MASSIMO INTROVIGNE, Cristianità n. 234 (1994)
L’espansione tutta particolare di alcuni nuovi movimenti religiosi negli ultimi anni — anche al di fuori delle loro terre di origine — pone alla Chiesa cattolica il problema urgente di una vigilanza e di una difesa dei propri fedeli, che non può non passare anche per la riscoperta della disciplina — da tempo inopportunamente trascurata — dell’apologetica. Nei confronti dei nuovi movimenti religiosi la difesa apologetica della fede esige, tuttavia, anzitutto che la storia, la dottrina e le attività di ciascun movimento siano correttamente rappresentate, per mostrarne poi i punti di divergenza con la verità cattolica. Quanto più un nuovo movimento religioso è ricco di membri, bene organizzato e culturalmente agguerrito, tanto più una buona apologetica dovrà porre estrema attenzione a evitare nella sua rappresentazione di fatto errori anche di dettaglio — e tanto più di sostanza — che finiscono inevitabilmente per gettare ombre anche sui successivi elementi di giudizio. Aggiungo che la corretta descrizione del nuovo movimento religioso, se è indispensabile per esercitare nei suoi confronti la necessaria vigilanza in chiave apologetica, lo è ancora di più come base per quel dialogo che — con le cautele e le precauzioni del caso — il Magistero della Chiesa suggerisce oggi di estendere anche a quei nuovi movimenti religiosi che non lo rifiutino oppure lo manipolino sistematicamente (1).
Questa premessa giustifica alcune osservazioni critiche in merito a un editoriale comparso sul numero del 16 luglio 1994 della rivista La Civiltà Cattolica con il titolo I Mormoni: chi sono? In che cosa credono? (2). Avverto — per quanto fosse eventualmente necessario — di non aver alcuna intenzione di “rispondere” all’articolo in questione come potrebbe rispondere un esponente della comunità mormone. Al contrario, ho già avuto occasione di far stato altrove delle “divergenze fondamentali” che, come cattolico, ho — evidentemente — “nei confronti della teologia e del proselitismo mormone” (3). Proprio perché non condivido pressoché nulla delle premesse filosofiche, delle conseguenze teologiche e del metodo missionario dei mormoni, mi preoccupo che essi vengano correttamente rappresentati, in quanto — come ho accennato — la non corretta rappresentazione mina alla radice ogni apologetica e, insieme, ogni possibilità di quel dialogo che — alle condizioni opportune — lungi dal negare l’apologetica è a questa strettamente solidale. Nella prima parte elencherò, nel modo più breve possibile, alcune — fra le molte — imprecisioni ed errori di fatto dell’editoriale de La Civiltà Cattolica. Le relative osservazioni — che potrebbero parere di mero dettaglio, quasi che a tutti i costi si volesse cercare “il pelo nell’uovo”: un “pelo”, peraltro, che si ritrova così frequentemente da far sorgere dei dubbi sulla qualità dell’uovo — acquisteranno un più preciso significato nella seconda parte, relativa ai problemi metodologici che suscita l’editoriale in questione. Infine, dedicherò qualche brevissimo commento anche agli elementi di giudizio formulati a conclusione dell’editoriale.
I. I fatti
1. L’editoriale si apre rilevando che i mormoni “nel 1989 nel mondo erano oltre sette milioni e in Italia circa 14.000” con circa “28.000 missionari” e una crescita annuale di circa “200.000 persone” (p. 107). Ci si chiede perché siano state usate statistiche del 1989, dal momento che l’ultimo annuario della Chiesa mormone (4), datato 1993-1994, e contenente le statistiche fino a tutto il 1991, è stato pubblicato nel 1992 (5); e l’edizione italiana del mio volume I Mormoni — che è del 1993 e di cui uno dei co-editori, la Libreria Editrice Vaticana, ha sede non lontano da La Civiltà Cattolica — riporta ampie tavole statistiche aggiornate al 1992. I dati, inoltre, sono parzialmente sbagliati anche se riferiti al 1989. La crescita annua fra il 1988 e il 1989 era stata di oltre 500.000 membri battezzati, non “200.000”; i missionari in quell’anno erano 39.739, non “circa 28.000”, ed erano nel 1991 43.395 (6). Per la cronaca, i membri della Chiesa mormone hanno superato gli otto milioni nel 1992 e si avviano a raggiungere i nove milioni.
2. Uno degli errori più gravi si trova nel terzo e nel quarto paragrafo dell’editoriale, dove — dall’opuscolo missionario Joseph Smith racconta la sua vita e non dalla fonte primaria che è l’ufficiosa ma autorevole History of the Church in sei volumi, attribuita allo stesso Joseph Smith ma di fatto compilata dall’influente dirigente Brigham H. Roberts (1857-1933) sulla base dei diari e delle note del fondatore — si riporta che Joseph Smith ottenne dall’angelo le “tavole d’oro” — da cui poi avrebbe “tradotto” il Libro di Mormon — il 22 settembre 1827 e che più tardi dichiarò: “Quando il messaggero venne a reclamarle, io gliele rimisi, ed egli le ha in suo possesso sino a questo giorno, che è il 2 maggio 1838”. L’editoriale conclude: “Così Joseph Smith ebbe undici anni per tradurre le tavole d’oro” (p. 108). Ma non è affatto così. Se si consulta History of the Church I, 3 — da cui vengono le espressioni virgolettate — diventa evidente che Joseph Smith dichiara di avere restituito le tavole all’angelo “appena ebbi finito quello che dovevo fare con loro”, cioè la “traduzione” del Libro di Mormon, terminata certamente prima dell’agosto del 1829, quando il manoscritto fu consegnato al tipografo E. B. Grandin (7). Dunque l’angelo, secondo Joseph Smith, “le ha in suo possesso” da una data del 1829 precedente il mese di agosto “sino a questo giorno, che è il 2 maggio 1838”, che non è affatto la data della consegna all’angelo ma la data di redazione del manoscritto da cui Roberts trasse il capitolo 3 del volume I di History of the Church, come del resto risulta da una nota a pie’ di pagina dopo la menzione di tale data (8). Gli “undici anni” di traduzione diventano così un anno e undici mesi, il che è tutt’altro che irrilevante per la polemica sulle tavole d’oro a cui l’editoriale dedica ampio spazio (9).
3. L’episodio della banca di Kirtland, creata dal fondatore dei mormoni e che fallì sconcertando molti seguaci — tanto che rischiò di chiudere la carriera di Joseph Smith nel 1837 — ha un’importanza decisiva. L’editoriale ci informa che il profeta mormone “nel febbraio del 1837 crea una banca asserendo di avere in deposito delle casse piene d’argento in realtà inesistenti; ma la banca fallisce l’anno dopo” (p. 111). In realtà la Kirtland Safety Society Bank venne fondata — in un periodo di caos bancario nell’Ohio — il 2 novembre 1836, non nel 1837. Quando lo Stato dell’Ohio — che stava cercando di mettere ordine nella situazione bancaria — rifiutò di autorizzare la banca di Kirtland, Joseph Smith e i suoi collaboratori trasformarono la Kirtland Safety Society Bank in una società “contro le banche“, che invitava i clienti a evitare il caos bancario rivolgendosi invece a una cooperativa che, in sostituzione della moneta, emetteva “note”, non “banconote“, e le faceva circolare fra i soci, la Kirtland Safety Society Anti-Banking Company, che iniziò a operare il 6 gennaio 1837. L’iniziativa era probabilmente illegale, e l’”anti-banca” dovette chiudere nel novembre del 1837 — non nel 1838 —, creando gravi perdite ai clienti che si erano fidati di Joseph Smith e allo stesso fondatore dei mormoni. La storia secondo cui Joseph Smith nel 1837 cercò di salvare l’”anti-banca” non, come scrive l’editoriale, “asserendo di avere in deposito delle casse piene d’argento”, ma — per la precisione — mostrando forzieri che sotto un primo strato di monete d’argento contenevano sabbia e altro materiale è certamente divertente: è apparsa per la prima volta in uno dei più violenti pamphlet anti-mormoni degli anni 1840, The Mormons; Or, Knavery exposed, di E. G. Lee ed è stata ripetuta da numerose fonti dello stesso genere. Ma l’origine sospetta di questo resoconto avrebbe forse dovuto essere segnalata (10).
4. Poco dopo l’episodio di Kirtland, l’editoriale ci informa che Joseph Smith “fugge nel Far West (Missouri)” (p. 111). Nel Far West? L’espressione ha una evidente capacità evocativa romantico-cinematografica, ma in realtà Far West era semplicemente il nome di una cittadina del Missouri che per qualche tempo svolse il ruolo di capitale del piccolo regno mormone. Nonostante la fuga “nel Far West”, prosegue l’editoriale, Joseph Smith “è arrestato a Liberty (Missouri) il 20 marzo 1839”, dopo di che riesce a fuggire “mentre viene trasportato nella Contea di Boone per il processo” (p. 111). Ma Joseph Smith non poteva venire arrestato il 20 marzo 1839 per la buona ragione che si trovava già in carcere. Arrestato il 29 ottobre 1838, era entrato nella prigione di Liberty nella notte fra il 30 novembre e il 1° dicembre 1838 dopo essere stato processato una prima volta a Richmond. Fuggì mentre veniva trasportato nella contea di Boone per un secondo processo, da non confondere con il primo (11).
5. Secondo l’editoriale nella rivelazione del 12 luglio 1843 relativa alla poligamia si affermerebbe “che tutti i membri maschi della Chiesa di Cristo devono avere più mogli, pena maledizioni e dannazione” (p. 112). Qui la celebre Sezione 132 di Dottrina e Alleanze è stata letta superficialmente. È vero che la rivelazione minaccia Joseph Smith: “[…] Se non ti sottometti a tale alleanza, sarai dannato; poiché non v’è nessuno che possa rigettare questa alleanza ed essere ammesso nella mia gloria”. Ma l’“alleanza” di cui si parla è l’alleanza matrimoniale in genere destinata a essere consacrata nel tempio mormone per tutta l’eternità, e non necessariamente la poligamia. La rivelazione comprende certamente una svalutazione radicale del celibato: chi rimane celibe di fatto non potrà accedere ai gradi più alti della gloria, e chi rifiuta il matrimonio per ragioni di principio rischia perfino di essere “distrutto” — o “dannato”: ma sarebbe bene precisare per il lettore non mormone che l’espressione non ha lo stesso senso rispetto alla dottrina cattolica. Non viene invece affatto ordinato a tutti i fedeli mormoni maschi di entrare nella poligamia; al contrario — come recita uno dei sottotitoli della Sezione 132 — “la pluralità delle mogli è accettabile soltanto quando è comandata dal Signore” tramite la sua Chiesa. La Sezione 132 è già di per sé chiara, ma che venisse interpretata in questo senso è confermato dalla pratica dei mormoni: nello Utah, fra il 1852 e il 1890 — quando la poligamia veniva praticata apertamente —, meno del dieci per cento dei fedeli mormoni maschi chiese o venne autorizzato dalla gerarchia ad avere più di una moglie. Sembra che gli autori dell’editoriale non abbiano familiarità con l’ampia letteratura contemporanea in tema di poligamia che ne sottolinea, a fronte del grande significato simbolico come segno della “diversità” dei mormoni, l’incidenza demografica relativamente scarsa (12).
6. A proposito dell’assassinio di Joseph Smith nel 1844 l’editoriale sembra riconoscere qualche ragione agli “avversari” di Joseph Smith, dal momento che la “Legione mormone” si stava preparando “a scatenare una guerra civile” (p. 112). Dal punto di vista militare la Legione di Nauvoo — era questo il nome della milizia di Joseph Smith, e non “Legione mormone” — non sarebbe stata in grado di scatenare nessuna “guerra civile”, tanto che non fu in grado d’impedire il linciaggio del suo capo. Soprattutto, gli avvenimenti del 1844 — e degli anni precedenti — devono necessariamente essere inquadrati nel contesto di una persecuzione scatenata contro i mormoni per motivi in gran parte economici e politici, anche se giustificata da ragioni o pretesti religiosi. In un testo che ho già avuto occasione di citare e che costituisce la più dura requisitoria contro la figura, il carattere e i motivi di Joseph Smith, la storica Fawn Brodie dichiara tuttavia che “pochi episodi nella storia religiosa americana offrono un parallelo alla barbarie delle persecuzioni anti-mormoni” che — a partire dall’epoca del Missouri — presentano una tragica sequela di massacri — anche di “donne e bambini” —, incendi e stupri di massa (13). Non v’è dubbio che i mormoni abbiano reagito, talora con notevole violenza, ma descrivere gli incidenti del Missouri e dell’Illinois senza fare cenno alla “barbarie” della persecuzione anti-mormone rischia, per dire il meno, di non far comprendere in modo adeguato le ragioni del conflitto.
7. L’editoriale afferma che, dopo la morte di Joseph Smith, “il movimento non si spense, poiché trovò subito un nuovo capo — Brigham Young” (p. 112). L’uso dell’avverbio “subito” è certamente fuorviante: perché Brigham Young venisse proclamato presidente della Chiesa mormone occorsero tre anni, dal 1844 al 1847, nel corso dei quali si contrapposero almeno sei fazioni, ciascuna delle quali aveva un suo candidato. Lo studio di questa lotta per la successione è essenziale per comprendere come accanto alla Chiesa mormone maggioritaria esistano oggi decine di denominazioni mormoni minori, fra cui almeno una — la Chiesa riorganizzata — conta oltre centomila seguaci e ha una notevole importanza culturale e sociologica nel Missouri (14). Sempre a proposito di Brigham Young, l’arrivo delle “carovane mormoni” presso il Lago Salato viene posto “nel luglio 1848” (p. 112). Continuano le difficoltà con le date: infatti, l’arrivo presso il Lago Salato avvenne il 24 luglio 1847, ancor oggi commemorato dalla principale festa dello Stato dello Utah (15).
8. Venendo all’organizzazione della Chiesa mormone, l’editoriale informa che, fra le cariche direttive, “c’è poi un Patriarca, a cui spetta dare le più importanti “benedizioni” ai membri della comunità” (p. 114). In realtà “la posizione di Patriarca della Chiesa è stata abolita nel 1979” (16).
9. In materia di dottrina l’editoriale afferma che “la fede dei Mormoni è contenuta in 13 articoli pubblicati il 1° marzo 1841” (p. 115). I tredici articoli sembrano qui chiaramente sopravvalutati dal momento che vennero originariamente pubblicati “nella primavera del 1842” — nel numero di marzo del 1842 del giornale di Nauvoo Times and Seasons: non nel 1841 — e che, “intesi per i non mormoni, […] non vennero mai considerati un completo sommario della fede” (17), tanto che la maggior parte delle dottrine più caratteristiche della Chiesa mormone — a cui lo stesso editoriale si riferisce — non vi vengono neppure accennate.
10. L’editoriale dedica notevole spazio al fatto che i tre primi testimoni del Libro di Mormon — Oliver Cowdery (1806-1850), Martin Harris (1783-1875) e David Whitmer (1805-1888) — che affermarono di aver visto per opera di un angelo le tavole d’oro da cui il testo sarebbe stato “tradotto” da Joseph Smith, “sconfessarono Smith” (pp. 118-119) in quanto tutti e tre furono scomunicati dalla Chiesa mormone o comunque l’abbandonarono. Per completezza d’informazione sarebbe stato forse bene aggiungere che due dei tre testimoni — Oliver Cowdery e Martin Harris — cambiarono nuovamente idea e ritornarono nella Chiesa mormone, nella quale rimasero fino alla morte. Ma soprattutto l’editoriale dà l’impressione che “sconfessando” Joseph Smith i tre testimoni abbiano rinnegato la loro testimonianza quanto alle tavole d’oro, che continua a essere stampata ai nostri giorni in ogni copia del Libro di Mormon. Al contrario, uno degli episodi più singolari dell’intera vicenda relativa al Libro di Mormon consiste precisamente nel fatto che i “tre testimoni” — anche nel periodo, per alcuni molto lungo, in cui rimasero fuori dalla Chiesa mormone, talora denunciando Joseph Smith come un falso profeta e un ingannatore — nondimeno continuarono a sostenere di aver davvero visto le tavole d’oro, e resistettero a qualunque insistenza degli ambienti anti-mormoni con cui erano entrati in contatto perché modificassero la loro testimonianza sul punto (18).
11. Forse il singolo errore più grave dell’editoriale è quello secondo cui i lamaniti — uno dei popoli che, secondo il Libro di Mormon, discenderebbe da un gruppo di ebrei emigrati sul continente americano verso il 600 a. C. — “sarebbero all’origine dei neri d’America, essendo stati puniti con il cambiamento della pelle per la loro infedeltà a Dio” (p. 119). Al contrario, i lamaniti sono all’origine non dei neri ma degli indiani d’America. Da un certo punto di vista si può dire che il tema culturale principale del Libro di Mormon — tema culturale, naturalmente, che coesiste con altri specificamente religiosi — consiste nel dare una risposta definitiva al dibattito che, nei primi decenni dell’Ottocento, affascinava molti americani sull’origine degli indiani. I primi missionari mormoni avvicinavano coloro che intendevano convertire chiedendo loro se fossero interessati a conoscere la verità sull’origine degli indiani d’America, e i risultati — se si giudica dal numero dei convertiti negli Stati Uniti — non erano disprezzabili (19). Evidentemente nessuno sarebbe stato interessato dalla proposta di rivelare “da dove venivano” i neri d’America, dal momento che la loro provenienza non era affatto misteriosa: tutti sapevano che erano venuti dall’Africa come schiavi. L’editoriale è incorso in una confusione — invero clamorosa — fra la punizione dei lamaniti — la cui pelle diventa scura dopo la loro ribellione a Dio e il massacro dei più devoti nefiti — e le diverse spiegazioni formulate per l’esclusione dei neri dal sacerdozio nella Chiesa mormone, terminata con una nuova rivelazione ricevuta dal presidente Spencer W. Kimball il 9 giugno 1978. Tali spiegazioni consideravano variamente i neri come esclusi dal sacerdozio in quanto discendenti di Caino ovvero di Cam. Ai tempi di Brigham Young venne ripetutamente sostenuto, in discorsi di dirigenti della Chiesa mormone — anche se non in scritture “canonizzate” —, che i discendenti di Caino e di Cam vennero puniti non solo con l’esclusione dal sacerdozio, ma anche con il colore nero della pelle. In ogni caso il problema della particolare posizione dei neri nella dottrina mormone — che aveva fatto scorrere fiumi di inchiostro prima della “rivelazione” del 1978 — non ha nulla a che fare con i lamaniti (20).
12. Infine, l’editoriale fa cenno alle polemiche dei mormoni contro le altre comunità religiose “a cominciare dalla Chiesa cattolica che essi attaccano con particolare violenza” (p. 120). Certamente scorrendo i discorsi delle autorità mormoni — specialmente nel secolo scorso — si trovano espressioni molto pesanti nei confronti della Chiesa cattolica. A un più attento esame ci si accorge tuttavia che la grande maggioranza di queste espressioni non sono “originali”, nel senso che si tratta di semplici citazioni di testi contro il “papismo” assolutamente comuni nell’apologetica protestante dell’epoca. Sul piano storico Brigham Young e i mormoni dello Utah — riconoscendo che la Chiesa cattolica si era tenuta in gran parte fuori dall’anti-mormonismo e dalla persecuzione dei mormoni, e che aveva in comune con i mormoni un’insistenza sul sacerdozio e sul rituale — consentirono nello Stato del Deseret una notevole libertà religiosa ai cattolici, che vennero perfino aiutati in vari modi, mentre la vita era certamente difficile per i missionari protestanti che tentavano di entrare nel “regno” mormone dello Utah (21). Sul piano dottrinale è probabile che le fonti di cui si sono serviti gli autori dell’editoriale siano cadute in un errore comune nella letteratura meno informata sul mormonismo: quello di considerare come un testo autorevole o perfino “ufficiale” l’enciclopedia popolare Mormon Doctrine, compilata dal dirigente, poi apostolo, Bruce R. McConkie (1915-1985) e pubblicata per la prima volta nel 1958. Nella prima edizione di quest’opera si afferma che l’espressione “Chiesa del Diavolo” — che ricorre nelle scritture mormoni — si riferisce specificamente alla Chiesa cattolica (22). Contrariamente all’opinione popolare, non solo l’enciclopedia di Bruce R. McConkie non era un testo ufficiale, ma l’allora presidente della Chiesa mormone, David O. McKay (1873-1970) incaricò due apostoli, Mark E. Petersen (1900-1984) e Marion G. Romney (1897-1988) di esaminarla, sospettando gravi deviazioni. “Nelle loro relazioni Petersen notò più di mille “errori dottrinali” e Romney menzionò una quarantina di “aree problematiche“. La Prima Presidenza concluse che il libro è “pieno di errori e disinformazione, ed è particolarmente sfortunato che abbia ricevuto una circolazione così ampia”“. Bruce R. McConkie, per mantenere la sua posizione di dirigente, dovette “impegnarsi a non ristampare Mormon Doctrine in una seconda edizione” (23). Nel 1966 Bruce R. McConkie potè tuttavia ripubblicare una seconda edizione della sua enciclopedia, ma con centinaia di modifiche (24). Dalla seconda edizione di Mormon Doctrine, del 1966, scomparvero fra l’altro tutti i riferimenti polemici alla Chiesa cattolica. Il manuale Religioni del mondo, utilizzato per la preparazione dei missionari mormoni e compilato dalla Brigham Young University nel 1990, tratta la Chiesa cattolica con notevole rispetto (25). La letteratura sociologica — e politica — più recente sulla Chiesa mormone nota del resto come negli Stati Uniti d’America cattolici e mormoni si sono spesso trovati dalla stessa parte della barricata su temi come la pornografia, l’aborto e l’omosessualità. Più in generale, l’editoriale omette di affrontare un problema particolarmente interessante. Secondo un celebre articolo del sociologo David Martin, comparso nel 1962, le comunità protestanti maggioritarie negli Stati Uniti si sono trasformate nel nostro secolo in “denominazioni”, cioè in comunità che non sostengono più in nessun modo di costituire la Chiesa, ma affermano di essere soltanto una parte della Chiesa (26). Le stesse fonti sociologiche danno normalmente come esempi caratteristici di comunità religiose che non sono “denominazioni” nel senso sociologico del termine perché dichiarano di essere “la Chiesa” — pur riconoscendo variamente elementi di verità e di valore anche in altre comunità religiose — la Chiesa mormone e la Chiesa cattolica, oltre naturalmente a numerosi gruppi di origine più recente o più piccoli. Qui, precisamente, sta il problema: a differenza dei membri delle “denominazioni” i mormoni non si considerano parte della Chiesa ma la Chiesa. In altra sede si potrà discutere se sia più pericoloso il relativismo che accompagna fatalmente il moderno denominazionalismo protestante, specie nella sua forma “progressista” o “liberale”, ovvero l’esclusivismo di gruppi come i mormoni. In ogni caso, l’atteggiamento dei mormoni nei confronti delle altre comunità religiose abbisogna di essere messo a fuoco sullo sfondo tipicamente americano del dibattito sulle “denominazioni”.
II. Il metodo
1. Il lettore potrà chiedersi a questo punto se è veramente importante se una banca sia stata fondata nel 1836 o nel 1837, se Joseph Smith sia stato arrestato nel 1838 o nel 1839, se i missionari mormoni siano 28.000 o 40.000, anche se forse riconoscerà l’importanza di non confondere fra le etnie degli Stati Uniti i neri con gli indiani. In realtà le imprecisioni dell’editoriale sono così numerose da mettere in luce una serie di problemi di metodo, fra cui il primo è l’evidente scarsa familiarità di chi lo ha redatto con le fonti primarie —archivistiche, certo, ma oggi in gran parte compilate e pubblicate — e con l’enorme letteratura secondaria che esiste in tema di mormoni. La nota bibliografia di Chad H. Flake indicava per il periodo 1830-1930 più di diecimila titoli (27). Sulla base dei cataloghi della Brigham Young University e degli Archivi della Chiesa mormone di Salt Lake City si può concludere che per il periodo 1930-1994 i volumi — con eccezione degli articoli — sono oltre ventimila. Fra articoli comparsi su riviste universitarie sotto forma di saggio e volumi, i testi — storici, sociologici o antropologici — di tipo scientifico-accademico sono, a loro volta, fra i settemila e gli ottomila. Di fatto la storia della Chiesa mormone è così complessa e drammatica da aver stimolato in modo particolare l’interesse del mondo accademico americano, suscitando anche controversie notevoli. Anche dal punto di vista interpretativo alcuni saggi — opera fra l’altro, spesso, di studiosi non mormoni — hanno segnato intere epoche degli studi sul mormonismo: per limitarsi a due esempi, si possono ricordare l’opera del sociologo cattolico Thomas F. O’Dea, The Mormons, del 1957 — fra l’altro tradotta anche in italiano (28) — e il saggio della storica protestante Jan Shipps del 1985, che introduce a proposito del mormonismo la nozione di “nuova tradizione religiosa” (29). Di tutta questa ricchissima letteratura (30) non v’è traccia nell’editoriale, che si limita a citare, oltre alle scritture sacre del mormonismo e ad alcuni testi e opuscoli di carattere missionario, due sole fonti: il testo anti-mormone di don Pier Angelo Gramaglia Confronto con i Mormoni (31) — sulla cui qualità particolarmente discutibile avrò occasione di tornare — e il numero monografico di luglio-settembre 1993 della rivista Sette e Religioni (32). Non si tratta soltanto di un’economia di citazioni per ragioni redazionali: le imprecisioni a cui ho fatto cenno denunciano una scarsa familiarità con le fonti e una confezione del saggio che sembra veramente troppo rapida (33).
2. L’editoriale presenta la comunità mormone in una visione sostanzialmente sincronica: riferisce la sua storia dal 1830 al 1852, saltando poi all’abbandono della poligamia nel 1890 e all’ammissione dello Utah negli Stati Uniti d’America nel 1896, eventi peraltro assai complessi su cui esiste un’abbondante letteratura e a cui vengono dedicate cinque righe. Colpisce l’assenza di qualunque riferimento alla storia del mormonismo fra il 1852 e il 1890 e soprattutto fra il 1896 e il 1994. Si tratta di una storia già estremamente complessa dal punto di vista economico, culturale e politico. Ma ancora più importante è la storia della dottrina mormone, che ha conosciuto variazioni non di secondo piano su temi anche decisivi e che può essere soltanto descritta in modo diacronico (34), distinguendo fra varie fasi non prive fra loro di contraddizioni. Lo stesso rituale ha subito nel tempo importanti variazioni. Tutto questo sarebbe già importante per un qualunque movimento religioso, ma diventa decisiva per i mormoni, che credono nel principio della rivelazione continua e del “canone aperto” (35) e il cui patrimonio dottrinale non solo cambia di fatto ma può cambiare di diritto.
3. A causa — principalmente — della prospettiva meramente sincronica, all’editoriale sfugge quella che per tutti i sociologi che se ne sono occupati è la caratteristica essenziale della comunità mormone a partire dagli ultimi anni del secolo scorso: la presenza di una comunità intellettuale composta da docenti universitari e da membri delle professioni liberali che non costituiscono, naturalmente, la maggioranza dei fedeli ma sono presenti tra i mormoni in una percentuale maggiore rispetto a qualunque altra religione mondiale con l’eccezione dell’ebraismo (36). Appartiene alla Chiesa mormone la più grande università privata degli Stati Uniti, la Brigham Young University, di cui si possono discutere i pregiudizi ideologici ma non la qualità dell’educazione, particolarmente in settori scientifici e letterari che hanno poco a che fare con la religione. Inoltre in tutto l’Intermountain West la comunità intellettuale mormone è largamente rappresentata — in alcuni casi maggioritaria — fra i docenti di università statali o comunque non mormoni, e ne fanno parte letterati, scienziati e giuristi di fama nazionale e internazionale: sarà sufficiente citare il romanziere Orson Scott Card e il costituzionalista Orrin G. Hatch, una delle personalità repubblicane più influenti nel Senato degli Stati Uniti da molti anni. Le motivazioni di questa fioritura intellettuale non sono casuali né puramente sociologiche. La dottrina mormone insegna infatti che l’evoluzione spirituale dell’uomo continua nell’aldilà e, secondo una corrente autorevole — anche se non incontrastata — all’interno del mormonismo, l’uomo porta con sé dopo la morte il livello non solo spirituale ma anche culturale che ha raggiunto sulla Terra. Come ci si può facilmente attendere l’insistenza sulla cultura e sull’educazione ha anche un rovescio di medaglia. Mentre Orson Scott Card e Orrin G. Hatch sono mormoni fedeli alle gerarchie della loro Chiesa e conservatori, le stesse istituzioni culturali della Chiesa mormone producono a getto pressoché continuo intellettuali “progressisti” e dissidenti (37). Alcuni dirigenti mormoni denunciano oggi il dissenso degli intellettuali come uno dei maggiori pericoli per l’integrità della loro Chiesa. In realtà questo pericolo — almeno nel nostro secolo — è esistito in modo costante: il dissenso accompagna in modo sociologicamente necessario ogni comunità che assegni alla cultura e agli intellettuali un posto in qualche modo privilegiato. D’altro canto — particolarmente in una comunità religiosa che crede nella rivelazione continua e si auto-comprende in modo evolutivo — il dissenso esercita anche una funzione di stimolo. Nonostante la retorica che, nei discorsi ufficiali, sferza spesso le trasgressioni degli intellettuali, l’arma della scomunica — che in particolare ha colpito sei studiosi nel 1993, con ampia eco di stampa anche internazionale — viene utilizzata con una certa parsimonia. Descrivere la comunità mormone senza tener conto del ruolo svolto nella pratica — e giustificato dalla dottrina — dalla sua comunità intellettuale — che fa sentire la sua voce attraverso riviste e case editrici indipendenti, spesso critiche rispetto alle stesse autorità della Chiesa — significa misconoscerne un aspetto essenziale.
4. Mi sembra infine necessario mettere in luce l’uso evidente ed eccessivo che l’editoriale fa di una letteratura polemica di carattere anti-mormone, non scelta — fra l’altro — tra quella di migliore qualità. Desta perplessità il reiterato riferimento all’opera del sacerdote torinese, docente di patrologia presso il Seminario di Torino, don Pier Angelo Gramaglia, dal titolo Confronto con i Mormoni (38), a cui La Civiltà Cattolica direttamente rimanda per “più ampie informazioni” a proposito degli elementi di “giudizio” sui mormoni (p. 118). Questo rimando, già di per sé, solleva dubbi sulla qualità dell’editoriale. Non solo infatti il testo di don Pier Angelo Gramaglia è la fonte diretta di molti degli errori di fatto che ho avuto occasione di menzionare, ma gli “ampi” elementi di “giudizio” che il testo offre sono spesso, semplicemente, improperi di carattere offensivo contro i mormoni, che non fanno salvo il necessario rispetto per le persone — che, naturalmente, è cosa ben diversa dal giudizio spesso doverosamente polemico sulle dottrine. Per esempio, una delle scritture considerate più sacra dai mormoni, il Libro di Abrahamo — che don Pier Angelo Gramaglia chiama “Libro di Abramo” — viene da lui definito “un capolavoro di imbecillità che poteva essere scritto solo da un paranoico assolutamente incapace di avvertire i confini della stupidità umana” (39). Le cerimonie del tempio che secondo i mormoni si realizzeranno nel millennio — un argomento così sacro che ai mormoni contemporanei è perfino vietato parlarne — sono bollate come “un’americanata per Paperino e compagni” (40). Quanto all’idea mormone secondo cui gli uomini che giungono al termine di un itinerario di evoluzione celeste potrebbero nell’aldilà generare “figli di spirito”, don Pier Angelo Gramaglia si esprime in termini particolarmente pittoreschi, scrivendo: “Da quando ho scoperto queste sublimi verità, saluto sempre i giovani missionari Mormoni americani; magari dall’aspetto non si direbbe, ma dentro sono Dei in covata. Sotto i loro pantaloni è nascosta una insospettabile energia creativa, che nessun europeo si sarebbe sognato di possedere. L’ultima volta che li ho visti sul tram, li ho guardati bene e poi, rapito da stupore, non potei trattenere la mia testimonianza interiore: Dio mio, che Dei!” (41). Sono queste le “più ampie informazioni” e i più ampi elementi di “giudizio” che La Civiltà Cattolica vuol suggerire ai suoi lettori? Non v’è il rischio che — raccomandando l’opera sui mormoni di don Pier Angelo Gramaglia, di scarsissimo valore descrittivo e interpretativo, e zeppa di errori fattuali — i lettori siano invogliati a leggere anche altre opere dello stesso autore dove vengono attaccati non più soltanto i mormoni ma anche rispettabili movimenti cattolici e lo stesso Pontefice Giovanni Paolo II (42)? Si è scambiata l’apologetica con l’umorismo di bassa lega? Si è consapevoli — in un’epoca in cui, a proposito dell’islam, si parla tanto di reciprocità — di quali problemi una letteratura come quella prodotta da don Pier Angelo Gramaglia può creare — e di fatto crea — alla minoranza cattolica nello Utah, dove i mormoni sono oltre l’80% della popolazione? È stata consultata sul punto la gerarchia cattolica dello Utah? Ad abundantiam, confermo di non essere assolutamente contrario alla polemica dottrinale condotta in toni anche accesi, mentre non comprendo bene quale servizio si renda all’apologetica — per non parlare del dialogo — quando si aggrediscono gli interlocutori accusandoli di “imbecillità”, “stupidità”, paragonandoli a “Paperino” e svillaneggiandoli con allusioni da caserma su quanto si trova “sotto i loro pantaloni”.
III. Il giudizio
Costituisce un pregio dell’editoriale il fatto che venga ribadito che i cattolici non possono in alcun modo accettare “nuove rivelazioni” sul tipo delle Scritture mormoni: la rivelazione pubblica si è chiusa con la morte dell’ultimo apostolo; una rivelazione privata non è in ogni caso accettabile quando il suo contenuto dottrinale contraddice quello della rivelazione pubblica (43). Vi è anzi da augurarsi che gli stessi criteri siano ribaditi a proposito di altre “nuove rivelazioni”, a cominciare da A Course in Miracles, un testo asseritamente “dettato” da Gesù Cristo, che circola ampiamente all’interno del contemporaneo New Age e che, purtroppo, viene accolto come autorevole anche da un certo numero di cattolici (44). Tuttavia, mentre il giudizio generale sull’inaccettabilità della “nuova rivelazione” mormone per i cattolici merita di essere condiviso toto corde, il modo di articolare tale giudizio nell’editoriale si presta a più di una osservazione critica.
1. Per quanto riguarda il fondatore, Joseph Smith, e le sue rivelazioni — che non comprendono solo il Libro di Mormon, ma anche le altre scritture del canone mormone e i rituali del tempio —, l’editoriale le spiega con un’ipotesi corrente nella letteratura anti-mormone più antica, e anche in quella contemporanea meno sofisticata: si tratta semplicemente di “un inganno” (p. 118), del “parto di una pura esaltazione fantastica” (p. 119), di invenzioni di Joseph Smith costruite per sostenere sia il suo autoritarismo sia una condotta “non proprio moralmente limpida in campo sessuale e matrimoniale”, giustificata con la dottrina della poligamia (p. 120). Sfugge qui agli autori dell’editoriale — certamente a causa di una scarsa familiarità con l’enorme bibliografia, anche accademica, sul punto — la ricchezza delle ipotesi che sono state formulate sull’origine delle “rivelazioni” mormoni, che non si riducono alle due estreme: genuine rivelazioni divine — un’ipotesi ovviamente inaccettabile per i cattolici — o “inganni” e pure “invenzioni” di Joseph Smith. Una lista non esaustiva — partendo dalle ipotesi più naturalistiche e muovendosi in direzione di teorie diverse — comprende:
a. il plagio: Joseph Smith avrebbe copiato scritti di autori precedenti, in particolare un manoscritto di un certo Solomon Spaulding (1761-1816) — la tesi è certamente infondata — o il romanzo View of the Hebrews (1823) di Ethan Smith (1762-1849), di cui invece non è escluso si trovi qualche eco nel Libro di Mormon;
b. il complotto: altri — più acculturati di Joseph Smith — avrebbero predisposto le sue rivelazioni e si sarebbero serviti del fondatore mormone come di uno strumento per fini più o meno oscuri (45);
c. la psico-patologia: il profeta mormone avrebbe compilato le sue rivelazioni in uno stato di esaltazione di natura psico-patologica, che più spesso di quanto non si creda porta alla produzione di testi di qualità anche notevole: questa ipotesi, esposta in modo rozzo da autori anti-mormoni fin dal secolo scorso, è stata ripresa in modo più sofisticato da Lawrence Foster (46);
d. la costruzione sociale: come molti altri “testi di fondazione” religiosi, a un’analisi sociologica le rivelazioni mormoni si rivelerebbero socialmente costruite in una interazione fra il fondatore, il contesto e la comunità;
e. l’esperienza mistica: Joseph Smith avrebbe avuto una serie di genuine esperienze religiose — anche se talora confuse — e le avrebbe trasmesse in una serie di metafore di carattere creativo: questa ipotesi è, fra l’altro, quella di un certo numero di intellettuali mormoni liberal contemporanei che — con scandalo dei loro colleghi conservatori — negano che il Libro di Mormon descriva fatti storici realmente avvenuti, ma nello stesso tempo lo considerano una fonte di validi insegnamenti religiosi e morali;
f. la demonologia: a partire dallo scrittore cattolico ottocentesco Orestes Brownson (1803-1876) fino a tutta una corrente dell’anti-mormonismo contemporaneo è stata formulata l’ipotesi che Joseph Smith — consapevolmente o inconsapevolmente — abbia avuto autentiche esperienze mistiche, di natura però non divina, ma diabolica.
In particolare Orestes Brownson — che, fra l’altro, aveva conosciuto personalmente Joseph Smith — si faceva beffe delle spiegazioni razionalistiche del Libro di Mormon osservando che un contadino autodidatta non avrebbe mai potuto produrre una struttura complessa come il Libro di Mormon — per tacere delle altre rivelazioni e del rituale, ancora più elaborato —, e dunque dietro gli scritti di Joseph Smith doveva celarsi qualche esperienza preternaturale, che per lo scrittore cattolico, appunto, era di natura diabolica (47). Non è questa la sede per determinare quali fra le ipotesi formulate dalla ricchissima letteratura in argomento sulle origini delle “rivelazioni” mormoni siano accettabili. Evidentemente alcune incontrano gravi problemi, ed è probabile che la soluzione vada cercata combinando ipotesi diverse. Sembra tuttavia che tutte — o quasi — le ipotesi che ho elencato siano più facili da difendere rispetto a quella del semplice “inganno”, “architettato” dalla mente fraudolenta di Joseph Smith a cui si riferisce l’editoriale. Anzi quando — per la verità esagerando — affermano che il fondatore dei mormoni “aveva qualche difficoltà sia a leggere sia a scrivere” (p. 108) (48), gli autori dell’editoriale, per così dire, segano il ramo su cui sono seduti. Il Libro di Mormon — benché definito dall’editoriale “di assai mediocre fattura” (p. 119), non si comprende bene se dal punto di vista teologico, letterario o culturale — costituisce una narrativa estremamente complessa e strutturata, che è stata accolta come significativa da milioni di persone, non tutte poco acculturate. Alcune rivelazioni successive, e in particolare i rituali del tempio, mostrano non solo una coerenza narrativa ma una familiarità con un’ampia problematica storico-religiosa e, per quanto riguarda i rituali, anche con temi della massoneria e dell’esoterismo dell’epoca. Com’è possibile che tutto sia stato inventato da un contadino semi-analfabeta e per di più di vita sregolata? In realtà l’editoriale sembra soffrire di un duplice pregiudizio: da una parte interpreta i nuovi fenomeni religiosi in chiave naturalistica e razionalistica — escludendo qualunque spiegazione di carattere preternaturale o mistico —, dall’altra non tiene conto di una vasta letteratura sociologica in tema di nuove religioni, che ha messo in luce come le scritture e i miti di origine non sono quasi mai prodotti di un singolo individuo, ma narrative complesse socialmente costruite e culturalmente negoziate.
2. Per quanto riguarda la comunità mormone e la sua dottrina, l’editoriale afferma che “non è cristiana” in quanto “nega i dogmi essenziali del Cristianesimo” (p. 120). Il mormonismo fa parte di un’ampia famiglia di nuovi movimenti religiosi che hanno, rispetto al cristianesimo tradizionale divergenze essenziali non solo di natura ecclesiologica, ma anche di natura teologica. Costituisce oggetto di dibattito — particolarmente fra gli specialisti cattolici e protestanti — se questo tipo di nuovi movimenti religiosi debbano essere chiamati “di origine cristiana”, “cristiani non-tradizionali”, “sette cristiane” ovvero ancora movimenti “non cristiani” o “pseudo-cristiani”. Mentre molti specialisti — anche all’interno della stessa Compagnia di Gesù (49) — preferiscono adottare una terminologia diversa, e la relazione generale del Concistoro straordinario del 1991 preferisce l’espressione “movimenti di origine cristiana” (50), La Civiltà Cattolica rubrica i mormoni fra i gruppi “non cristiani”. Naturalmente esistono argomenti a sostegno o contro ciascuna delle diverse scelte terminologiche, sia sul piano teologico sia su quello dell’opportunità di favorire il dialogo con questo o quel nuovo movimento religioso. Senza voler contestare sul punto le scelte dell’editoriale — diverse, peraltro, da quelle che personalmente preferisco — mi sembra necessario sottolineare due problemi. Anzitutto, l’editoriale dà l’impressione di voler chiudere un dibattito complesso in modo troppo rapido. Afferma che il mormonismo, in particolare, “nega la Trinità, nega la divinità di Gesù, nega il peccato originale” (p. 120). Qualunque mormone protesterebbe in modo violento contro questa rappresentazione della propria fede sostenendo di credere nella Trinità — anche se l’espressione non è stata utilizzata in alcuni periodi dello sviluppo storico della dottrina mormone — e soprattutto di considerare la divinità di Gesù Cristo e la verità storica del racconto del peccato originale nel giardino dell’Eden come capisaldi della propria esperienza religiosa. D’altro canto è vero che l’interpretazione mormone di questi concetti è lontana da quella cattolica. La Trinità per i mormoni è composta da tre persone, che sono certamente tutte e tre Dio, ma che non hanno la stessa natura, tanto che si può dire che si tratta di tre Dei diversi oppure, come minimo — ovvero secondo formulazioni più recenti —, di una personalità triplice che agisce all’unisono soltanto per una sorta di unità morale. Gesù Cristo è certamente Dio, ma nello stesso tempo è sottoposto — come lo stesso Dio Padre — a un processo di evoluzione. A proposito del peccato originale la dottrina della felix culpa viene sottolineata in modo così forte da porre in ombra la specifica carica di negatività che la trasgressione dei progenitori ha nel dogma cattolico (51). In ogni caso sicut litterae sonant affermare che la Trinità e ancor più la divinità di Gesù e il peccato originale sono “negate” dal mormonismo si espone a facili smentite.
Soprattutto — da un punto di vista sociologico — non è straordinariamente chiaro che cosa si intenda per “dottrina insegnata dalla comunità mormone” (p. 120). Che cos’è, precisamente, la “comunità mormone”? Si tratta della comunità del 1830, del 1844, del 1890? O di quella del 1994? Non si deve infatti dimenticare che i mormoni credono nel “canone aperto” e nella “rivelazione continua”, per cui la dottrina può evolvere e, entro certi limiti, cambiare. Da un punto di vista di struttura verticale della “comunità”, si tratta del mormonismo come viene insegnato nei testi ufficiali? Come viene predicato dai missionari? Come viene vissuto o interpretato dalla comunità intellettuale e accademica che — pur avendo al suo interno una rilevante corrente di tipo conservatore — include anche numerosi liberal, che interpretano la fede mormone in un modo diverso da quello canonico e che solo in misura minima incorrono in sanzioni gravi sul tipo della scomunica? Si tratta, infine, della fede del mormone medio negli Stati Uniti — che a sua volta presenta differenze rispetto a quella del mormone medio nei paesi di missione —, a proposito della quale i sociologi ci dicono che le opinioni e anche le esperienze — per esempio per quanto riguarda la scelta di letture spirituali e la preghiera — sono più vicine al protestantesimo evangelico di quanto si potrebbe immaginare (52)? Queste domande sono in parte retoriche, giacché sembra evidente che l’editoriale non ha tenuto conto della sociologia del mormonismo contemporaneo e della storia degli sviluppi dottrinali, particolarmente nel mondo intellettuale e accademico negli ultimi decenni. La descrizione dei mormoni è stata costruita esclusivamente sulle scritture sacre — certamente molto importanti, senza tuttavia dimenticare la dottrina del “canone aperto” — e su pochi testi missionari — in particolare il noto Principi Evangelici —, per di più con l’aggiunta della mediazione ambigua di testi ispirati da un anti-mormonismo di fattura piuttosto rozza.
In conclusione, anche se si deve lodare l’intenzione di mettere in guardia i cattolici nei confronti di rivelazioni extra-bibliche nella forma e nel contenuto, che oggi rischiano spesso di sedurli, mi sembra che l’editoriale rappresenti un’occasione perduta per quanto riguarda l’opportunità di sviluppare un’apologetica convincente — e in quanto tale aperta anche al dialogo —, fondata su una ricerca accettabile e su una consultazione sufficiente delle fonti primarie e della letteratura accademica in materia. Così com’è, l’editoriale rappresenta poco più di una nota a piè di pagina nel contesto — già di per sé non particolarmente brillante — dell’anti-mormonismo contemporaneo.
Massimo Introvigne
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(1) Cfr. card. Francis Arinze, La sfida delle sette o nuovi movimenti religiosi: un approccio pastorale, trad. it. in appendice al mio, La questione della nuova religiosità, Cristianità, Piacenza 1994; e mons. Giuseppe Casale, Nuova religiosità e nuova evangelizzazione. Lettera pastorale, del 6-3-1993, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1993.
(2) Cfr. I Mormoni: chi sono? In che cosa credono?, in La Civiltà Cattolica, anno 145, vol. III, quaderno 3458, 16 -7-1994, pp. 107-120. L’indicazione delle pagine fra parentesi nel prosieguo dell’articolo rimanda a tale editoriale.
(3) Massimo Introvigne, I Mormoni, ed. it. riveduta e aggiornata, Interlogos, Schio (Vicenza) e Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1993, p. 10.
(4) A giusto titolo l’editoriale usa l’espressione “comunità mormone” anziché “Chiesa mormone”; infatti da un punto di vista teologico — come suggerisce il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede Alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione. Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica, del 28-5-1992, n. 17 — solo le realtà che “per quanto separate dalla sede di Pietro” mantengono “la successione apostolica e l’eucaristia valida […] meritano il titolo di Chiese particolari”; per gli altri gruppi — comprese quindi tutte le comunità protestanti — il documento usa l’espressione “comunità ecclesiali” e non “Chiese”. Nel contesto di questo articolo mi sembra opportuno utilizzare, in senso evidentemente non teologico, l’espressione “Chiesa mormone” per identificare nella forma abbreviata la realtà che così si autodenomina — nella forma lunga il nome è Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni — nella sua struttura giuridica, organizzativa e gerarchica, e “comunità mormone” per designare la realtà sociologica costituita dall’insieme dei fedeli.
(5) Cfr. Deseret News. 1993-1994 Church Almanac, Deseret News, Salt Lake City 1992.
(6) Cfr. ibid., pp. 399-400.
(7) Cfr. James B. Allen e Glen M. Leonard, The Story of the Latter-day Saints, Deseret Book Company, Salt Lake City 1986, p. 45. Citerò spesso la prima edizione di questo testo perché è considerata una sorta di “Bignami” per la storia del mormonismo. Opera di due docenti universitari mormoni, venne criticata dai circoli mormoni più conservatori per la franchezza con cui affronta diverse questioni controverse, ma venne invece accolta favorevolmente dagli specialisti non mormoni. Per una più ampia bibliografia su ciascuno degli episodi che menzionerò rimando all’ampia sezione bibliografica del mio I Mormoni, cit., pp. 217-245.
(8) Cfr. Brigham H. Roberts (a cura di), History of the Church of Jesus Christ of Latter-day Saints. Period I, by Joseph Smith, 6 voll. (più un settimo sul periodo denominato Apostolic Interregnum) più uno di indici, Deseret Book Company, Salt Lake City 1909-1912, vol. I, p. 19.
(9) Poco dopo, nel resoconto de La Civiltà Cattolica, le incertezze sulle date continuano. Secondo l’editoriale il sacerdozio di Melchisedec venne conferito a Joseph Smith “nel 1830”. La data esatta, in realtà, non è precisata nelle fonti, ma le due ipotesi che prevalgono fra gli specialisti sono maggio 1829 e giugno 1829, non 1830 (cfr. J. B. Allen e G. M. Leonard, op.cit., p. 44). La questione non è priva di rilevanza per la correlazione con il sacerdozio di Aaron, conferito a Joseph Smith e a Oliver Cowdery il 15 maggio 1829 e per la genesi della dottrina mormone dei due sacerdozi.
(10) Cfr. E. G. Lee, The Mormons; Or, Knavery exposed, E. G. Lee, Frankford (Pennsylvania) e George Weber & William Fenimore, Philadelphia 1841, pp. 12-15; quasi tutte le fonti anti-mormoni moderne riprendono lo stesso resoconto da Fawn Brodie, No Man knows my History. The Life of Joseph Smith, the Mormon Prophet, 2a ed., Alfred A. Knopf, New York 1985, p. 197, la più celebre ricostruzione della vita di Joseph Smith in chiave anti-mormone. Il volume di Fawn Brodie, per quanto dichiaratamente polemico, è peraltro di una qualità superiore rispetto a gran parte della letteratura anti-mormone corrente e la sua consultazione diretta avrebbe risparmiato ai redattori dell’editoriale un buon numero di errori. Per una ricostruzione storica dell’episodio della banca di Kirtland, cfr. R. Kent Fielding, The Mormon Economy in Kirtland, Ohio, in Utah Historical Quarterly, vol. 27, 1959, pp. 331-356; Paul D. Sampson e Larry T. Wimmer, The Kirtland Safety Society. The Stock Ledger Book and the Bank Failure, in Brigham Young University Studies, vol. 12, 1972, pp. 427-436; e, soprattutto, Marvin S. Hill, C. Keith Rooker e Larry T. Wimmer, The Kirtland Economy Revisited. A Market Critique of Sectarian Economics, ibid., vol. 17, 1977, pp. 391-475.
(11) Si troverà un buon inquadramento di questi processi nel clima della persecuzione anti-mormone — e una cronologia esatta — nello stesso volume d’ispirazione polemica di F. Brodie, op. cit., pp. 241-255.
(12) È assai improbabile che i mormoni di sesso maschile con più di una moglie si siano mai avvicinati al dieci per cento; al contrario, soltanto alcuni studi recenti hanno ipotizzato che la percentuale abbia superato il cinque per cento, il che mostra come i mormoni dello Utah non consideravano certamente la poligamia indispensabile per la salvezza: cfr. Jessie L. Embry, Mormon Polygamous Families. Life in the Principle, University of Utah Press, Salt Lake City 1987; Larry M. Logue, A Sermon in the Desert. Belief and Behavior in Early Saint George, Utah, University of Illinois Press, Urbana-Chicago 1988; e B. Carmon Hardy, Solemn Covenant. Mormon Polygamous Passage, University of Illinois Press, Urbana-Chicago 1992.
(13) F. Brodie, op. cit., p. 130.
(14) Sulle fazioni che emersero dopo la morte di Joseph Smith cfr. il mio I Mormoni, cit., pp. 22-24.
(15) Cfr. Richard D. Poll, Thomas G. Alexander, Eugene E. Campbell e David E. Miller (a cura di), Utah’s History, Utah State University Press, Logan (Utah) 1989, p. 124. Il 24 luglio 1847 è la data dell’arrivo della carovana principale, con Brigham Young; altre date significative riguardano l’arrivo di avanguardie o di carovane successive, ma fra queste date non c’è comunque il “luglio 1848”.
(16) Calvin R. Stephens, voce Patriarch to the Church, in Daniel H. Ludlow (a cura di), Encyclopedia of Mormonism, 4 voll., Macmillan, New York 1992, vol. 3, p. 1066. Dopo il 1992 il riferimento a questa enciclopedia — curata principalmente da accademici mormoni, con il contributo di eminenti specialisti non mormoni di scienze religiose come Huston Smith — è diventato imprescindibile in qualunque descrizione dello stato delle ricerche e delle opinioni nella comunità mormone in materia dottrinale e storica.
(17) J. B. Allen e G. M. Leonard, op. cit., p. 166.
(18) Cfr. Richard Lloyd Anderson, Investigating the Book of Mormon Witnesses, 2ª ed., Deseret Book Company, Salt Lake City 1989. L’autore di questo testo — il più completo sul punto — è uno studioso mormone, ma la circostanza è pacifica nella letteratura accademica sulle origini del mormonismo.
(19) Cfr. una ricostruzione di queste vicende in chiave piuttosto polemica nei confronti di Joseph Smith, in Dan Vogel, Indian Origins and the Book of Mormon. Religious Solutions from Columbus to Joseph Smith, Signature Books, Salt Lake City 1986. Per tutta la storia del mormonismo il “problema lamanita” rimane importante e determina un atteggiamento nei confronti degli indiani d’America da parte dei mormoni diverso rispetto a tutte le altre comunità religiose.
(20) Cfr. una serie di prospettive di tipo storico e sociologico — presentate da accademici mormoni liberal che mostrano una notevole vis polemica nei confronti delle autorità della loro Chiesa —, in Lester E. Bush Jr. e Armand L. Mauss (a cura di), Neither White nor Black. Mormon Scholars Confront the Race Issue in a Universal Church, Signature Books, Midvale (Utah) 1984. Questo testo rimane fondamentale per comprendere le radici storico-sociologiche dell’esclusione dei neri dal sacerdozio nella Chiesa mormone fino al 1978.
(21) Cfr. J. B. Allen e G. M. Leonard, op. cit., pp. 340-341.
(22) Bruce R. McConkie, Mormon Doctrine, 1ª ed., Bookcraft, Salt Lake City 1958, p. 137.
(23) Così Eric Robert Paul, Science, Religion, and Mormon Cosmology, University of Illinois Press, Urbana-Chicago 1992, pp. 179 e 189.
(24) Tutte le modifiche — o quasi — sono elencate in Dennis C. Davis, McConkie’s Mormon Doctrine. Changes in Parallel Columns. Changes Between First Edition of Mormon Doctrine, 1958 and Second Edition of Mormon Doctrine, 1966, Dennis C. Davis, Salt Lake City 1971.
(25) Spencer J. Palmer e Roger R. Keller, Religions of the World. A Latter-day Saint View, Brigham Young University, Provo (Utah) 1990, pp. 167-170.
(26) David Martin, The Denomination, in British Journal of Sociology, vol. XIII, 1962, pp. 1-14.
(27) Cfr. Chad J. Flake, A Mormon Bibliography 1830-1930, University of Utah Press, Salt Lake City 1978. Come sempre avviene per lavori di questo genere la bibliografia, anche per il periodo considerato, non era completa ed è stata integrata da Chad J. Flake e Larry Draper, Supplement to “A Mormon Bibliography 1830-1930”, University of Utah Press, Salt Lake City 1989; e Iidem, Indexes to “A Mormon Bibliography” and “Ten Years’Supplement”, University of Utah Press, Salt Lake City 1992.
(28) Cfr. Thomas F. O’Dea, The Mormons, University of Chicago Press, Chicago 1957 (trad. it., I Mormoni, Sansoni, Firenze 1961).
(29) Cfr. Jan Shipps, Mormonism. The Story of a New Religious Tradition, University of Illinois Press, Urbana-Chicago 1985.
(30) Cfr. la bibliografia del mio volume I Mormoni, cit., che elenca più di mille titoli.
(31) Cfr. Pier Angelo Gramaglia, Confronto con i Mormoni, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1985.
(32) Su questo numero (anno III, n. 11, luglio-settembre 1993) di Sette e Religioni compare, con il titolo Storia dei Mormoni e organizzazione della denominazione maggioritaria (pp. 10-33), la riproduzione parziale di due capitoli del mio volume I Mormoni, cit., pubblicata con l’autorizzazione degli editori.
(33) Per la verità sembrano emergere talora — benché raramente — echi lontani della lettura anche di fonti non citate: cfr., per esempio, alcuni passaggi dell’editoriale e del mio citato volume I Mormoni, rispettivamente nella colonna di sinistra e in quella di destra del riquadro a p. 22 di questo stesso numero di Cristianità [v. in fondo alla pagina].
(34) Cfr. Thomas G. Alexander, The Reconstruction of Mormon Doctrine. From Joseph Smith to Progressive Theology, in Sunstone, vol. 5, n. 7, luglio-agosto 1980, pp. 24-33, ripubblicato in versione riveduta e aggiornata ibid., vol. 10, n. 5, maggio 1985, pp. 8-18; e il mio I Mormoni, cit., pp. 45-50.
(35) Cfr. il mio Il “canone aperto”: rivelazione e nuove rivelazioni nella teologia e nella storia dei Mormoni, in CESNUR. Centro Studi sulle Nuove Religioni, Le nuove rivelazioni, a mia cura, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1991, pp. 27-85.
(36) Cfr. Kenneth Hardy, Social Origins of American Scientists and Scholars, in Science, vol. 185, 1974, pp. 497-518. In particolare all’epoca di questo studio la percentuale di professori universitari e di scienziati impegnati nella ricerca privata rispetto al numero dei fedeli era oltre quattro volte più numerosa nel mormonismo — come nell’ebraismo — rispetto a qualunque altra comunità religiosa americana. Per un commento a dati più antichi, ma analoghi, dal punto di vista di un sociologo cattolico, cfr. T. O’Dea, op. cit., p. 147.
(37) Cfr. un’importante panoramica storica, in Roger D. Launius e Linda Thatcher (a cura di), Differing Visions. Dissenters in Mormon History, University of Illinois Press, Urbana-Chicago 1994.
(38) Cfr. P. A. Gramaglia, Confronto con i Mormoni, cit.
(39) Ibid., p. 165.
(40) Ibid., p. 174.
(41) Ibid., p. 176.
(42) Le pubblicazioni di don Pier Angelo Gramaglia meriterebbero uno studio a parte. Qualche citazione mi sembra comunque indispensabile anche in questa sede. In un testo dove attacca il “rilancio mariano” — pubblicato dalla casa editrice valdese Claudiana — l’autore, criticando il Movimento Sacerdotale Mariano, definisce l’Atto di consacrazione al Cuore Immacolato di Maria — carissimo, come si sa, al regnante Pontefice — come “finalizzato a scopi chiaramente revanscistici e aggressivi contro i movimenti di contestazione interni alla Chiesa e contro le manifestazioni critiche nei confronti del magistero e degli interventi papali” (Verso un “rilancio” mariano? Voci d’oltreterra, Claudiana, Torino 1985, p. 26). Nello stesso testo si denuncia “l’anticomunismo isterico ed irrazionale tipico di molti movimenti mariani che si ricollegano a Fatima” (ibid., p. 22), esempio di “revanscismo clericale di cattivo gusto contro la storia, contro la cultura e contro il mondo” (ibid., p. 8). Ancora nello stesso testo, a proposito delle apparizioni mariane in genere e di Medjugorje in particolare, don Pier Angelo Gramaglia osserva che “per principio, non ho difficoltà a credere alle apparizioni della Madonna; mi riservo solo di misurare il quoziente intellettuale dei suoi vari interventi, per vedere di volta in volta se progredisce. Non appena mi sarà possibile fare la mia apparizione alla Santissima Vergine di Medjugorje, cercherò di spiegarle che io sono un cattolico dell’Europa occidentale e che da queste parti non siamo poi così perversi come le hanno fatto credere da quando ha cominciato a bazzicare un po’ troppo con i popoli slavi, puri o ibridi” (ibid., p. 60). Si ha l’impressione che al riferimento vagamente razzistico ai “popoli slavi” non sia estranea l’antipatia verso il regnante Pontefice, di cui in altro testo (G. I. Gurdjieff e la quarta via, Tipografia Saviglianese, Savigliano [Cuneo] 1989, p. 6) don Pier Angelo Gramaglia denuncia senza mezzi termini “la demagogia”. Trascuro in questa sede la virulenza degli attacchi di don Pier Angelo Gramaglia contro i sociologi accademici che studiano i nuovi movimenti religiosi, esposti talora in termini che sfiorano la sfera penalmente rilevante: in un volume su Scientologia e Unification Church (presso l’autore, Giaveno 1992: si comprende facilmente come nessun editore abbia voluto assumersene la responsabilità) si legge, per esempio, che l’attuale presidente dell’ASR, l’Associazione per la Sociologia della Religione, il professor David Bromley, rappresenta “un esempio dello squallido qualunquismo della sociologia americana” (p. 104); che il noto storico delle religioni dell’Università di Toronto, il professor Herbert Richardson, è “intellettualmente denutrito” — i suoi studi sono semplicemente definiti “fregnacce par suo” (ibid., pp. 88-89) —; che la sociologa della London School of Economics Eileen Barker, presidentessa della SSSR, la Società per lo Studio Scientifico della Religione — forse la più prestigiosa organizzazione accademica mondiale degli specialisti di scienze religiose — fa semplicemente della “demagogia” (p. 100); che infine il sottoscritto — in proprio e in quanto esponente di Alleanza Cattolica, “notoria aggregazione revanscista [uno degli aggettivi preferiti dall’autore] e anticonciliare” — professa un “anticomunismo fanatico” e va senz’altro rubricato fra i “non pochi sostenitori del wojtylismo cattolico” (p. 3). Al proposito non mi è del tutto chiaro che cosa sia per don Pier Angelo Gramaglia il “wojtylismo cattolico”: se, come sospetto, si tratta semplicemente della fedeltà al magistero del Santo Padre, le sue preoccupazioni sono — per fortuna — fondate giacché i “sostenitori” di tale posizione effettivamente “non [sono] pochi”, e fra questi si annovera certamente Alleanza Cattolica.
(43) Cfr. il mio Nuova religiosità e nuove rivelazioni, in Credere oggi, anno XIII, n. 5 (77), settembre-ottobre 1993, pp. 5-22.
(44) Cfr. il mio Storia del New Age 1962-1992, Cristianità, Piacenza 1994, pp. 139-146.
(45) Era questa l’opinione, per esempio, dell’esoterista René Guénon (1886-1951, di cui cfr. Les Origines du Mormonisme, in Idem, Mélanges, Gallimard, Parigi 1976, pp. 161-175), che — seguendo molti autori precedenti — riteneva vero “autore” delle rivelazioni mormoni Sidney Rigdon (1793-1876), un ex pastore dei Discepoli di Cristo che era certamente persona più acculturata di Joseph Smith. Formulata in questo modo l’ipotesi è peraltro impossibile, almeno per quanto riguarda il Libro di Mormon, dal momento che è storicamente certo che il relativo manoscritto era stato completato da Joseph Smith prima del suo incontro con Sidney Rigdon.
(46) Cfr. Lawrence Foster, The Psychology of Religious Genius. Joseph Smith and the Origins of New Religious Movements, in Dialogue. A Journal of Mormon Thought, vol. 26, n. 4, inverno 1993, pp. 1-22.
(47) Cfr. Orestes Brownson, The Spirit-Rapper. An Autobiography, Little, Brown & Company, Boston e Charles Dolman, Londra 1844, pp. 161-167. Cfr. una discussione nel mio Indagine sul satanismo. Satanisti e anti-satanisti dal Seicento ai nostri giorni, Mondadori, Milano 1994. Benché le ipotesi demonologiche siano oggi — in particolare da parte di autori protestanti fondamentalisti — esposte in un modo estremamente rozzo, che si presta alla messa in ridicolo, lo stesso Magistero cattolico afferma che non si può escludere, fra le cause del sorgere di nuovi movimenti religiosi, “l’azione del Diavolo” anche se questa azione resta “normalmente sconosciuta alle [stesse] persone coinvolte” (card. F. Arinze, doc. cit., n. 17).
(48) In realtà un esame dei manoscritti di Joseph Smith — di cui è in corso l’edizione critica a cura di Dean C. Jessee, The Papers of Joseph Smith, Deseret Book Company, Salt Lake City: sono stati finora pubblicati il vol. I, 1989, e il vol. II, 1992 — mostra che — come molti americani, anche in posizioni di preminenza religiosa e politica del suo tempo — Joseph Smith aveva difficoltà con l’ortografia e la sintassi ma, per quanto da autodidatta, aveva letto molto ed era capace di esprimere per iscritto il suo pensiero in modo articolato su questioni anche piuttosto complesse.
(49) Cfr. John A. Saliba S.J., Mormonism in the Twenty-First Century, in Studia Missionalia, vol. 41, 1992, pp. 49-67. Studia Missionalia è una delle pubblicazioni della Pontificia Università Gregoriana.
(50) Cfr. card. F. Arinze, doc. cit.
(51) Per ulteriori approfondimenti, e ampi riferimenti bibliografici, cfr. il mio I Mormoni, cit. Nel 1994 si è verificato un avvenimento culturale di notevole importanza per gli studiosi della dottrina mormone: la pubblicazione delle tre successive versioni manoscritte e della versione finale dell’opera teologica di Brigham H. Roberts, The Truth, the Way, the Life, un vol. più tre con le prime versioni, Brigham Young University Studies, Provo (Utah), completata dall’autore — forse il più influente teorico del mormonismo nel secolo XX — nel 1928, ma mai pubblicata a causa di dissensi fra le stesse “autorità generali” mormoni, che vertevano soprattutto sulle tesi di Brigham H. Roberts in tema di peccato originale.
(52) Cfr. Susan Buhler Taber, Mormon Lives. A Year in Elkton Ward, University of Illinois Press, Urbana-Chicago 1993; Marie Cornwall, Tim B. Heaton e Lawrence A. Young (a cura di), Contemporary Mormonism. Social Science Perspectives, University of Illinois Press, Urbana-Chicago 1994; e Armand Mauss, The Angel and the Beehive. The Mormon Struggle with Assimilation, University of Illinois Press, Urbana-Chicago 1994.
DALLA CIVILTA’ CATTOLICA | DA I MORMONI |
“Soprattutto a causa dell’ostilità delle popolazioni […], che mal sopportano la “diversità” dei mormoni, la loro coesione economica e politica” (editoriale, p. 111). | “[…] duro conflitto con gli abitanti delle contrade vicine che temono la “diversità” dei Mormoni, la loro coesione economica e politica” (I Mormoni, p. 20). |
“Ha al suo vertice 15 persone: il Presidente e due consiglieri, che formano la Prima Presidenza, e i dodici apostoli. Si riuniscono in sessioni non pubbliche e sono tutti chiamati “profeti, veggenti e rivelatori”; ma colui che detiene l’autorità assoluta – ed è il Profeta — è il Primo Presidente. Il reclutamento di queste quindici persone avviene per cooptazione: quando un apostolo muore, il Profeta chiama un altro apostolo a sostituirlo, e quando muore il Profeta, l’apostolo più anziano per servizio ne prende il posto. Oltre ai membri della Prima Presidenza e del Quorum dei dodici Apostoli, che sono chiamati “autorità generali” o “i Fratelli” (The Brethren) ci sono i collegi dei Settanta […] e infine c’è il Vescovo presidente, che si occupa di gestire gli affari temporali: essendo le ricchezze della comunità considerevoli, questo posto è di grande rilievo” (editoriale, p. 114). | “Al vertice […] si trovano quindici persone: il presidente e i suoi due consiglieri, che formano la Prima Presidenza, e i dodici Apostoli. […] I verbali delle loro riunioni non sono pubblici. Tutti […] hanno il titolo di “profeti, veggenti e rivelatori”, ma l’autorità del presidente viene spesso definita “assoluta” (ed è […] lui […] “il Profeta”) […]. Il sistema di reclutamento dei quindici uomini […] è per cooptazione. Quando un apostolo muore, un nuovo apostolo viene chiamato al suo posto dal profeta […]. Quando il profeta muore, il più anziano apostolo vivente quanto a servizio […] ne prende il posto. […] Oltre ai membri della Prima presidenza e del Quorum dei dodici apostoli sono chiamati “autorità generali”, o più familiarmente negli Stati Uniti “the Brethren” (i Fratelli), la Presidenza e i membri del Primo Quorum dei Settanta e del Secondo Quorum dei Settanta […]. Il Vescovato presiedente si occupa […] di gestire gli affari temporali della Chiesa, incarico di non piccola importanza in un’organizzazione le cui ricchezze sono considerevoli” (I Mormoni, pp. 201-207). |
“In media un adolescente mormone dedica quattordici ore alla settimana alle attività della comunità, fra cui cinque ore di “seminario” per istruirsi sulla storia e sulla dottrina dei mormoni e due ore di attività sociali organizzate dalla comunità” (editoriale, p. 114). | “Gli storici Arrington e Bitton stimano che un adolescente mormone medio dedichi quattordici ore alla settimana alle attività della Chiesa [fra cui] cinque ore di “seminario” […] per istruirsi nella dottrina e nella storia della Chiesa, due ore di attività sociali organizzate dalla Chiesa […]” (I Mormoni, p. 209) |