
Il fotografo Mario Giacomelli e il sacerdozio
di Michele Brambilla
Ha aperto da alcuni giorni a Milano, a Palazzo Reale, una mostra fotografica dedicata a Mario Giacomelli (1925-2000) nel centenario della nascita. Cattolico da Messa quotidiana, è sempre stato un uomo di profonda spiritualità. Tuttavia, un giorno la sua fede attraversò una grande crisi.
Accadde quando, tra il 1961 e il 1963, il fotografo provò a seguire per più di un anno la vita interna del Seminario diocesano della sua città (Senigallia, nelle Marche), volendo scoprire cosa spinga un giovane ad intraprendere un percorso che, agli occhi del mondo, è pieno di privazioni. In quei mesi si imbatté, infatti, in un giovanissimo chierico che, in lacrime, chiedeva insistentemente al padre contadino perché mai l’avesse spinto a frequentare il seminario. Ai tempi, come è accaduto per molti secoli, c’era ancora l’uso, presso molte famiglie contadine, di iscrivere i propri figli nei seminari minori per far sì che potessero studiare e riscattarsi da una vita, quella agreste, che era percepita come povera e massacrante.
Giacomelli colse l’attimo e scattò una foto, che volle però tenere per sé. Quello scatto lo tormentava. Del sacerdozio vedeva, ormai, solo il lato della “rinuncia” e guardava ai chierici come a persone drammaticamente infelici. Non a caso alla raccolta fotografica di quel periodo diede un titolo quanto mai significativo: Io non ho mani che mi accarezzino il volto, ad indicare l’estrema solitudine del sacerdozio. Confermò quel titolo anche quando le immagini cominciarono a cambiare tenore, perché voleva che il “lettore” cogliesse lo stridore e comprendesse che all’interno dell’opera c’era stato un momento di autentica conversione.
La Grazia venne, infatti, incontro al fotografo, aprendolo ad una visione più complessiva della vocazione religiosa. Giacomelli seguì i seminaristi anche nelle loro gite invernali in montagna. E proprio in una di quelle occasioni uno dei ragazzi più giovani si mise a roteare per gioco con la sua tonaca svolazzante. Subito dopo altri chierici si presero per mano a comporre un allegro girotondo, che è diventato uno degli scatti più famosi dell’autore senigalliese, tanto che recentemente il comune di Senigallia ha deciso di riprodurlo anche sul fondo della fontana posta davanti ad un altro simbolo della città marchigiana, la Rotonda a mare.
Giacomelli colse in quel momento che il sacerdozio non è rinuncia. E’ vero, il prete è celibe, non può fare molte cose, ma tutto è sorretto da una Mano invisibile, che infonde una gioia autentica e irrefrenabile: la gioia dello Spirito. Il fotografo divenne capace di cogliere quella gioia e iniziò a ritrarla in maniera sempre più evidente anche nella bella stagione.
Le foto della raccolta Io non ho mani che mi accarezzino il volto sfruttano appieno la poetica del bianco e nero per creare contrasti cromatici. Giacomelli non è mai passato al colore, in tutta la sua carriera, dando ai suoi scatti un senso di eternità. Lo vediamo con altrettanta precisione nelle raccolte dedicate alla campagna marchigiana, ritratta nei suoi giochi di luce quasi onirici e nelle sue forme geometriche pure. Anche nei solchi tracciati dal contadino si ritrovano i segni di una Sapienza che ha fatto il mondo con amore e riempie il creato delle sue “firme”. Nel corso dell’estate i turisti che visitano Senigallia sono spesso accompagnati lungo le strade ritratte da Giacomelli, che intanto si sono un po’ modificate. L’agricoltura si è meccanizzata e tante case coloniche sono divenute resort di lusso. I seminaristi senigalliesi sono confluiti da tempo nel Seminario regionale della Marche ad Ancona. Il destino del museo dedicato a Giacomelli è spesso oggetto di diatriba tra la famiglia e le amministrazioni comunali di Senigallia.
Rimane però il messaggio profondo del fotografo, che ricordiamo nel giorno in cui 12 diaconi ambrosiani sono ordinati sacerdoti nel Duomo di Milano, a pochi passi dalla foto che ritrae il girotondo dei loro “compagni” marchigiani di qualche decennio fa.
Sabato, 7 giugno 2025