Di Giulio Meotti da Il Foglio del 12/01/2022
Una “colonizzazione ideologica che non lascia spazio alla libertà di espressione e che oggi assume sempre più la forma di quella cancel culture, che invade tanti ambiti e istituzioni pubbliche”. Il pensiero di Papa Francesco (“con la cancel culture si va elaborando un pensiero unico – pericoloso – costretto a rinnegare la storia, o peggio ancora a riscriverla in base a categorie contemporanee, mentre ogni situazione storica va interpretata secondo l’ermeneutica dell’epoca, non l’ermeneutica di oggi”) non sembra essere arrivato a Berlino.
Dove “la nuova edizione del politicamente corretto chiamata ‘wokismo’ si sta diffondendo rapidamente come Omicron”. Così si apre un articolo della Frankfurter Allgemeine Zeitung. Non parla del “singhiozzo del gendering”, ma del famoso Museo Brücke di Berlino, la culla dell’espressionismo. Si parla delle maschere dell’Africa e delle sculture dell’Oceania negli studi di Picasso e Braque che furono l’ispirazione per la nascita del cubismo e del soggiorno di Paul Gauguin a Tahiti, fino a Emil Nolde e Max Pechstein, che viaggiarono rispettivamente in Nuova Guinea e Palau per conto dell’Ufficio imperiale coloniale. Se si crede ai curatori e ai commentatori della mostra del Brücke, che è stata esposta anche a Copenaghen e Amsterdam, “la nascita dell’arte moderna è stata una caduta in disgrazia, un disastro morale che ha trasformato gli artisti in cerca di nuove strade in complici del dominio coloniale”. Visto in questa luce, scrive la Faz, “tutto è arte saccheggiata, così che i greci abbiano imparato dagli egiziani, i romani dai greci, non era uno scambio culturale ma un furto”. Spiega la Faz che la presunzione di innocenza è sostituita dal motto in dubio contra reum, “soprattutto quando si tratta di uomini bianchi e vecchi. Ai moralisti accusatori non viene in mente che sia i nazionalsocialisti che gli stalinisti abbiano perseguitato e bandito come decadente o reazionaria la stessa arte di cui ora negano la legittimità”. Il fatto che Nolde abbia poi assecondato i nazisti non lo ha salvato dalla classificazione come “degenerato”, compreso il divieto di dipingere.
Già due anni fa, sul New York Times ci si chiedeva: “Is it time Gauguin got canceled?”. E alla National Gallery di Londra, sotto la tela “Merahi metua no Teha’amana” (Gli antenati di Tehamana) del 1893, che ritrae la prima moglie di Paul Gauguin, ai visitatori si spiegava che “l’artista ha sicuramente sfruttato la sua posizione privilegiata di uomo occidentale per ottenere la massima libertà sessuale. All’epoca di Gauguin, erano molto diffuse le fantasie misogine dell’Europa coloniale sulle donne polinesiane”. The Art Newspaper si è chiesto se la storia dell’arte non stia diventando un po’ troppo woke (Yale ha persino abolito il suo corso di storia dell’arte perché “troppo bianco ed eurocentrico”). Ai musei inglesi è stato appena detto che le loro collezioni sono “razziste” e hanno bisogno di essere “decolonizzate” in una nuova guida dell’Associazione dei musei, “Sostenere la decolonizzazione nei musei”. Siamo ai musei MeToo. “I critici postcoloniali – conclude la Faz – ignorano il contesto dell’arte e falsificano la storia nel senso della correttezza politica di oggi, che si spera sia presto un ricordo del passato”.