Oscar Sanguinetti, Cristianità n. 392 (2018)
La «colonna sonora» del Sessantotto. Fabrizio De André, Francesco Guccini, Vasco Rossi
Il Sessantotto (1) è stato in essenza una rivoluzione «nelle tendenze» (2), che ha interessato, cioè, principalmente i gusti, l’estetica, le abitudini e, quindi il senso comune dei popoli occidentali.
L’esplosione di ribellione giovanile che si verifica fra la metà degli anni 1960 e, all’incirca, la fine degli anni 1970 ha avuto una lunga gestazione nella sfera individuale o, lato sensu, interiore — che a mio avviso data almeno dal 1958, cioè dalla morte del Papa venerabile Pio XII (1939-1958) —, ossia è germinata da un «brodo di coltura», da un humus, non sempre immediatamente evidente. Secondo il politologo conservatore francese Jacques Ploncard d’Assac (1910-2005), «[…] non bisogna datare le rivoluzioni dal giorno in cui esplodono. In un certo senso allora finiscono» (3), perché, a suo avviso, la parte più importante di una rivoluzione è quella che non si vede, è la fase in cui si creano le premesse del suo scoppio: così è stato per il 1789, così per l’Ottobre Rosso del 1917 e così, anche con maggior aderenza alla tesi, per il Sessantotto, in cui la stagione politica è stata breve, ma gli effetti sulla cultura individuale e sociale ben più duraturi e profondi.
In questa propedeutica culturale le arti hanno giocato un ruolo fondamentale. Sicuramente sono state di vitale importanza le arti visive — la pop art, volutamente urtante, e l’optical art, dominata dal forte contrasto fra bianco e nero — e le loro discipline subordinate, come l’architettura, il design e la moda: chi, fra i più anziani, non ricorda le minigonne e gli innumerevoli sgargianti e stravaganti look giovanili lanciati dalla swinging London negli anni 1960? Credo, tuttavia, che il ruolo principale lo abbia svolto la musica, quantomeno quella moderna popolare — da distinguere accuratamente dalla musica folklorica e tradizionale —, appunto la pop music, la cui culla è l’«anglosfera».
Perché proprio la musica? Tutte le giovani generazioni rivoluzionarie, quanto meno dall’età del melodramma e del valzer, hanno avuto una inclinazione verso la musica, strumento di comunicazione pre-razionale — anche se la sua creazione è rigorosamente matematica — e veicolo principe dei sentimenti: si pensi, per esempio, alle opere di Giuseppe Verdi (1813-1901) Aida e Vespri siciliani e al loro impatto popolare in relazione al Risorgimento italiano. Tuttavia, solo dopo la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945), grazie alla diffusione dei media sonori — televisione, stazioni radio pubbliche e private, grandi industrie discografiche, concorsi canori e rotocalchi specializzati —, nonché all’incessante sviluppo delle tecnologie di visione e di ascolto — dischi «microsolco», juke-box, nastri magnetici in «cassetta», televisori, giradischi e «mangiadischi», radio e registratori portatili, impianti stereofonici ad alta fedeltà, come pure, più tardi, i walkman, i compact disc o CD e i lettori di file in formato mp3 —, la musica e la canzone hanno assunto una dimensione importante nell’immaginario popolare e hanno conquistato uno spazio enorme nella vita quotidiana e nelle preferenze della gente comune: basti pensare ai fasti imperituri del Festival di Sanremo in Italia e ai concorsi canori internazionali, nonché ai miliardi di copie di dischi, audio-cassette, CD e brani in versione musicale venduti nel corso dei decenni, così come alle gremitissime tournée di cantanti e di complessi, con concerti e spettacoli che si susseguono via via più numerosi di anno in anno.
I protagonisti della musica popolare legati in qualche modo al Sessantotto sono una miriade: come non citare i nomi — per limitarsi ai cantautori — di Luigi Tenco (1938-1967), Rino Gaetano (1950-1981), Francesco De Gregori, Franco Battiato, Lucio Dalla (1943-2012), Antonello Venditti, «Zucchero» (Adelmo Fornaciari), Edoardo Bennato, Roberto Vecchioni?
Tre, però, sono i cantanti e gli autori che meglio possono essere considerati il simbolo di quella stagione della storia nazionale: tre personaggi che, rispettivamente, anticipano, accompagnano e seguono la Rivoluzione culturale, che ha il proprio momento apicale nel 1968. Tre figure che, nel proprio ambito di azione, si possono ritenere l’emblema dell’articolazione del fenomeno rivoluzionario di quegli anni: Fabrizio De André (1940-1999), il cui impatto pare più efficace nella dimensione delle tendenze e delle sensibilità; Francesco Guccini, maggiormente indirizzato a quella delle idee e dei fatti e, infine, Vasco Rossi, che pare più in sontonia con una prospettiva nichilistica e, di rimbalzo, con la sfera delle tendenze.
Operando tali associazioni non intendo dire che il «lavoro» di De André si esaurisca nel 1968 o quello di Guccini nel fatidico 1979, né che le rispettive sfere d’impatto individuate siano rigidamente delimitate: l’«effetto De André» continua a lungo e tocca anche la politica, mentre quello di Guccini si riverbera pure nelle tendenze.
Fabrizio De André
De André è senza dubbio l’esponente più raffinato della «covata» di cantautori «genovesi» del secondo dopoguerra, che si apre con Umberto Bindi (1932-2002) e continua con Sergio Endrigo (1933-2005), Bruno Lauzi (1937-2006), Gino Paoli, marginalmente con Luigi Tenco, con il gruppo pop-rock New Trolls, di cui alcuni testi attingevano alla poesia di Riccardo Mannerini (1927-1980), nonché — perché no? — con l’attore e paroliere Paolo Villaggio (1932-2017). Le sue canzoni hanno inciso in maniera determinante nella formazione di quel sentimento collettivo, di quell’insieme di giudizi epidermici, di quella «ideologia popolare» che ha «preparato» e alimentato la ribellione giovanile del Sessantotto.
Fin dai suoi primi dischi, i testi scritti da «Faber» — l’appellativo con cui lo ha «ribattezzato» l’amico d’infanzia Villaggio — danno voce, in una veste poetica e musicale di alto profilo, a temi fino ad allora ignoti alla canzone italiana, perennemente imbevuta di amore e di sentimento, anche se più spesso in forme espressive da cartolina o, come si dirà poi, da fotoromanzo, ossia oleografiche e sdolcinate. La sua vita ribelle e trasgressiva — è noto il tempestoso rapporto con il padre, Giuseppe De André (1912-1985), uomo pubblico e dirigente d’impresa di successo, esponente a Genova del Partito Repubblicano Italiano —, che si traduce in scelte esistenziali radicalmente provocatorie, come la temporanea convivenza more uxorio con una nota prostituta genovese, si traspone in immagini e in idee che esprime nei suoi testi e nelle sue musiche.
Con voce profonda, dalla grande presa emotiva, attraverso le sue melodie originali e i suoi testi affascinanti, De André è il cantore delle periferie degradate, dove regnano il vizio e la miseria — La città vecchia —, dei matrimoni riparatori — Marcia nuziale —, di prostitute gioiose e redentrici — La canzone di Marinella, Via del Campo e Bocca di Rosa —, di gorilla in libertà che brutalizzano anziane compiacenti — Attenti al gorilla —, di amori appassionati — Canzone dell’amore perduto —, del pacifismo — La guerra di Piero —, del suicidio — Preghiera in gennaio, scritta nel 1967, dopo la tragedia dell’amico Tenco, uccisosi appunto dopo essere stato eliminato al Festival di Sanremo —, della droga — il bellissimo album Tutti morimmo a stento, proprio del 1968 —, di condannati a morte — La ballata del Miché —, forse anche di pedofilia — La leggenda di Natale —, spunto per i migliori saggi del suo primo periodo artistico.
Di formazione cattolica, non mancano nella sua produzione anche canzoni a sfondo religioso, come l’esplicita Si chiamava Gesù o Spiritual, in cui De Andrè rivisita la figura del Salvatore con spirito originale, quando non curioso, ma altresì in una prospettiva fortemente dissacrante. Anche i suoi testi apparentemente meno «politici» — come Fila la lana o il bellissimo La morte — e magari anche giocosi — come Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers — in realtà sfiorano temi esistenziali letti in una prospettiva di rottura, pessimistica e irriverente.
L’album che forse ha più in profondità «lavorato» la generazione che nel Sessantotto era adolescente e, in particolare, i giovani cattolici, credo sia stato La buona novella, ampia rilettura in chiave naturalistico-pauperistica del Vangelo, ispirata ai testi apocrifi. L’opera, pur in una forma poetica e musicale di alto pregio — forse il vertice artistico del cantautore genovese —, contiene una serie di giudizi sulla fede che ricalcano in larga misura gli stereotipi della cultura progressista — allora in forte ascesa dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) —, spingendosi fino agli estremi dell’eterodossia e della critica, se non materialistica, almeno naturalistica, della religione. Più che i documenti della Chiesa Cattolica che si andava rinnovando, saranno giudizi distorcenti come i suoi, ancorché espressi in forma artistica elevata e, quindi, più efficace, che contribuiranno a plasmare la visione della religione e della Chiesa nei figli del cosiddetto baby boom.
De André «prepara» il Sessantotto, ma non ne segue l’esplosione né in chiave politica, né nella sua forma più «pura», quella esistenziale, da «comune hippy». La sua prospettiva continua a essere rigorosamente individualistica e libertaria in senso classico: in gioventù ha letto autori come il filosofo anarchico tedesco «Max» Stirner (Johann Kaspar Schmidt, 1806-1856), e non è mancata nel 1957 una sua effimera iscrizione alla Federazione Anarchica Italiana di Carrara. De André però ispira e accompagna il Sessantotto, quasi inseguendo i frammenti disparati nati dalla sua deflagrazione.
Negli anni 1970 il cantautore rielabora le sue canzoni più datate, collaborando con i migliori musicisti del tempo, pop e non — per esempio il maestro Nicola Piovani, a suo tempo membro di collettivi del movimento studentesco romano —, ma sviluppa altresì temi espressivi e batte sentieri musicali nuovi. Tutti, però, modulati sempre sul filo di quel perenne pessimismo di fondo, quasi leopardiano — De André musica la bella ma triste Antologia di Spoon River dello scrittore e poeta statunitense Edgar Lee Masters (1868-1950) nell’album intitolato Non al denaro, non all’amore, né al cielo del 1971 —, che la vicenda drammatica del rapimento subìto in Sardegna insieme alla compagna — sposata nel 1989 —, la cantante lombarda Dori Ghezzi, arricchisce di ulteriori spunti. Così pure sviluppa l’ampia gamma di suggestioni che nascono dal folklore ligure e dal dialetto genovese così simile ad altri idiomi alto-mediterranei.
Inviso alla sinistra marxista sessantottina, che lo accusa d’individualismo, e, comprensibilmente, alla destra — anche se è ascoltato e amato da non pochi giovani anti-comunisti —, la sua vena artistica si collocherà sempre più in alto nella sfera della poesia cantata, nonostante le intermittenti ispirazioni da temi di cronaca. Non sempre la sua vena mantiene le promesse della stagione giovanile, ma il livello delle sue composizioni si mantiene parecchie spanne al di sopra della qualità media, non solo delle canzoni da festival, ma anche della canzone «impegnata» in generale.
Resta il fatto che la sua sensibilità poetica e le idee che essa veicola sono stati uno dei solventi più potenti della prospettiva ispirata dalla fede cattolica o, comunque, dell’idea di un qualsiasi ordine morale, nonché un agente efficace di destabilizzazione interiore, contribuendo al rovesciamento dei giudizi sulla realtà comuni alle generazioni dei primi decenni del secondo dopoguerra, ossia un attivo operatore di mutamento culturale.
Francesco Guccini
Con Guccini è davvero «tutt’altra musica». Guccini è, per lunga parte del proprio percorso artistico, l’interprete e il cantore del Sessantotto politico, cioè dell’impegno rivoluzionario. Anche se riluttante a schierarsi con una forza politica o con un gruppo extra-parlamentare preciso — ha affermato di non avere mai votato per il Partito Comunista Italiano, ma per i partiti post-comunisti sì —, i suoi testi, talora veri e propri poemi infiorati da termini graffianti e gergali, quando non decisamente volgari, esaltano la lotta politica della sinistra socialcomunista del decennio successivo al Sessantotto; se il suo fondo, però, rimane sostanzialmente individualistico e anarcoide, trovando forse la sua migliore espressione nella mitica Locomotiva. Anticipatore con Dio è morto e con Auschwitz, entrambe del 1967 — ma anche con Primavera di Praga del 1970 —, della stagione della rivolta, ne è protagonista, ancorché sempre da artista, e le sue canzoni attingono largamente a quell’esperienza e all’autobiografia.
Guccini non affronta temi esplicitamente ideologici, ma più spesso al centro delle sue canzoni vi sono la condizione esistenziale disordinata e scapestrata di quella generazione, i giorni scanditi da assemblee, volantinaggi, alcool, interminabili discussioni ideologiche e politiche, osterie e libertinismo sessuale. Cioè di quegli hippy travestiti da insurrezionalisti violenti, da terroristi, da «indiani metropolitani», rifluiti poi, dopo la grande disillusione — al netto di quelli che hanno creduto davvero nell’utopia e che hanno preferito il suicidio all’integrazione nel «sistema» —, nei cinici yuppie degli anni 1990: ovvero in chi non solo converte in arrivismo aggressivo la disillusione, ma sfrutta, consapevolmente o meno, per fini privati il «giro mentale» delle contro-culture sessantottine, da cui sono assenti la fede e la speranza teologali, anche nella forma secolarizzata che ha «fatto» il Sessantotto.
Presto il cantautore modenese si accorge, però, con fastidio da «anarchico», del «cappello» che più di un gruppuscolo o di un partito cercano di mettere sulle sue canzoni e si smarca — lo narra ne L’avvelenata — da questa ipoteca. E preferisce cantare con toni nostalgici il fallimento di quell’impegno e lo smarrimento di una generazione in composizioni come Incontro, Vedi cara ed Eskimo. Ma affronta con liriche pregevoli anche temi meno «impegnati» a sinistra e anche meno «esotici» rispetto alla sua prima fase, toccando il vertice qualitativo con testi e musiche di ampio respiro come Radici e Asia.
Autore di testi e di musiche in genere di alto livello, Guccini rimane comunque sempre il cantore dei miti della sinistra rivoluzionaria italiana e internazionale, come quando, per esempio, celebra a suo modo, con Stagioni e Canzone per il Che, il lutto per l’uccisione del leader rivoluzionario cubano-argentino Ernesto «Che» Guevara de la Serna (1928-1967); oppure quando difende, in Canzone per Silvia, l’italiana Silvia Baraldini arrestata negli Stati Uniti d’America per terrorismo. Ma non sarà comunque mai irreggimentato in una qualche scuola o fazione.
Vasco Rossi
Più giovane di De André e di Guccini — entrambi del 1940 —, Rossi, nato nel 1952, esordisce nel 1977. Canta la generazione dei «rivoluzionati»: la sua non più quella dei pre-rivoluzionari e dei rivoluzionari, ma la «generazione di sconvolti», come la definisce egli stesso in Siamo solo noi, che ne è l’erede diretta. La sua è la gioventù post-sessantottina — padri, ma soprattutto figli e nipoti o, magari, «figli» culturali dei sessantottini montati in cattedra —, rifluita nel divertimento, nell’alcool, nella «vita esagerata», nella ricerca di tutto hic et nunc, del paradise now; un’utopia collettiva non vissuta tutta e subito — o, quanto meno, riversata nell’azione presente in vista di un futuro a breve —, ma sostanziata da puro edonismo, da odio per le regole, dal godimento dell’istante, dal bisogno di provare sensazioni straordinarie attraverso le droghe — quelle «aggiornate» degli anni 2000 —,gli «sballi» vari, le esperienze sessuali fine a sé stesse, animata dai falsi miti di una società preda dei mass-media e scandita da intimismi e da amori «da bar», avventure a breve raggio e di breve durata, da trasgressioni «da nano» — che vuole «andare al massimo», ma invano —, visto che quelle «da gigante» sono fallite miseramente.
Una prospettiva dunque, quella del «Blasco» — come il cantutore viene soprannominato dai fan —, radicalmente secolarizzata, dove il senso del peccato è assente, totalmente auto-referenziale e irresponsabile, priva di attenzione per la ricaduta sugli altri dei propri atti — «una vita maleducata» e «spericolata» —, priva di assunzioni di responsabilità vere, immatura, quando non infantile. Le sue canzoni raccontano l’esperienza di una generazione attraverso vicende di cui l’autore è protagonista eminente, come racconta la sua turbolenta biografia, costellata di trasgressioni e di arresti. Esplicitamente ateo e sostenitore dell’eutanasia, nonché iscritto da sempre al Partito Radicale, vicino alle battaglie condotte da questa formazione politica per dissacrare e «de-moralizzare» sempre più la società italiana, la sua musica affascina anche quei cultori della «vita che se ne frega» che da sempre allignano nell’estrema destra esistenziale e politica.
La sua musicalità non si avvale più di motivi melodici, dalla ballata alla tarantella, ma adopera più spesso «basi» di rock a volte anche «duro», sulle quali s’innesta la sua voce roca. Non a caso le canzoni di Rossi, a differenza dell’«artigianato» di De André e di Guccini, assomigliano a un oggetto di fabbrica, a un prodotto «industriale», dell’industria discografica di largo consumo — ben 32 album finora —, concepito e realizzato da tecnici di alto profilo, in grado di produrre «oggetti» gradevoli al palato del pubblico popolare, incartati in musiche ad alta presa emotiva. Le sue canzoni riflettono l’ethos e la cultura di un’epoca in cui la tecnocrazia e i grandi centri di produzione musicale di massa hanno vinto sullo spontaneismo e sull’ideologia libertaria, imponendo i propri temi e i propri modelli con la stessa logica di una bibita o di un telefonino. Rossi non è forse il caso estremo: il massimo della «prefabbricazione» di un cantante di successo, partendo da una base oggettivamente povera — tanto come idee, quanto come doti artistiche —, ma del tutto plasmabile, si raggiunge probabilmente con personaggi come Lorenzo Cherubini, in arte «Jovanotti».
Terzo guru di una generazione, di gran lunga meno raffinato di De André e di Guccini, Rossi ha sulla gioventù e sulla gente comune una presa immensa e lo testimoniano i numeri degli spettatori in delirio ai suoi concerti, di cui detiene il record assoluto in Italia. Migliaia saranno altresì i giovani che, imitandone lo stile di vita, cercheranno — i più colti forse un po’ sul modello del filosofo nichilista tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900), gli altri perché «di moda» e perché tocca corde ancora sensibili — di imitarne le gesta «al di là del bene e del male» (4) e di seguire i motivi e i modelli espressivi delle sue canzoni, dando vita poi a stili di vita tutt’altro che encomiabili, tanto egocentrici quanto proni allo squallore di atti di maleducazione e micro-violenze sui più deboli e i più vicini.
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Concludendo, se De André canta l’utopia pacifistica e umanitaristica, l’individualismo libertario e anarcoide, e Guccini canta l’ideologia e il movimento, nonché lo stile di vita di chi a essi s’ispira, Rossi è probabilmente il cantore del nichilismo morale ed esistenziale, in cui fatalmente sfocia l’impegno rivoluzionario delle origini, dopo quella «liquidazione del Sessantotto» — tralignato nel terrorismo —, il cui simbolo è probabilmente il film statunitense La febbre del sabato sera del 1977.
Il Sessantotto «storico» si esaurisce nel breve volgere di un decennio, ma il Sessantotto «mito» e il Sessantotto «cultura», ossia modo di leggere il reale, sedimenta nel senso comune collettivo e nelle «lotte per i diritti civili», veri o presunti — lo si vedrà con drammatica evidenza nella «sconfitta della ragione» in occasione dei due referendum, quello contro il divorzio del 1974 e quello contro la legalizzazione dell’aborto nel 1981 —, in realtà spesso travestimenti dell’egoismo individualistico più radicale, e continua a scatenare i propri effetti perversi ancora ai giorni nostri, configurandosi come responsabile primo di quella «dittatura del relativismo» (5) e di quella agglutinazione di «coriandoli» «rancorosi» a cui è ridotta la società italiana odierna.
Non tutto nelle composizioni dei tre «maestri» descritti è cattivo, anzi tanti sono i pezzi di alto pregio e anche non pochi quelli dal contenuto condivisibile. Ma il fatto che la parte esteticamente pregevole finisca, senza alcun discernimento, «annegata» nell’altra, quella negativa e ideologica, ovvero nel «messaggio» che prevale, fa dire in sostanza che si tratta di tre «cattivi maestri», di tre «guide» esistenziali da cui prendere le distanze nell’estetica di ogni processo formativo che voglia costruire una persona coerente con la sua natura e «secondo il piano di Dio».
Oscar Sanguinetti
Note:
(1) Su alcuni aspetti del Sessantotto, cfr. Enzo Peserico (1959-2008), Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, terrorismo e Rivoluzione, Sugarco, Milano 2009, una sintesi del quale si trova in Idem, voce Il Sessantotto italiano (1968-1977), in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un «Dizionario del Pensiero Forte», a cura di Giovanni Cantoni, presentazione di Gennaro Malgieri, Edizioni di «Cristianità», Piacenza 1997, pp. 221-222. Per un primo approfondimento di alcune delle «premesse», cfr. Salvatore Calasso, Alle origini del Sessantotto. La Beat Generation, in Cristianità, anno XLVI, n. 391, maggio-giugno 2018, pp. 37-64.
(2) Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009); con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, a cura e con Presentazione di G. Cantoni, Sugarco, Milano 2009, Parte I, La Rivoluzione, cap. V, Le tre profondità della Rivoluzione: nelle tendenze, nelle idee, nei fatti, 1. La Rivoluzione nelle tendenze, p. 59.
(3) Jacques Ploncard d’Assac, Manifeste nationaliste, Plon, Parigi 1972, p. 145.
(4) Cfr. Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, trad. it., Adelphi, Milano 2014.
(5) Cfr., per esempio, Benedetto XVI (2005-2013), Messaggio per la celebrazione della XLVI Giornata Mondiale della Pace, dell’8-12-2012, n. 2.