nuova» Chiesa quasi separata da quella del passato — e coloro che invece sottolineano esclusivamente la continuità, quasi che la Chiesa non avesse bisogno di riforme per rendere più efficace il proprio messaggio — fino a ipotizzare il rifiuto integrale del Concilio e delle sue riforme.
Scopo del Concilio era invece — ed è tuttora, visto che i concili abbisognano di decenni per produrre tutti i loro effetti — l’accentuazione del carattere missionario della Chiesa, che avrebbe dovuto esprimersi prioritariamente anche e soprattutto riguardo ai Paesi di antica tradizione cristiana attraverso una «nuova evangelizzazione»: questo intento culminerà nel 2022 con l’istituzione di un apposito dicastero. Così pure, il Concilio voleva continuare a evangelizzare i cosiddetti «Paesi di missione», come l’India o il Giappone, dove la proposta cristiana era agli inizi o doveva essere ancora consolidata, come nell’Africa nell’età della decolonizzazione.
Secondo il Concilio avrebbero dovuto essere le stesse comunità cristiane ad «auto-evangelizzarsi», cioè a prendere o a riprendere quel fervore missionario, ad intra e ad extra, che sembrava essersi perduto nel clima di «autodemolizione» prodotto da una lettura dialettica — ergo contraria al Magistero — del Concilio, come sarà denunciato esplicitamente da Benedetto XVI e, a tratti, dai suoi predecessori. Modello della scelta della modalità missionaria è stato san Giovanni Paolo II, anzitutto con il suo esempio di infaticabile visitatore di tutti gli episcopati e i popoli della Terra, poi perché nel 1990 ha scritto l’enciclica Redemptoris missio per rilanciare il compito missionario ad gentes della Chiesa, e inoltre perché ha dedicato tanti discorsi alla nuova evangelizzazione.
Scrive il Pontefice nella Redemptoris missio: «Il Concilio Vaticano II ha inteso rinnovare la vita e l’attività della Chiesa secondo le necessità del mondo contemporaneo: ne ha sottolineato la “missionarietà” fondandola dinamicamente sulla stessa missione trinitaria. L’impulso missionario, quindi, appartiene all’intima natura della vita cristiana e ispira anche l’ecumenismo: “Che tutti siano una cosa sola…, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21).
«[…] Tuttavia, in questa “nuova primavera” del cristianesimo non si può nascondere una tendenza negativa, che questo Documento vuol contribuire a superare: la missione specifica ad gentes sembra in fase di rallentamento, non certo in linea con le indicazioni del Concilio e del Magistero successivo.
«[…] Il presente documento ha una finalità interna: il rinnovamento della fede e della vita cristiana. La missione, infatti, rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola! La nuova evangelizzazione dei popoli cristiani troverà ispirazione e sostegno nell’impegno per la missione universale» (15).
Il pontificato di Francesco
In questo contesto si deve leggere il programma del pontificato di Papa Francesco, volto a trasformare tutta l’attività pastorale in prospettiva missionaria, come esplicitamente indicato nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium: «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, “ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale”» (16).
Il punto di partenza del discorso di Papa Francesco è un concetto espresso più volte: «quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca» (17).
In che cosa consiste questo cambiamento d’epoca? Vi è stata un’epoca in cui il mondo si divideva in «un mondo cristiano da una parte e un mondo ancora da evangelizzare dall’altra». Questa è finita: «Le popolazioni che non hanno ancora ricevuto l’annuncio del Vangelo non vivono affatto soltanto nei Continenti non occidentali, ma dimorano dappertutto, specialmente nelle enormi concentrazioni urbane che richiedono esse stesse una specifica pastorale».
Non siamo più in un regime di cristianità e questo è un fatto, non un giudizio negativo sulla cosiddetta «Chiesa costantiniana», purtroppo così diffuso in certi ambienti intellettuali. Il Papa scrive qualcosa di differente, cioè afferma che è esistito un «passato glorioso» — non esente dal male e da errori — e oggi siamo di fronte a una situazione di crisi nella Chiesa: egli parla di «tensione tra un passato glorioso e un futuro creativo e in movimento» e fra le due epoche si trova il presente nel quale vivono i contemporanei e in cui i cristiani sono chiamati a cambiare la Chiesa in senso missionario anche se «[…] hanno bisogno di tempo per maturare».
«Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede — specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente — non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata».
Se l’analisi è vera, bisogna tenerne conto nell’apostolato. Si tratta di un passaggio psicologico sottile e importante.
Chi deve intraprendere la strada della «nuova evangelizzazione» deve adattare il proprio stile al nuovo compito. Altro è difendere la cittadella assediata, altro è annunciare Cristo a chi non lo conosce o lo ha rifiutato. In entrambi i casi sono l’amore di Dio e la Sua gloria che devono muovere, ma lo stile della proposta cristiana deve essere adeguato a un’epoca diversa: la Chiesa ha sempre modificato il proprio modo di comunicare la fede nelle diverse situazioni storiche. Se osserviamo la vita pubblica dell’epoca attuale, vediamo che non mancano le occasioni per difendere «pezzi» di senso comune ancora sopravviventi nella società — per esempio, relativamente ai cosiddetti «princìpi non negoziabili» — e soprattutto come ai cristiani di oggi spetti difendere la libertà religiosa dalle aggressioni dei fondamentalismi, sia islamico sia induista od ortodosso, nonché dal laicismo: una difesa della libertà religiosa che si estende, oltre alla religione, anche all’educazione e, in generale, al principio di sussidiarietà, cioè all’autonomia dei corpi intermedi rispetto all’invadenza dello Stato.
Tutto passa, dunque, dalla conversione di uomini che ne trovino altri con i quali costruire ambienti, necessariamente piccoli almeno all’inizio, che possano essere micro-cristianità nelle quali vivere la fede, educare i giovani e formare apostoli anche da un punto di vista culturale, cioè renderli capaci di dialogare con la società contemporanea, ostile ma non impermeabile alla proposta cristiana. Il dialogo può passare attraverso lo scontro culturale e politico, quando c’è da difendere uno spazio di libertà, per esempio, ma può anche essere semplicemente il modo di accostare una persona, frequentarla, parlarle, aiutarla a porsi delle domande importanti e infine, se Dio vuole, farla giungere alla fede. A quel punto sarà possibile iniziare un passaggio successivo, dalla fede a una cultura per comprendere che cosa accade nel mondo e cercare di orientare i movimenti della società. Inutile dire quanto quest’ultimo passaggio sia importante per evitare una fede astratta e individualistica, incapace di incidere sulla vita pubblica, ma anche come questo passaggio dalla fede alla cultura sia l’ultimo, cioè presupponga la conversione.
Come si arriva alla conversione?
Occorre innanzitutto che fra i cristiani maturi la convinzione che la conversione non dipende dalla capacità dei missionari. Ciò deve liberare gli animi dall’ansia del risultato e far riflettere però su che cosa si deve fare per rendere attrattivo il messaggio cristiano.
La prima cosa da fare è permettere, o favorire, che attraverso di noi si diffonda la speranza, che non è nostra ma si può servire di ciascuno di noi. Cioè, bisogna rendersi disponibili, cercare le situazioni dove operare, accostare le persone, stare loro vicini e, appena possibile, far loro comprendere l’importanza della formazione, perché se è vero che prima vi deve essere una conversione a Dio, avvenuta questa bisogna che il convertito non si rinchiuda in sé stesso ma capisca che deve donare quanto ha ricevuto e, se lo desidera, approfondire la fede scoperta e farla diventare una forza capace di migliorare il mondo circostante.
Aiutano queste parole di san Giovanni Paolo II, pubblicate dopo il Giubileo dell’anno 2000: «Ai discepoli, quasi facendo una sorta di primo bilancio della sua missione, Gesù chiede che cosa la “gente” pensi di lui, ricevendone come risposta: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o uno dei profeti” (Mt 16,14). Risposta sicuramente elevata, ma distante ancora — e quanto! — dalla verità. Il popolo arriva a intravedere la dimensione religiosa decisamente eccezionale di questo rabbì che parla in modo così affascinante, ma non riesce a collocarlo oltre quegli uomini di Dio che hanno scandito la storia di Israele. Gesù, in realtà, è ben altro! È appunto questo passo ulteriore di conoscenza, che riguarda il livello profondo della sua persona, quello che Egli si aspetta dai “suoi”: “Voi chi dite che io sia?” (Mt 16,15). Solo la fede professata da Pietro, e con lui dalla Chiesa di tutti i tempi, va al cuore, raggiungendo la profondità del mistero: “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente” (Mt 16,16)».
E ancora: «Com’era arrivato Pietro a questa fede? E che cosa viene chiesto a noi, se vogliamo metterci in maniera sempre più convinta sulle sue orme? Matteo ci dà una indicazione illuminante nelle parole con cui Gesù accoglie la confessione di Pietro: “Né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (16,17). L’espressione “carne e sangue” evoca l’uomo e il modo comune di conoscere. Questo modo comune, nel caso di Gesù, non basta. È necessaria una grazia di “rivelazione” che viene dal Padre (cfr ibid.). Luca ci offre un’indicazione che va nella stessa direzione, quando annota che questo dialogo con i discepoli si svolse “mentre Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare” (Lc 9,18). Ambedue le indicazioni convergono nel farci prendere coscienza del fatto che alla contemplazione piena del volto del Signore non arriviamo con le sole nostre forze, ma lasciandoci prendere per mano dalla grazia. Solo l’esperienza del silenzio e della preghiera offre l’orizzonte adeguato in cui può maturare e svilupparsi la conoscenza più vera, aderente e coerente, di quel mistero, che ha la sua espressione culminante nella solenne proclamazione dell’evangelista Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14)» (18).
Le minoranze creative
Il tema delle minoranze creative è stato posto da Benedetto XVI. Come abbiamo visto, egli aveva già intuito nel 1959 la crisi della fede in Germania, nella sua Baviera cattolica. E questa antica diagnosi offre lo spunto per riflettere sul fatto che la fede che non diventa cultura non è una fede accolta veramente, non è una fede che ha trasformato la vita. Entra così in gioco la dottrina sociale della Chiesa, grazie alla quale è possibile immaginare e costruire una società capace di aiutare — non di determinare — l’uomo a salvarsi e a santificarsi. Il punto di partenza rimane, però, sempre la persona: solo da essa può cominciare un percorso di conversione della società, passando attraverso piccoli risultati che possono crescere e diventare un fenomeno rilevante anche dimensionalmente.
«Direi che normalmente sono le minoranze creative che determinano il futuro, e in questo senso la Chiesa cattolica deve comprendersi come minoranza creativa che ha un’eredità di valori che non sono cose del passato, ma sono una realtà molto viva ed attuale. La Chiesa deve attualizzare, essere presente nel dibattito pubblico, nella nostra lotta per un concetto vero di libertà e di pace» (19).
Sta cambiando il modo di essere cristiani in Occidente. O, meglio, è cambiato da decenni, ma non ce ne siamo ancora accorti. Vi è sempre stata qualche giovane donna che invecchiando ha preso in chiesa il posto delle «vecchiette» che, si diceva, pregavano tanto che andavano in Paradiso. Certo, alla fine erano sempre di meno, ma ogni volta l’occhio si abituava. E si abituava, e dovrà abituarsi sempre più, alla riduzione del numero dei sacerdoti e delle Messe, al calo della presenza delle associazioni cattoliche nella vita pubblica. È ancora il Papa emerito a descrivere bene la situazione: «Oggi non si può più essere cristiani come semplice conseguenza del fatto di vivere in una società che ha radici cristiane: anche chi nasce da una famiglia cristiana ed è educato religiosamente deve, ogni giorno, rinnovare la scelta di essere cristiano, cioè dare a Dio il primo posto, di fronte alle tentazioni che una cultura secolarizzata gli propone di continuo, di fronte al giudizio critico di molti contemporanei.
«Le prove a cui la società attuale sottopone il cristiano, infatti, sono tante, e toccano la vita personale e sociale. Non è facile essere fedeli al matrimonio cristiano, praticare la misericordia nella vita quotidiana, lasciare spazio alla preghiera e al silenzio interiore; non è facile opporsi pubblicamente a scelte che molti considerano ovvie, quali l’aborto in caso di gravidanza indesiderata, l’eutanasia in caso di malattie gravi, o la selezione degli embrioni per prevenire malattie ereditarie. La tentazione di metter da parte la propria fede è sempre presente e la conversione diventa una risposta a Dio che deve essere confermata più volte nella vita» (20).
Il cambio d’epoca
Nell’attuale cambio d’epoca è avvenuto un fatto nuovo. Nel 1989, con la rimozione del Muro di Berlino, si avviava a conclusione la Guerra Fredda, cioè la contrapposizione fra il mondo delle libertà e il mondo del totalitarismo comunista sovietico. Sempre nel 1989, la Cina imboccava la strada opposta, reprimendo con la violenza del proprio esercito la richiesta di libertà degli studenti che riempivano piazza Tienanmen a Pechino: con essa nasceva una nuova metamorfosi del comunismo in Cina, nasceva un regime rigido come sempre nella sua applicazione del marxismo alla politica attraverso il ruolo egemone e di guida del partito unico, ma flessibile sul piano economico-finanziario, che concedeva libertà di lavoro e di impresa che consentiranno un colossale sviluppo economico e tecnico al Paese, che diventerà la seconda potenza industriale e commerciale del pianeta. È importante studiare la metamorfosi della Cina per capire i nostri giorni.
Il mondo post 1989 non era il mondo del benessere promesso dalla globalizzazione: riesplodevano i nazionalismi, con le guerre nella ex-Iugoslavia degli anni 1990, si verificava la tragedia del Ruanda, con l’assassinio di ottocentomila persone di etnia tutsi dal 7 aprile al 15 luglio 1994, si estendeva a tutto il mondo musulmano la rivoluzione fondamentalista — che ha avuto un momento significativo nella rivoluzione iraniana del 1979 —, alla base del terrorismo anti-occidentale e anti-israeliano dei decenni successivi, culminato nell’attentato islamistico alle Torri gemelle di New York, l’11 settembre 2001.
Giovanni Cantoni (1938-2020) ha seguito e ha invitato a studiare ogni passaggio della metamorfosi del processo rivoluzionario in Occidente, combattendo contro quella che Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) aveva chiamato la «quarta fase» della Rivoluzione occidentale, che non si limitava alla legalizzazione del divorzio e dell’aborto procurato e alla diffusione delle droghe, ma andava oltre, come si poteva intuire già nel 1968, arrivando a colpire l’identità intima dell’uomo soprattutto con la diffusione dell’ideologia gender.
Tuttavia, mentre in Occidente continuava il processo meccanico della corruzione del costume e del pensiero, anche attraverso significativi passaggi legislativi che avrebbero favorito un deciso allontanamento dall’umano, cioè da una corretta antropologia naturale e cristiana, attorno e contro il sistema politico dei Paesi occidentali nasceva una narrazione di tipo fondamentalista che preludeva a un’alleanza politica e militare, nel nome della lotta contro l’Occidente corrotto e «satanista», che oggi unisce Cina, Russia, Corea del Nord e Iran in una lotta totale, cioè non solo militare, contro l’Occidente. Nel febbraio 2022, questa lotta diventava una vera e propria guerra, un «pezzo» della guerra mondiale a «pezzi» di cui parla spesso il Santo Padre, con l’«operazione militare speciale» contro l’Ucraina da parte della Federazione Russa.
Dentro questo quadro vanno letti gli avvenimenti dei nostri giorni. È vero che l’Occidente continua a farsi del male con i provvedimenti diabolici di alcune delle sue più importanti classi dirigenti, per esempio con l’introduzione del «diritto d’aborto» nella Costituzione francese, ma è anche vero che, se non riusciamo a leggere questo processo di autodemolizione dentro il grande quadro internazionale che si sta delineando, forse non riusciamo neppure a cogliere quei segnali piccoli e grandi di risveglio rilevabili all’interno dell’Occidente.
Il grande sforzo di Cantoni è sempre stato quello di invitarci a essere «dentro» la storia, cercando di prestare attenzione ai movimenti di coloro che reagiscono di fronte al male che dilaga, anche se con strumenti inadeguati e a volte discutibili. È reale il rischio di diventare collezionisti di cimeli di un «passato glorioso» o «leoni della tastiera» che esprimono il proprio rancore e la propria frustrazione sui social media invece che «stare dentro» quello che accade, parlando con la gente e cercando di fare apostolato. Questo rischio può entrare dentro di noi se non stiamo attenti; si può nascondere sotto diverse tentazioni, come angelo di luce che ci porta nelle tenebre dell’irrilevanza.
Il nostro Occidente è gravemente ammalato nelle sue classi dirigenti e nella sua cultura dominante, e tuttavia è odiato e combattuto da chi lo vuole annientare e non solo «convertire». Non abbiamo apprezzato i terroristi islamici che hanno attaccato il cuore di alcune capitali europee, come Madrid e Parigi, e non dobbiamo diventare fondamentalisti ortodossi seguendo il Patriarca di Mosca Kirill I e Vladimir Putin, che incitano alla «guerra santa» contro l’Occidente «satanista». Anzitutto, perché l’unica guerra che il cristianesimo ammette come lecita è quella per difendersi e non per imporre i propri valori. È paradossale negare al popolo ucraino il diritto alla legittima difesa e contemporaneamente accettare come cristiana l’«operazione militare speciale» voluta dalla Federazione Russa, con i sistematici bombardamenti della popolazione civile, il rapimento dei bambini ucraini, l’uccisione di soldati prigionieri, la mancanza di libertà religiosa nelle zone occupate dall’esercito russo, per fare alcuni esempi.
In secondo luogo, il progetto del «Mondo russo» è inaccettabile perché i valori proposti dalla sinfonia fra Chiesa e Stato in Russia sono quelli di un nazionalismo imperialista ortodosso, che dall’inizio del secondo Millennio sfidano la Roma cristiana, sede di Pietro, in nome della «Terza Roma» ortodossa e scismatica. Anche oggi noi saremo cum Petro e sub Petro, sempre e comunque.
La necessità del fervore
Ritorno all’inizio del ragionamento. Una «nuova evangelizzazione» è la soluzione per uscire dalle difficoltà dell’autodemolizione. Nuova nel fervore soprattutto, con la dottrina di sempre, e nuova per il linguaggio, lo stile e quanto possa servire a rendere attrattiva la proposta di fede. Ma oggi manca a molti cattolici occidentali il fervore, un dono che non si compra, ma si chiede a Dio, come la più grande delle grazie. Quando negli Anni 1990, dopo la caduta del Muro di Berlino, il radicale cambiamento della situazione mondiale indusse in molti cuori una sorta di rilassamento, come se fosse scomparso il pericolo, all’interno dei gruppi di Alleanza Cattolica provammo a dar vita a una sorta di «ristretto di fervore», per usare un’espressione tipica delle Congregazioni mariane, il «terz’ordine» della Compagnia di Gesù. Servì molto, credo, e potrebbe tornare utile ancora oggi.
Marco Invernizzi
Note:
1) Cfr. Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, Enchiridion della nuova evangelizzazione. Testi del Magistero pontificio e conciliare 1939-2012, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012.
2) Card. Joseph Ratzinger, Omelia durante la Messa pro eligendo Romano Pontifice, 18-4-2005.
3) Cfr. il mio La crisi nella Chiesa e la nuova evangelizzazione, in Cristianità, anno LII, n. 426, marzo-aprile 2024, pp. 3-39.
4) Benedetto XVI, Discorso alla veglia di preghiera per la beatificazione del cardinale John Henry Newman, Londra 18-9-2010.
5) Cfr. «Itemque deinde: “Qui est imago Dei invisibilis” (Col 1, 15)» (Giovanni Paolo II, Enciclica «Redemptor hominis», 4-3-1979). Sono diversi i richiami alla persona in Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005, 2a ristampa 2016: cfr. parte prima, capitolo primo, III. La persona umana nel disegno d’amore di Dio, e capitolo terzo, La persona umana e i suoi diritti.
6) Francesco, Omelia «La fede va trasmessa, va offerta, soprattutto con la testimonianza» durante la celebrazione mattutina trasmessa in diretta dalla cappella di Casa Santa Marta, 25-4-2020.
7) Ibidem.
8) Francesco, Angelus del 16-6-2024.
9) Paolo Siniscalco, Il cammino di Cristo nell’impero romano, Laterza, Roma-Bari 2009, nuova ed. ampliata, p. 46.
10) Cfr. Pio XII, Agli uomini di Azione Cattolica, 12-10-1952.
11) Cfr. J. Ratzinger, I nuovi pagani e la Chiesa, trad. it. in Cristianità, anno XLV, n. 384, marzo-aprile 2017, pp. 29-40.
12) Cit. in Yves Chiron, Paolo VI. Un Papa nella bufera, trad. it., Lindau, Torino 2014, p. 232.
13) J. Ratzinger, Omelia durante la Messa pro eligendo Romano Pontifice, cit.
14) Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22-12- 2005.
15) Giovanni Paolo II, Lettera enciclica «Redemptoris missio» circa la permanente validità del mandato missionario, del 7-12-1990.
16) Francesco, Esortazione apostolica «Evangelii gaudium» sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, del 24-11-2013, n. 27.
17) Idem, Discorso alla Curia Romana per gli auguri natalizi, 21-12-2019. Fino a diversa indicazione le citazioni che seguono sono tratte da questo documento.
18) Giovanni Paolo II, Lettera apostolica «Novo millennio ineunte» al termine del Grande Giubileo dell’Anno Duemila, del 6-1-2001, nn. 19-20.
19) Benedetto XVI, Intervista durante il volo verso la Repubblica Ceca, 26-9-2009.
20) Idem, Udienza generale, 13-2-2013.