Gaio Plinio Secondo detto il Vecchio (23-79), Cristianità n. 261-262 (1997)
Cominceremo a buon diritto dall’uomo, in funzione del quale sembra che la natura abbia generato tutto il resto. Ma essa ha preteso, in cambio di doni così grandi, un prezzo alto e crudele, fino al punto che non è possibile dire con certezza se essa sia stata per l’uomo più una buona madre o una crudele matrigna. In primo luogo lo costringe, unico fra tutti gli esseri viventi, a procacciarsi all’esterno i suoi vestiti. Agli altri, in vario modo, la natura fornisce qualcosa che li copra: gusci, cortecce, pelli, spine, peli, setole, piume, penne, squame, velli; anche i tronchi degli alberi li protegge dal freddo e dal caldo, con uno e talora due strati di corteccia. Soltanto l’uomo essa getta nudo sulla nuda terra, il giorno della sua nascita, abbandonandolo fin dall’inizio ai vagiti e al pianto e, come nessun altro fra tanti esseri viventi, alle lacrime, subito, dal primo istante della propria vita: invece il riso, per Ercole, anche quando è precoce, il più rapido possibile, non è concesso ad alcuno prima del quarantesimo giorno. Subito dopo il suo ingresso alla luce, l’uomo è stretto da ceppi e legami in tutte le membra, quali non si impongono neppure agli animali domestici. Così lui, che ha aperto gli occhi alla felicità, giace a terra con mani e piedi legati, piangente — lui, destinato a regnare su tutte le altre creature — e inaugura la sua vita fra i tormenti, colpevole solo di esser nato. Che stoltezza quella di chi, dopo inizi siffatti, si ritiene destinato ad imprese superbe! Il primo barlume di vigore, il primo dono che il tempo gli concede lo rendono simile a un quadrupede. Quando comincia a camminare e a parlare come un uomo? Quando la sua bocca diventa adatta a prendere il cibo? Quanto a lungo resta molle la sua testa, segno della massima debolezza fra tutti gli esseri viventi! E poi le malattie, e le tante medicine escogitate contro i mali, ma anch’esse vinte ben presto da nuove sciagure! E ogni altro essere sente la propria natura: chi impara a correre velocemente, chi a volare con celerità, chi a nuotare. L’uomo invece non sa far nulla, nulla che non gli sia insegnato: né parlare, né camminare, né mangiare; insomma, per sua natura, non sa fare altro che piangere! Perciò molti hanno pensato che la cosa migliore fosse non nascere, oppure morire al più presto. Solo all’uomo, fra gli esseri viventi, è stato dato il pianto; solo a lui il piacere, che si manifesta in infiniti modi e nelle forme proprie alle singole parti del corpo; solo a lui l’ambizione, l’avidità, una smisurata voglia di vivere, la superstizione, la preoccupazione della sepoltura e anche di ciò che gli accadrà dopo la morte. Nessuno ha una vita più precaria, né maggiore brama di ogni cosa; nessuno è preda di angosce più disordinate, né di un furore più violento. In conclusione, gli altri animali vivono bene tra i propri simili. Li vediamo aggregarsi ed opporre resistenza contro le specie diverse; ma i leoni non sono spinti dalla loro ferocia a combattere contro altri leoni, il morso dei serpenti non assale altri serpenti, e neppure i mostri marini e i pesci incrudeliscono, se non contro specie differenti. Invece, per Ercole, all’uomo la maggior parte dei mali è causata da un altro uomo.
Gaio Plinio Secondo detto il Vecchio (23-79)
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Naturalis historia VII, 1, trad. it. Storia naturale, ed. diretta da Gian Biagio Conte con la collaborazione di Alessandro Barchiesi e Giuliano Ranucci, vol. II, libri 7-11, Antropologia e zoologia, trad. e note di Alberto Borghini, Elena Giannarelli, Arnaldo Marcone e Giuliano Ranucci, Einaudi, Torino 1983, pp. 8-11. L’immagine è in un’edicola esterna al duomo di Como — rinnovato dal secolo XIV al XVIII —, ed è attribuita a Tommaso e a Giacomo Rodari, due fra i membri di una famiglia di scultori oriunda di Maroggia, sul Lago di Lugano, attivi in Lombardia a cavallo fra i secoli XV e XVI.