Con la sentenza del 13 giugno 2024, la Corte europea dei diritti dell’uomo esclude che uno Stato che vieti la morte medicalmente assistita violi il diritto dell’individuo alla vita privata e familiare e il divieto di discriminazione, previsti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo
di Carmelo e Giovanni Maria Leotta
La decisione di Strasburgo e la sua importanza per l’Italia
La Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU), chiamata a esprimersi sui ricorsi promossi contro gli Stati aderenti al Consiglio d’Europa per violazione di un diritto riconosciuto e disciplinato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), ha pronunciato il 13 giugno 2024 una importante sentenza della Sezione I, la quale ha escluso l’esistenza di un diritto individuale del malato ad ottenere la morte medicalmente assistita per porre fine alle proprie sofferenze.
Il tema è di grande attualità per l’Italia, perché il prossimo 19 giugno la Corte costituzionale dovrà decidere se sia o meno in contrasto con gli artt. 3, 13, 32, 2° co. e 117 Cost. (con riferimento agli artt. 8 e 14 CEDU) l’art. 580 del codice penale italiano, nella parte in cui, dopo la sentenza n. 242 del 2019 della stessa Corte costituzionale (si tratta del noto caso Cappato-D.J. Fabo), richiede, insieme con altri requisiti, che, per non punire l’autore di una condotta di aiuto al suicidio, il malato-suicida che lo richiede sia necessariamente tenuto in vita da un trattamento di sostegno vitale, rifiutando il quale andrebbe comunque incontro alla morte.
Cosa lamentava il ricorrente nel caso deciso il 13 giugno?
Il ricorrente, Dániel András Karsai, è un avvocato di Budapest, affetto da sclerosi laterale amiotrofica (SLA), malattia degenerativa che procura una graduale perdita di funzionalità e controllo dei muscoli, pur consentendo al malato la conservazione delle funzioni intellettuali. Il cittadino ungherese lamenta che non gli sia consentito dal suo Stato accedere né in Ungheria né all’estero alla morte medicalmente assistita per porre fine alla propria vita prima di incorrere nella morte per paralisi respiratoria, ovvero prima che le sofferenze siano troppo dure da sopportare.
Il diritto ungherese, in effetti, non consente la morte medicalmente assistita (né l’aiuto al suicidio tout court), che è sanzionato penalmente, pur garantendo il diritto del malato di rifiutare il trattamento di sostegno vitale nei casi di prognosi di morte a breve termine. È chiaro che, in quest’ultimo caso, il paziente, rifiutando la continuazione della cura, di lì a breve, andrà incontro alla morte, seppur non come conseguenza di un atto positivo che gliela procura direttamente, bensì, appunto, come conseguenza della interruzione della cura.
Un simile divieto sancito dal diritto ungherese, pur a fronte del riconoscimento del diritto di interrompere la cura salvavita, integra, per Dániel Karsai, non solo una violazione dell’art. 8 CEDU, che sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, ma anche del divieto di discriminazione, sancito dall’art. 14 CEDU. Karsai, infatti, non potendo accedere al suicidio assistito, ritiene di essere discriminato, cioè trattato irragionevolmente in modo diverso rispetto a quei malati terminali dipendenti da un trattamento di sostegno vitale, i quali, proprio grazie al fatto di essere sottoposti ad un trattamento salvavita, possono scegliere, rinunciando al trattamento, di morire. Da ultimo, il divieto di suicidio assistito, obbligando il paziente cosciente ad essere prigioniero del proprio corpo per un tempo prolungato, comporterebbe anche una violazione del divieto di tortura (art. 3 CEDU) e della libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 9 CEDU), posto che la continuazione della vita in siffatte condizioni di malattia e di sofferenza obbligherebbe la persona a vivere in condizioni che sono contrarie al proprio senso di dignità.
Gli Stati non violano la CEDU se vietano il suicidio assistito
La Corte EDU, dopo aver osservato che la materia del fine vita solleva delicate questioni morali, etiche e politiche, rispetto alle quali le autorità nazionali sono quelle maggiormente in grado di valutare le priorità, l’impiego delle risorse e le esigenze delle rispettive popolazioni, pur dando atto della tendenza, maturata in alcuni Stati, di fare scelte di non punibilità del suicidio medicalmente assistito dei pazienti non guaribili, afferma che le fonti internazionali, tra cui anzitutto la Convenzione di Oviedo del Consiglio d’Europa, non contengono prescrizioni che esortino né tanto meno vincolino gli Stati all’introduzione nei rispettivi ordinamenti della morte medicalmente assistita. Pertanto, la scelta se introdurre o meno siffatta disciplina rientra nelle scelte discrezionali degli Stati nazionali.
Le cure palliative sono, invece, un diritto fondamentale del paziente
Se la morte medicalmente assistita non è un diritto nel sistema CEDU, lo è invece l’accesso alle cure palliative; con riferimento al caso di specie, le opzioni praticabili in materia di palliazione, secondo le indicazioni dell’Associazione europea di Cure Palliative (compreso il ricorso alla sedazione palliativa) sono da ritenersi generalmente idonee per fornire sollievo ai pazienti in situazioni analoghe a quelle del richiedente, consentendo di morire serenamente. La sentenza, osservando che il ricorrente non aveva contestato l’adeguatezza delle cure palliative a sua disposizione, chiarisce che, ancorché la scelta di non accedere alle cure palliative rappresenti una scelta legittima del paziente, la rinuncia o il rifiuto a utilizzare i rimedi appropriati e disponibili che lo Stato gli propone non può essere fonte di un obbligo per lo Stato di legalizzare la morte medicalmente assistita.
Alla luce di ciò, si comprende anche perché il mancato accesso alla morte medicalmente assistita non integri neppure, diversamente da quello che lamenta l’avvocato ungherese, una violazione del divieto di discriminazione, sancito dall’art. 14 CEDU. Il ricorrente, come si diceva poco sopra, lamenta di essere discriminato nel godimento del diritto alla vita privata e familiare, posto che gli viene preclusa la morte medicalmente assistita laddove i malati terminali, dipendenti da un trattamento di sostegno vitale, possono decidere di morire chiedendo l’interruzione del trattamento; la Corte, tuttavia, esclude che la diversità di trattamento sia irragionevole e, quindi, discriminatoria. Infatti, il rifiuto e la richiesta di sospensione delle cure mediche (anche nelle fasi terminali della vita) sono estrinsecazione del consenso informato al trattamento sanitario, quale requisito fondamentale nell’esercizio della professione sanitaria, mentre la richiesta di morte medicalmente assistita non è esercizio di siffatto diritto (al consenso informato).
Sono, infine, dichiarate manifestamente infondate le ritenute violazioni degli artt. 3 e 9 CEDU, in materia di divieto di tortura e di libertà di coscienza e religione.
Sentenza, dunque, importante, quella della Sezione I della Corte europea, che, oltre a dare una risposta coraggiosa sul tema del fine vita, ha il merito di porre al centro della scena, nelle scelte di disciplina del fine vita, la politica degli Stati, anziché, come talora è accaduto, le decisioni creative dei giudici delle alte corti nazionali e internazionali.
Domenica 16 giugno 2024