Francesco Pappalardo, Cristianità n. 292-293 (1999)
Considerazioni su un articolo della rivista dei gesuiti italiani, che ricostruisce con attenzione la disputa storiografica sulla Repubblica Napoletana del 1799 e sulla Contro-Rivoluzione, ma ripropone acriticamente alcuni luoghi comuni privi di fondamento.
«La Civiltà Cattolica» e l’Insorgenza napoletana del 1799
1. La premessa
Circa duecento anni or sono, insurrezioni popolari scoppiano un po’ dovunque in Europa, in seguito alla Rivoluzione francese e in occasione della sua graduale esportazione manu militari da parte delle truppe di Napoleone Bonaparte (1769-1821). In tutta Italia — compresa Malta, ma con l’eccezione della Sicilia, mai occupata dai francesi — le insorgenze si manifestano con particolare ampiezza e intensità attraverso il cosiddetto Triennio Giacobino (1796-1799) e il periodo napoleonico, fino al 1814. Nonostante l’estensione territoriale, la durata nel tempo e il coinvolgimento popolare — che il Risorgimento cercò invano, senza trovare —, queste sollevazioni spontanee sono considerate dalla storiografia egemone come episodi marginali nella vita delle popolazioni italiane e, conseguentemente, sono quasi ignorate dall’opinione pubblica.
Le insorgenze, la cui rilevanza quantitativa non può essere sottovalutata, costituiscono forse la prima eloquente modalità di espressione, in Italia, del conflitto fra società tradizionale e modernità politica, non più limitato al piano culturale ma vissuto drammaticamente nei fatti. Esse testimoniano, inoltre, che sul finire del Settecento la nazione italiana, nonostante l’assenza di un organismo statuale unitario, esiste già con una precisa identità religiosa e culturale e con quel «comune sentire» nei valori fondamentali che costituisce premessa indispensabile all’unità di un popolo (1). Da ciò scaturisce un atteggiamento immediatamente reattivo nei confronti della Rivoluzione, che è avversata dagl’italiani non solo per le imposizioni e le ruberie dell’occupante francese, ma pure «[…] perché percepita nella sua essenza reale: straniera sì, ma non solo di lingua e di modi; straniera alle tradizioni, al costume, alle credenze, ai legittimi interessi di un popolo» (2), nonché all’ordine politico e sociale costituitosi nei secoli in un ambiente docile all’influsso del cristianesimo.
Questa premessa suggerisce alcune osservazioni relativamente a un articolo comparso nel giugno del 1999 sulla rivista La Civiltà Cattolica con il titolo Rivoluzione e «insorgenza» a Napoli nel 1799 (3).
2. La narrazione
L’articolo si apre con una panoramica sulle rivoluzioni giacobine in Italia e con la considerazione che «uno dei punti fondamentali del programma rivoluzionario da attuare in Italia — oltre l’annessione del Piemonte e l’occupazione della Lombardia — consisteva nell’abbattimento del potere temporale dei Papi» (pp. 451-452). Prosegue, quindi, con la narrazione degli eventi che portarono, nel dicembre del 1798, all’attacco militare francese contro il Regno di Napoli, condotto dal generale Jean-Etiénne Championnet (1762-1800), alla fuga di re Ferdinando IV di Borbone (1751-1825) a Palermo, alla conquista della capitale nonostante la strenua resistenza opposta dai suoi abitanti e alla proclamazione della Repubblica Napoletana da parte di elementi giacobini locali. «Il modo in cui fu instaurata la Repubblica — cioè combattendo non contro l’esercito regolare borbonico, ma contro i “lazzaroni”, che spontaneamente presero le armi contro gli invasori giacobini per difendere la patria e la monarchia — contribuì ad alienare dalla rivoluzione la simpatia del popolo minuto napoletano» (p.453). L’esperimento repubblicano durò soltanto 144 giorni e la sua fine apparve segnata dalla partenza, l’8 maggio 1799, dell’esercito rivoluzionario francese, in grave difficoltà su tutto il fronte italiano dopo le sconfitte contro gli austro-russi sull’Adige e sull’Adda. In realtà, le vicende della Repubblica Napoletana non possono essere studiate — come invece fanno quasi tutti gli storici — separatamente dalle insorgenze «[…] che contemporaneamente, e diremmo quasi parallelamente, ne contrastarono lo sviluppo e poi ne determinarono la fine» (p. 459). La resistenza popolare ebbe il suo momento culminante e più macroscopico nell’impresa della Santa Fede, animata e condotta dal cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827), che è considerato spesso nella letteratura storica, soprattutto nelle opere a carattere divulgativo, «come un uomo ambizioso e sanguinario» (p. 460). Tuttavia, ora che gli studiosi «[…] tentano di esaminare in modo meno preconcetto la figura e l’ azione del cardinale calabrese» (pp. 460-461), risulta evidente che in numerose circostanze egli «[…] si dimostrò politico intelligente e generoso» (p. 461).
3. Alcune osservazioni
L’articolo ha il pregio di affrontare il non facile argomento della Rivoluzione e della Contro-Rivoluzione nel Regno di Napoli senza alcuna preclusione nei confronti delle diverse correnti storiografiche e con la convinzione che l’esame delle vicende della Repubblica Napoletana non può essere disgiunto dalla conoscenza delle insorgenze: «[…] entrambi gli aspetti dovrebbero essere studiati non alternativamente, come purtroppo tuttora si fa, ma complementariamente» (p. 459).
Tuttavia, al di là di talune piccole imprecisioni (4), l’ articolo induce ad alcune osservazioni.
3.1. La narrazione sintetica dell’assedio della cittadina pugliese di Altamura, roccaforte repubblicana, da parte di circa diecimila sanfedisti, offre l’occasione al padre Sale S. J. di dare conto di un articolo polemico della giornalista e scrittrice Maria Antonietta Macciocchi, che a proposito di questo episodio fa letteralmente di ogni erba un fascio, mescolando assassini, stupratori, borbonici, fascisti e, finalmente, la Chiesa cattolica (5). Se da un lato l’articolista de La Civiltà Cattolica respinge decisamente la richiesta della Macciocchi di un mea culpa della Chiesa «su un fatto di cui essa non è direttamente responsabile» (p. 462) — fra l’altro chiedendosi: «[…] perché si dovrebbe chiedere perdono per i giacobini uccisi dai sanfedisti e non anche per le migliaia di “controrivoluzionari” di Andria e di Trani, trucidati qualche mese prima dai soldati francesi? O per i centomila insorti, appartenenti a tutte le regioni d’Italia, passati a fil di spada da coloro che si proponevano di portare nella penisola le libertà e la democrazia?» (ibidem) —, dall’altro lato sembra accreditare alla giornalista comunista almeno la verità storica della «strage di Altamura». Riferisce, infatti, che «centinaia di persone furono massacrate dalla soldataglia» (p. 461), dando per certo quanto, invece, è del tutto infondato. In effetti, in occasione del primo centenario del sacco della città, il senatore pugliese Ottavio Serena (1837-1914), in un saggio storico non favorevole al cardinale Ruffo, pubblicò l’importante relazione del parroco della cattedrale di Altamura, che, attingendo ai registri parrocchiali, riportava i nomi di tutte le vittime del saccheggio, in totale trentasette (6). Lo storico Vin- cenzo Cuoco (1770-1823), che parla «di cadaveri intrisi di sangue» (7), è smentito dallo stesso curatore delSaggio: «La città fu data al saccheggio; ma, contrariamente a ciò che dice il Cuoco, è da avvertire che gli abitanti abbandonarono interamente il paese, al momento della resa» (8).
3.2. «La rivoluzione partenopea, inoltre — prosegue padre Sale S. J. —, a differenza di quella francese che fu animata da un forte spirito antireligioso e iconoclasta, non si indirizzò né contro la religione né contro il clero» (p. 458). La considerazione poggia sul fatto che l’esercito «giacobino» non saccheggiò le chiese napoletane e non requisì i beni ecclesiastici, che il clero della capitale non ostacolò l’entrata dei francesi e che non pochi ecclesiastici sostennero il nuovo governo e la propaganda rivoluzionaria, pagando poi con la vita il loro atteggiamento.
In realtà, la Rivoluzione napoletana adottò nei confronti della religione e dei suoi ministri due comportamenti distinti, ma entrambi ostili. Nella capitale, dov’era timorosa dell’atteggiamento di gran parte della popolazione, avversa alla Repubblica fino all’ultimo giorno, alternò blandizie, forme stringenti di controllo sulla predicazione e momenti di persecuzione amministrativa. Così, mentre il generale Championnet si recava diplomaticamente a rendere omaggio alle reliquie di san Gennaro e, meno diplomaticamente ma con un buon effetto propagandistico, costringeva l’anziano arcivescovo di Napoli, il teatino card. Giuseppe Maria Capece Zurlo (1711- 1801), a dichiarare che il sangue del santo si era liquefatto in coincidenza dell’arrivo dei francesi, il nuovo governo rivoluzionario disponeva, il 14 febbraio 1799, la formazione di una commissione ecclesiastica per sottoporre al controllo governativo l’attività del clero, e ordinava, nei mesi di marzo e di aprile, la requisizione di nove conventi, con la motivazione di dover dare alloggio alle truppe. «La verità — annotò il diarista Carlo de Nicola, testimone degli eventi — è che si vuole togliere […] al publico il commodo spirituale che i medesimi li danno. Perché non pigliarsi le case di Monteoliveto, s. Pietro a Majella e Montevergine, che predicano e non confessano, ed inquietare chi predica, confessa e fa missioni?» (9). Inoltre, il 12 marzo, il ministro dell’Interno, l’abate Francesco Conforti (1743-1799), già teologo di corte, si rivolse ai vescovi e al clero napoletani per invitarli a «illuminare gli ignoranti» (10) sul nuovo governo, chiarendo che esso «[…] è il più conforme alla mente del Vangelo» (11). Nello stesso tempo si procedeva a una svalutazione del linguaggio religioso, sostituendo le denominazioni tradizionali con parole e locuzioni dal significato negativo, come denunciato dal Nuovo Vocabolario Filosofico-Democratico, stampato a Venezia nel 1799, secondo cui il termine «superstizione» «[…] dinota ogni culto religioso, ed antonomasticamente la Religione Cattolica Romana» (12), mentre la parola «religione» indica «espressamente in Lingua Democratica l’Ateismo» (13). In definitiva, il «[…] ricorso al Vangelo per combattere il sistema monarchico ed affermare quello repubblicano — scrive Renzo De Felice (1929-1996) — non deve trarre in inganno, esso fu comune in quel momento a numerosissimi esponenti democratici nostrani e non significa una reale adesione al cristianesimo, ma fu solo un espediente tattico per convogliare le simpatie popolari verso i nuovi regimi presentandoli come i più conformi alla legge divina» (14).
A differenza dell’atteggiamento tenuto nella capitale, nelle province gli occupanti non fecero niente per attirarsi simpatie, intenti piuttosto a saccheggiare i luoghi di culto, a fare scempio delle spoglie dei santi e, in genere, a organizzare manifestazioni di pubblica irreligiosità che offendevano la coscienza degli abitanti. Con il peggiorare della situazione non si fecero scrupolo di ammazzare innocui monaci, di abusare di religiose, d’incendiare edifici sacri, talvolta senza risparmiare coloro che vi si erano rifugiati. In aprile i rivoluzionari francesi — dopo le sconfitte subite nell’Italia Settentrionale — iniziano la ritirata dal Regno di Napoli, lasciandosi dietro una scia sanguinosa di sacrilegi e di violenze: «Non vi è rimasta una casa intatta, depredandosi del più prezioso, il dippiù si consegnava alle fiamme. Le donne violentate, le chiese spogliate, per terra le ostie sacrosante. Le monache fuggite furono raggiunte e fatte preda della sfrenatezza militare; quelle che resistevano erano crudelmente ammazzate» (15). Tutto il contrario, quindi, di una rivoluzione a favore della religione e del clero.
3.3. Alla luce di queste considerazioni non stupisce che «[…] nella grandissima maggioranza dei casi anche il motivo immediato dell’esplosione della collera popolare era strettamente connesso alle offese al senso religioso della gente, come il divieto di una processione o del suono delle campane, la confisca della statua del santo patrono, il saccheggio di una chiesa, la chiusura di un convento» (16). Di opinione diversa è padre Sale S.J., secondo cui «[…] il movimento controrivoluzionario, anche se spesso fu capitanato e organizzato da ecclesiastici […] non fu un movimento religioso, né animato da motivazioni propriamente religiose (come invece fu quello della Vandea francese), ma un movimento monarchico-regalista, organizzato in difesa delle istituzioni antiche» (p. 460).
Questa tesi, che non è supportata da alcuna argomentazione, non convince. In primo luogo, la distinzione fra «fede e vita» — non solo individuale ma anche sociale —, fra motivazioni religiose e motivazioni politiche non è plausibile in riferimento a un’epoca in cui i legami fra il Trono e l’Altare erano molto stretti, o comunque tali apparivano ai più anche negli Stati — soprattutto il Granducato di Toscana e il Regno di Napoli — dove la ventata illuminista stava creando progressive tensioni fra lo Stato e la Chiesa, senza trascurare il fatto che, dopo gli avvenimenti sanguinosi della Rivoluzione francese, i sovrani di quegli Stati avevano fatto bruscamente marcia indietro e avevano rinsaldato i loro vincoli con il Pontefice. L’Insorgenza, quindi, poteva più facilmente richiamarsi alla difesa della religione in pericolo che collegarsi a un potere politico che con il suo «riformismo» stava scavando un fossato fra sé e il resto del paese. La reazione popolare sul finire del secolo, perciò, è rivolta soprattutto contro la nuova mentalità rivoluzionaria, che imponeva un’economia senza vincoli corporativi e senza remore morali, infrangeva i legami esistenti fra i diversi ceti e veicolava una cultura estranea e avversa alle tradizioni civili e religiose del paese.
In secondo luogo, l’Insorgenza nel Regno di Napoli — di cui la Santa Fede è soltanto l’aspetto più appariscente — fu iniziativa del popolo piuttosto che delle classi dirigenti. Quando, nel novembre del 1798, dopo aver conquistato Roma e lo Stato Pontificio, l’esercito rivoluzionario invase il Regno di Napoli, la «[…] monarchia napoletana — ammette Benedetto Croce (1866-1952) —, senza che se lo aspettasse, senza che l’avesse messo nei suoi calcoli, vide da ogni parte levarsi difenditrici in suo favore le plebi di campagna e di città, che si gettarono nella guerra animose a combattere e morire per la religione e pel re, e furono denominate, allora per la prima volta, “bande della Santa Fede”» (17). Sebbene il governo borbonico avesse un ruolo importante nell’acquisizione, da parte delle insorgenze, di un carattere esteso e uniforme, che le avrebbe differenziate dalle sporadiche e locali reazioni che si manifestavano nella penisola contro i rivoluzionari francesi e i collaborazionisti giacobini, gli abitanti degli Abruzzi e della Terra di Lavoro si sollevarono spontaneamente, innalzando vessilli religiosi e scegliendosi capi provenienti dalle loro file, come Giuseppe Costantini, detto «Sciabolone» (1758-1808), Giuseppe Pronio (1760-1804) e Michele Pezza (1771-1806), che sarebbe passato alla storia e alla leggenda con il soprannome di «fra Diavolo». In Puglia, nei primi giorni di febbraio, in molte città e comuni venne innalzato l’albero della libertà, ma addirittura a distanza di poche ore gli abitanti insorsero e solo alcune municipalità resistettero a lungo. A Potenza, il 24 febbraio, fu rovesciato il nuovo governo e venne ucciso il vescovo giansenista Giovanni Andrea Serrao (1731-1799), che aveva aderito al movimento rivoluzionario. Anche in questo caso risalta l’assenza di rappresentanti istituzionali nelle diverse fasi delle insurrezioni. Fu merito del cardinale Ruffo organizzare un nucleo dirigente che, per quanto piccolo, seppe coordinare la reazione popolare, già manifestatasi spontaneamente.
In terzo luogo, non va trascurato lo straordinario lavoro di animazione civile e culturale svolto nel Mezzogiorno da sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), il quale seppe dotare la Chiesa e la società di numerosi e solidi presìdi, che sarebbero stati lievito della reazione della Santa Fede, «preparata» dal santo napoletano «nello stesso senso in cui san Luigi Maria Grignion de Montfort [1673-1716] preparò la Vandea» (18).
Come corollario della sua tesi di fondo, padre Sale S.J. sostiene, infine, che «[…] l’“insorgenza” è la lotta della “provincia”, monarchica e tradizionalista, contro la “città”, repubblicana e giacobina» (p. 460). Se la «città» è Napoli — e non s’intravedono interpretazioni diverse, perché molte città furono realiste o, comunque, presto si «realizzarono», cioè tornarono sotto l’autorità regia —, l’affermazione è tutta da dimostrare, poiché «[…] nella sua grande maggioranza— scrive uno storico liberale — il popolo napoletano restò fedele al re lontano e ne auspicò il ritorno» (19), come del resto aveva intuito bene la letterata Eleonora Fonseca Pimentel (1752-1799), animatrice del giornale repubblicano Il Monitore Napolitano: «Il Popolo Napolitano, il quale allorché insorse alla resistenza, se mostrò accecamento di ragione, svelò insieme un vigor di carattere, che ignoravano in lui gli stessi suoi connazionali, serbava tuttavia nell’animo pel nuovo sistema quel non so che di acerbezza, che è figlia del dolore della sconfitta» (20).
In conclusione, sembra molto più convincente l’opinione espressa dall’ estensore della voce Sanfedismo per l’Enciclopedia Cattolica, secondo cui, a distanza di due secoli, occorre «[…] restituire al sanfedismo originale ed autentico l’innegabile merito di avere rappresentato, nell’Italia meridionale, la spontanea resistenza di popolazioni autenticamente cattoliche e devote alle autorità legittime contro gli abusi, le violenze e l’opera scristianizzatrice di un governo instaurato e sostenuto dallo straniero, in dispregio di tutte le tradizioni politiche e religiose locali» (21).
Francesco Pappalardo
Note:
(1) Cfr. GIUSEPPE GALASSO, L’Italia una e diversa nel sistema degli Stati europei (1450- 1750), in G. GALASSO e LUIGI MASCILLI MIGLIORINI, L’Italia moderna e l’unità nazionale, vol. XIX della Storia d’Italia da lui diretta, UTET, Torino 1998, pp. 3-492; e le mie considerazioni nell’articolo «L’Italia una e diversa nel sistema degli Stati europei (1450- 1750)», in Cristianità, anno XXVII, n. 289, maggio 1999, pp. 11-16.
(2) MARCO TANGHERONI, Prefazione a SANDRO PETRUCCI, Insorgenti Marchigiani. Il Trattato di Tolentino e i moti antifrancesi del 1797, SICO, Macerata 1996, pp. 7-10 (p. 8).
(3) Cfr. GIOVANNI SALE S.J., Rivoluzione e «insorgenza» a Napoli nel 1799, in La Civiltà Cattolica, anno 150, vol. II, quaderno 3575, 5-6-1999, pp. 450-463. Tutti i riferimenti fra parentesi nel testo rimandano a quest’articolo.
(4) Il nome del generale Championnet non è «Jean-Antoine» (p. 452) ma Jean-Etiénne; la Repubblica Napoletana fu proclamata il 21 gennaio e non il «24 gennaio 1799» (p. 454), e soprattutto Luisa de Molino Sanfelice (1764-1800) non fu giustiziata «dopo aver dato alla luce un figlio» (p. 463), perché la sua fu una falsa gravidanza.
(5) Cfr. MARIA ANTONIETTA MACCIOCCHI, Altamura. La strage delle innocenti, in Corriere della Sera, 17-2-1999, p. 33. Sul sacco di Altamura e sull’infondatezza delle tesi della scrittrice, cfr. OSCAR SANGUINETTI, «Altamura. La strage delle innocenti». Un falso storico contro l’Insorgenza italiana, in Cristianità, anno XXVII, n. 287-288, marzo- aprile 1999, pp. 11-17.
(6) Cfr. OTTAVIO SERENA, Altamura nel 1799, Casa Editrice Italiana, Roma 1899, p. 79, nota 1.
(7) VINCENZO CUOCO, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799, a cura di Nino Cortese (1896-1972), Vallecchi, Firenze 1926, p. 270.
(8) Ibid., p. 271, nota 2.
(9) CARLO DE NICOLA, Diario napoletano (dicembre 1798-dicembre 1800), Giordano, Milano 1963, p. 105.
(10) Cit. in Il Monitore Napoletano 1799, a cura di Mario Battaglini, Guida, Napoli 1974, p. 150, nota 37.
(11) Ibidem. «Il controllo [sul clero] si espresse, tra l’altro, nell’indicazione dei temi da trattare in pastorali e prediche, e addirittura nella redazione di testi cui gli ecclesiastici si limitavano ad apporre la propria firma» (LUCIANO GUERCI, Istruire nelle verità repubblicane. La letteratura politica per il popolo nell’Italia in rivoluzione (1796-1799), il Mulino, Bologna 1999, p. 34).
(12 ) Nuovo Vocabolario Filosofico-Democratico indispensabile per chiunque brama intendere la nuova lingua rivoluzionaria, seconda edizione, tip. Campolmi, Firenze 1849, p. 31.
(13) Ibidem.
(14) RENZO DE FELICE, Italia giacobina, Società Editrice Meridionale, Napoli 1965, p. 258, nota 12.
(15) C. DE NICOLA, op. cit., p. 166. Sul saccheggio dell’abbazia di Casamari, con notizie anche sul sacco dell’abbazia di Montecassino, cfr. BENEDETTO FORNARI, Assassinio nell’abbazia. La rivoluzione francese in Ciociaria, Tipografia dell’abbazia, Casamari (Frosinone) 1987.
(16) FRANCESCO MARIO AGNOLI, Guida introduttiva alle insorgenze contro-rivolu- zionarie in Italia durante il dominio napoleonico (1796-1815), Mimep-Docete, Pessano (Milano) 1996, p. 43.
(17) BENEDETTO CROCE, Storia del regno di Napoli, Laterza, Bari 1980, p. 206.
(18) GIOVANNI CANTONI, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione , 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 7- 50 (p. 13).
(19) N. CORTESE, in PIETRO COLLETTA (1775- 1831), Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, 1844, 3 voll., Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1956-1957, vol. II, p. 11, nota 19.
(20) Il Monitore Napoletano 1799, cit., p. 510.
(21 ) RENZO UBERTO MONDINI (1909-1959), voce Sanfedismo, in Enciclopedia Cattolica, Ente per l’ Enciclopedia Cattolica, Roma 1953, vol. X, coll. 1754-1755 (col. 1755).