Da Centrostudilivatino.it del 08/02/2018. Foto da articolo
“Il prete non fa sociologia, ma converte i mafiosi nel silenzio ricordando il giudizio di Dio”. Il procuratore aggiunto di Napoli Nord Domenico Airoma boccia senza appello il documento presentato dal Tavolo 13 su Mafia e Religione che ha visto protagonista, per conto del Ministro Andrea Orlando, la Scuola di Bologna di Alberto Melloni. Un tavolo stigmatizzato dal segretario della Cei Nunzio Galantino per quel giudizio “banale e arrogante” sulla scarsa attività antimafia fatta dalla Chiesa italiana.
E ora criticato fortemente da un addetto ai lavori: un magistrato antimafia che è prima di tutto un cattolico e non si vergogna di esserlo. Perché questo è quanto gli ha insegnato il giudice Rosario Livatino, il servo di Dio ucciso dalla Mafia. Oggi Airoma è vicepresidente del Centro Studi Livatino, un gruppo di giuristi, magistrati, avvocati e docenti universitari che si ispirano alla testimonianza etica e professionale del magistrato ucciso da mafiosi il 21 settembre 1990, mentre si recava al lavoro al Tribunale di Agrigento.
Il Centro Studi approfondisce in particolare i temi della vita, della famiglia e della libertà religiosa, avendo come quadro di riferimento il diritto naturale.
E proprio Livatino è il protagonista di questa intervista con La Nuova BQ. Perché il comitato nominato dal ministro Orlando, nell’elencare gli uomini di Chiesa che hanno fatto antimafia, da don Pino Puglisi a don Peppe Diana, ha dimenticato la figura del “giudice ragazzino”. Una dimenticanza strategica, come si scopre da questa intervista, perché Livatino era tutto ciò che non è la cultura antimafia militante che ha prodotto questo documento con il placet dell’Arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice e che tra le varie proposte avanza persino l’ipotesi di un monitoraggio delle prediche dei sacerdoti per imporre un postulato falso, quello di una Chiesa in silenzio, quando non addirittura complice, sui fatti di Mafia.
Airoma parte invece da una prospettiva diversa. E lo fa proprio citando Livatino.
Signor Procuratore, perché secondo lei Livatino non è stato citato come modello in quel documento?
Perché era ed è ancor oggi una figura scomoda. Rosario Livatino rappresenta il tentativo di superare la schizofrenia che affligge il magistrato secondo la quale la fede deve essere un fatto eminentemente privato.
Visti gli estensori del documento, fortemente imperniati di “dossettismo”, non c’è da stupirsi.
Secondo questa vulgata al magistrato è concesso di sostenere determinate convinzioni nel campo culturale e morale, ma questo deve essere esclusivamente coltivato in ambito spirituale o cultuale, non deve in nessun modo ricadere sull’esercizio della pubblica funzione. In questo modo il magistrato cattolico deve nascondere la sua appartenenza.
Invece Livatino fu un cristiano e poi un giudice.
E questo dà fastidio. Era scomodo perché era riservato e schivo, non ha mai rilasciato interviste sulle inchieste né convocato conferenze stampa. E ha scritto appena due libri. Proprio il contrario del protagonismo di certi esponenti della magistratura oggi.
Ci parli dei libri…
Uno sul ruolo del giudice nella società che cambia e uno su fede e diritto. Entrambi libri scomodi che assumono un carattere profetico.
Ad esempio?
Nel primo libro diceva che il giudice non può essere protagonista aperto o subdolo di cambiamenti politici, pur non negando che deve avere una visione culturale, ma questa non deve mai spingersi a strumentalizzare la sua funzione per affermare la propria visione. Però – e questo lo ribadiva a chiare lettere – non lo esime dal dovere di sostenere le proprie idee.
“Protagonista di cambiamenti politici?”. Per essere stato scritto dieci anni prima di Tangentopoli niente male…
Ma il suo sguardo profetico non si ferma qui. Si poneva l’urgenza di affrontare temi che oggi sono di bruciante attualità, come l’eutanasia, l’obiezione di coscienza, la fecondazione artificiale…
Ma che sono però temi cattolici…
Certo, ma sosteneva che erano temi che qualsiasi giurista anche non cattolico poteva affrontare e risolvere alla luce del diritto naturale. Oggi invece certe obiezioni vengono liquidate perché solo cattoliche. Falso.
Un ratzingeriano ante litteram.
E’ una definizione che gli si può attribuire senza problemi. In Fede e Diritto vede chiaramente il rapporto tra fede e ragione. Il rapporto con la fede lo ha concepito in questo modo e il punto centrale della causa di beatificazione è proprio questo: il concepire la sua funzione di giudice come una vocazione, una missione.
Crede che potrebbe essere beatificato perché martire in odium fidei?
Assolutamente sì. Giovanni Paolo II lo definì un martire della giustizia fino all’estremo sacrificio. Livatino faceva giustizia perché era giusto.
Dunque nell’elenco del ministero dei testimoni antimafia della Chiesa non avrebbe sfigurato?
Le dirò di più: per certi aspetti doveva essere in testa a questo elenco, noi abbiamo bisogno di modelli e Rosario è modello per eccellenza, non solo per noi giudici: ci insegna a superare il male dell’uomo contemporaneo indicando il senso del limite, il contrario del giudice attivista o militante. Diceva che il giudice deve essere indipendente, ma soprattutto deve apparire indipendente.
Che cosa pensa, alla luce del sacrificio di Livatino, che era un figlio di quella Chiesa oggi tirata in ballo, della tesi secondo cui la Chiesa italiana non avrebbe fatto a sufficienza contrasto alla Mafia? Al di là di questo documento sembra che la Chiesa viva una sorta di complesso di inferiorità.
Non c’è nessun complesso di inferiorità nei confronti dello Stato. Livatino ci mostra che il cristiano non deve rinchiudersi in una riserva indiana, ma deve ravvivare le istituzioni con la luce che trasmette la sua fede. Diceva spesso: “Il mio mestiere è decidere, ma non posso decidere se sono al buio. Per decidere ci vuole la luce, ma nessun uomo è luce a se stesso”.
Che cosa pensa del tentativo di monitorare le prediche in chiave antimafia?
Mi chiedo soltanto dove vuole portare questo accanimento nei confronti della Chiesa. Io sono stato impegnato in Calabria e in Campania e ho visto come gli uomini di Chiesa vengano odiati letteralmente dalla malavita quando fanno il loro mestiere, che non è quello di essere succursali di una procura.
Bensì…?
Di ricordare che un giorno verrà il giudizio di Dio. Non saremo mai abbastanza grati a Giovanni Paolo II che mise i mafiosi di fronte al giudizio ultimo, Inferno o Paradiso. Nel mio lavoro ho visto tante volte come i giovani siano stati sottratti alle logiche mafiose proprio perché ci sono stati uomini di Chiesa che hanno insegnato questa verità ultima, questo giudizio ineluttabile.
Oggi però se un prete non parla della Mafia secondo certi schemi è tagliato fuori e su di lui piomba il pregiudizio…
I preti non devono fare sociologia né la Chiesa si può annacquare ad essere una sorta di sede distaccata di Libera, con rispetto parlando. No, il compito della Chiesa è un altro.
Ha conosciuto sacerdoti antimafia secondo questi criteri?
Tantissimi e hanno tutti una caratteristica.
Quale?
Il nascondimento. Ho visto molti mafiosi convertirsi realmente grazie alla vicinanza di preti che hanno annunciato loro con fermezza i principi evangelici, senza sconti né ambiguità, anzi, a volte pagando di tasca loro.
Eppure di loro non si sa nulla…
Perché non hanno scritto trattati di sociologia, non sono andati in televisione, ma nel segreto di un confessionale hanno aperto il Cielo a uomini disperati. La lettura che è stata data sul tema Mafia e Religione è totalmente fuorviante: la Chiesa vuole convertire il mafioso, denunciarlo o condannarlo in terra spetta alla giustizia. Oggi invece sembra interessare di più – e il documento lo evidenzia – una Chiesa che assume l’aspetto di agenzia sociologica.
Livatino si sentiva figlio di questa Chiesa?
Al cento per cento. E aveva una chiara idea di come il fenomeno mafioso si fosse radicato, non certo per colpa della Chiesa.
Ad esempio?
Secondo una certa sociologia la Mafia si nutre di familismo come vincolo impregnato di omertà e di autoritarismo in rapporto alla religione. Ma se questo fosse vero, le ragioni che determinano il successo di mafia e camorra, con la secolarizzazione, la crisi della famiglia e della fede, farebbero estinguere da solo il fenomeno malavitoso. Invece non è così.
Perché?
Perché la Mafia si alimenta con la cultura relativista dominante. Se non esiste più una verità, se il confine tra giusto e sbagliato non c’è, per quale motivo un giovane dovrebbe rigettare di essere mafioso? Ricordo quanto mi disse un giovane camorrista che interrogai in carcere…
Cosa?
Sapeva che non sarebbe uscito, io continuavo a fargli domande su ciò che lo aveva spinto a diventare, lui giovane di buona famiglia, un affiliato.
Quindi?
A parte che questo dovrebbe fare riflettere sulle cause cosiddette “economiciste” che vengono sposate per giustificare la Mafia. Comunque, mi disse: “Dottore, vede, io so che questa è una strada senza uscita, ma i segnali li avete tolti voi”. Questa risposta vale più di tanti trattati di sociologia perché mostra come un uomo, se perde la distinzione tra bene e male, poi entra in una strada senza uscita. E questo Livatino l’aveva capito prima di tutti.
Andrea Zambrano