Lush Gjergji, Cristianità n. 243-244 (1995)
Ormai da tre anni l’ex Jugoslavia è sconvolta dalla guerra: una guerra che, pur consumandosi a pochi chilometri dall’Italia, continua a essere poco nota. La frantumazione della Jugoslavia è stata gestita dai potenti del mondo in modo per nulla omogeneo, permettendo così ai serbo-comunisti d’iniziare a espandersi per la creazione della Grande Serbia, basata su un nazionalismo esasperato, e con la pratica della «pulizia etnica». L’intervento dell’ONU non è giovato ad altro che a «chiudere» le vittime dell’aggressione da parte dell’esercito serbo-comunista. Tutti, anche quelli che non sono potenti, sono chiamati a promuovere la pace, a fermare una guerra che potrebbe allargarsi ben oltre i confini attuali.
La crisi jugoslava e il mondo
Ormai sono più di tre anni che la guerra nella ex Jugoslavia sta distruggendo tante vite umane, soprattutto quelle di molti bambini innocenti, di tanti anziani, di malati, di molte donne. La guerra colpisce sempre di più la parte meno difesa e più preziosa della società. Ma quale società? Quale guerra? Che cosa si potrebbe, si dovrebbe e si vorrebbe fare?
Questi sono alcuni interrogativi angoscianti e drammatici della gente comune, della gente semplice che, giorno dopo giorno, sta «vivendo» questa guerra da vicino, animata soprattutto da sentimenti umani e cristiani. Da vicino, con il cuore e con la mente, sulla base di quanto offrono e presentano i mezzi di comunicazione sociale. Da vicino, perché questa guerra non si fa in qualche parte sconosciuta del mondo, come accadeva prima, nel caso di Vietnam, Cambogia, Palestina, Afghanistan, Pakistan, Iraq o Iran, ma — come si suol dire — si fa da noi, «a due passi» da noi. Eppure questi due passi ci dividono tanto e ci avvicinano, perché il destino degli altri popoli è anche il nostro destino. La gente comune, con buon senso, ma ancor di più con il cuore che sa amare, con rabbia e con decisione, dice basta. Invece la guerra «cresce», si allarga, diventa sempre più difficile da capire, ancor più difficile, adesso quasi impossibile, controllarla e fermarla. Il caso di Srebrenica è ancora un «caso», la dimostrazione concreta e drammatica dell’assurdità della guerra nazionalista, che uccide, che «pulisce» spazi e comunità, che massacra gli altri solo per il fatto che non sono serbi! Dove siamo arrivati?
Impotenza o indecisione, mala fede o irresponsabilità, complicità nazionale e internazionale, progetti segreti o qualche altra cosa ancora più terribile e più temibile?
La rabbia, la disperazione, la rassegnazione, la frustrazione… ormai si vivono un po’ ovunque. E quelli che sono là, nell’inferno dell’odio, delle divisioni etniche e delle contrapposizioni religiose — attizzate e giocate dialetticamente soprattutto dalle vecchie nomenkluture comuniste, politiche, poliziesche e militari, e da nuovi agitatori islamisti —, «protetti» dall’Organizzazione delle Nazioni Unite e dal mondo, come stanno? Cosa fanno? Sono «protetti», cioè chiusi, nelle cosiddette enclave dell’ONU, perché non possano fuggire, uscire, circondati da tutte le parti, per poter essere la «preda» sicura nelle mani dell’esercito serbo-comunista.
Che vergogna! Che disgrazia! Che orrore! Ma che mondo è questo? Di che Organizzazione delle Nazioni Unite si tratta? Ecco che cosa vuol dire oggi essere protetti dai grandi della terra, trovarsi nelle mani del destino, dell’odio, della guerra che sta devastando e distruggendo tutto e tutti quelli che non sono forti, armati, uniti nel male degli armamenti e delle alleanze poliziesco-militari!
La guerra nella ex Jugoslavia ha dimostrato due realtà molto tristi e pericolose:
1. La Jugoslavia non esiste più come nazione — se mai è stata una nazione —, come Stato, come federazione, come confederazione, ma si è trasformata in una zona di grandi interessi nazionali e internazionali, prima di tutto dei governanti della Russia e dei paesi islamici, ma, in qualche modo, anche di quelli dell’Europa e dell’America. Sul piccolo territorio vogliono essere un po’ tutti presenti per partecipare alla divisione delle sfere d’interesse, per il Mediterraneo, per la questione chiave dei Balcani…
Purtroppo il mondo ha affrontato male, malissimo questa disgregazione, e perciò ha causato e sta ancora causando la guerra in atto. Perché? La globalità della crisi richiede anche la globalità della soluzione. Facciamo un esempio concreto, tratto dalla vita di tutti i giorni: quello della malattia. Il medico, prima di curare una malattia, prima d’intervenire, deve accertarsi di quali sono le condizioni generali del paziente, altrimenti cura «una parte» uccidendo o distruggendo il resto.
Nel caso della ex Jugoslavia è successo proprio così. Prima si è proceduto ai riconoscimenti della Slovenia e della Croazia, poi a quello della Bosnia-Erzegovina, in parte a quello della Macedonia. Ma che cosa ne è stato del resto della Jugoslavia? La Serbia di Slobodan Milosevic ha occupato il Kossovo a Vojvodina, il Montenegro, e così, con la metà della ex Jugoslavia, soprattutto con l’esercito federale, si sta adesso «allargando» anche nelle altre parti, particolarmente in Bosnia e in Croazia. Perché e con quale scopo? Per la creazione della Grande Serbia, basata sul nazionalismo esagerato ed esasperato, sul concetto della terra-territorio da occupare e «pulire» etnicamente.
2. Ma quello che pesa e brucia ancora di più, dal punto di vista morale e politico, è la triste constatazione per cui, purtroppo, non esiste più non solo la Jugoslavia, ma neppure l’Europa — o forse non è mai esistita —, perché non può, non vuole, non sa gestire questa crisi-guerra in atto. Non esiste più nemmeno l’Organizzazione delle Nazioni Unite, la garanzia internazionale della pace nel mondo! Il mondo d’oggi è, più che mai, nelle mani del destino, delle forze militari, delle potenze oscure, sotterranee, degli interessi di ogni genere, per i quali l’uomo, la vita, il popolo, la cultura, tutto viene distrutto senza pietà.
Il pericolo è grande, la provocazione è grave, la minaccia è troppo carica di pericoli. La guerra in atto potrebbe allargarsi aprendo un fronte meridionale, coinvolgendo il Kossovo, la Macedonia, la Bulgaria, l’Albania, la Grecia e la Turchia, quindi potrebbe diventare rapidamente una guerra panbalcanica, europea, addirittura mondiale…
Il monito della guerra in atto in Bosnia è un allarme per il mondo: fermiamo la guerra, partendo dal popolo, dalla gente comune, che ancora ha un cuore, il desiderio della pace e della giustizia, del perdono, della convivenza, perché domani potrebbe essere tardi per tutti.
Un proverbio albanese recita: «Il bene nasce lentamente e faticosamente, il male improvvisamente»!
Se i grandi della terra non sanno o non possono oppure non vogliono fare niente per la pace, allora la parola spetta al popolo, alla gente, ai mezzi di comunicazione sociale, a noi tutti, per non essere complici, o addirittura, un domani, vittime della guerra in atto.
Lush Gjergji