Gonzague de Reynold, Cristianità n. 153-154 (1988)
Qu’est-ce que l’Europe? Éditions de la Librairie de l’Université, Friburgo 1941, pp. 29-36. Traduzione e titolo redazionali.
La filosofia della storia
La filosofia della storia è molto più semplice, senza essere una semplificazione, di quanto i termini non lascino credere. La filosofia della storia è fondata sull’osservazione e sull’esperienza. Consiste soprattutto nel mostrare buon senso sulle grandi dimensioni. Si riporta a un metodo generale.
Cominciamo con una definizione da dizionario: per filosofia della storia si intende un insieme di studi e di considerazioni che presentano tutti un alto grado di generalizzazione, e che hanno lo scopo di ricondurre le conoscenze storiche a un numero limitato di fatti essenziali, di linee direttrici. Si potrebbe anche dire di leggi, se in storia esistessero le leggi, cosa di cui sono lungi dall’essere convinto. Chi dice legge dice determinismo e anche fatalità. Ma, con il mio maestro e amico Bergson, a cui devo tanti lumi — dal momento che la filosofia bergsoniana è una filosofia della storia che ignora sé stessa —, non credo assolutamente all’inconscio né alla fatalità in storia. Questa è l’opera degli uomini — di alcuni uomini che hanno trascinato gli altri — cioè dell’intelligenza e della volontà. È vero che questa volontà, questa intelligenza hanno dei limiti. Proprio Bergson scrive: «Gli uomini sanno ciò che fanno, ma non possono prevederne tutte le conseguenze». Proposizione assolutamente cristiana che, riaffermando la libertà umana, mi sembra fissare a questa libertà limiti oltre i quali la Provvidenza opera sola e sovranamente. La stessa storia si spiega anche molto meglio con la teologia che con la filosofia, a maggior ragione che con la scienza.
La filosofia della storia è dunque un metodo per giungere a una sintesi. È un’impresa architettonica che ha bisogno, per compiersi, sia dell’arte che della scienza. In questo essa è della stessa natura del suo oggetto, la storia. Ma la storia è una scienza a mezzo busto. Essa è integra, completa soltanto con l’arte. La scienza storica è sostanzialmente fatta di documentazione, di erudizione: ricercare i fatti, verificare i fatti, classificare i fatti. L’arte storica è un’arte di psicologia, d’intuizione e di costruzione. Si manifesta nella capacità di mettersi nei panni del passato, d’incarnare in sé l’anima del passato, insomma di evocare il passato in un modo che lo risusciti, lo faccia vivere. Senza quest’arte, lo storico rimane un semplice erudito, un professore, uno specialista.
In definitiva, che cos’è la storia? Si potrebbe definirla la conoscenza e la spiegazione della vita umana nelle sue forme sociali e collettive. Oppure, in pratica, l’esperienza del passato a uso del presente. Ecco perché san Tommaso d’Aquino, quando tratta della prudenza politica, esige dall’uomo di Stato I’acquisizione, il possesso di questa esperienza storica. L’ignoranza del passato falsa la politica. È un segno di barbarie. È curioso, deludente verificare questa contraddizione: mentre ci si inchina con rispetto spesso superstizioso davanti alle ricerche di laboratorio, mentre tutti sono d’accordo nell’accettare la catena delle esperienze e delle invenzioni, ci si rifiuta di vedere nella storia il laboratorio della società umana e di tener conto dell’esperienza storica, mentre ci si sforza di tener conto di tutte le altre. Quanti mali sono dovuti a questo misconoscimento! La storia contemporanea, dopo il 1914 — per esempio, gli errori del trattato di Versailles — ce ne fornisce la tragica dimostrazione.
Non significa assolutamente falsare la storia volere che serva, che ci insegni a spiegare e a comprendere il presente. Proprio al contrario, significa rimetterla nella vita, restituire a essa il suo senso umano. la sua funzione umana.
Scrivo dunque […] per servire la causa della vita, per aiutare i miei contemporanei a veder chiaro nell’attuale confusione.
Ma si può giungere a veder chiaro nella confusione attuale? Questione di metodo, questione di punto di vista.
Quale punto di vista? Osservare anzitutto il contemporaneo, poi, dal contemporaneo, guardare non avanti ma indietro; considerare il presente come il compimento del passato, e del passato remoto; cercare nel passato le cause di cui oggi subiamo gli effetti. Questo è il solo punto di vista da cui si possa tentare la storia del contemporaneo. Questo non si può cogliere, si modifica a ogni istante sotto i nostri occhi. Come, dall’oggi, misurare l’importanza degli avvenimenti attuali? Come, fra tutti i fatti quotidiani, distinguere da adesso quelli che più tardi saranno storici da quelli che non li saranno? E, se ve ne sono di quelli di cui siamo certi che saranno storici, non è impossibile valutarne da adesso le dimensioni, calcolarne tutta la portata, prevederne tutte le conseguenze?
Ora, ciò che ci può dare la misura dei fatti contemporanei, indicarci la loro direzione e insegnarci il loro significato storico è il legame che li unisce a fatti anteriori, la linea su cui si situano, gli avvenimenti oppure le idee di cui sono le conseguenze. Il punto di vista ci mostra il metodo. E il metodo comincia con la storia per finire alla filosofia.
La storia non significa più, lo sapete, il semplice racconto degli avvenimenti che si concatenano secondo l’ordine cronologico, astenendosi dal giudicare. La storia è il senso degli avvenimenti stessi, il loro insieme, il loro svolgimento, il loro dinamismo. La storia è la vita umana, cioè una «forza che va». La storia non è più il sinonimo dei passato, il passato è soltanto una parte della storia. E lo stesso passato non è mai morto, mai trascorso. La storia lo prende, lo trascina, lo spinge verso di noi. La storia ci prende a nostra volta, ci trascina e ci spinge verso l’avvenire. Dunque siamo nella storia; essa ci fa, se noi la facciamo. Possiamo resistere a essa, dirigerla, deviarla, ma non sfuggiamo mai alla storia, non usciamo mai dal suo corso. Più facciamo sforzi per dimenticarla, per contrastarla, più essa ritorna su di noi con una violenza distruggitrice e vendicatrice.
I tempi che siamo costretti ad attraversare ci devono ispirare un senso vivo, drammatico, della storia. Se mai siamo in grado di comprendere che la storia non è il solo passato è proprio adesso che viviamo tempi storici, che siamo attori o almeno comparse nel dramma dell’Europa. Non possiamo più accontentarci di seguire i fatti che precipitano, da spettatori lontani, disinteressati, obbiettivi. Il «come» dei fatti non ci dovrebbe bastare. E ritorno alla nostra inquietudine: dove va l’Europa? dove andiamo con essa? Come in tutti i momenti di conflitto, di trasformazione, di rivoluzione, si pone il «perché». Ma il perché è il problema delle cause, il problema dei fini, il problema del destino umano, cioè il problema filosofico. Storia e filosofia si uniscono per tentare di darci una risposta. Infatti i nostri spiriti angosciati vogliono conoscere il senso della storia. Il pregio di questi tempi, ancora una volta storici, sta nel chiamare i nostri spiriti a soffrire quando pensano, oppure — piuttosto — a pensare perché soffrono.
La storia ci porta dunque il come dei fatti che raccoglie, che verifica, che gerarchizza, che concatena. La filosofia ci porta il perché. Risalendo questa successione di cause e di effetti cerca, nel quadro che la storia ha costruito e nei limiti che ha posto, le cause iniziali, e le giudica. Le giudica in nome di principi provati, di verità dimostrate dall’esperienza; le giudica secondo la natura permanente dell’uomo. Il suo giudizio non è astratto, perché si deduce dalle conseguenze, e dalle conseguenze attuali. Così la storia e la filosofia lavorano insieme a cogliere le costanti della storia, che sono le costanti stesse dell’uomo.
Infatti la storia, a un dato momento, non può continuare tutta sola. Bisogna che la filosofia le tenda la mano. E la filosofia è nello stesso tempo la scienza delle cause e la conoscenza dell’uomo. La storia ci fa sfilare davanti uomini diversi. La filosofia ci ricorda che, in questi uomini diversi, vi è la natura umana che invece rimane una, la natura umana con le sue costanti, i suoi elementi invariabili in mezzo agli elementi variabili secondo gli individui, gli ambienti, le epoche: non assolutamente, e insisto sul punto, l’uomo in sé, che è un’astrazione, ma la natura umana. La storia fa passare davanti ai nostri occhi i fatti ordinati, concatenati, secondo il loro ordine di successione, il loro ordine cronologico; essa mette in evidenza i più importanti, determina una prospettiva; va anche più lontano: ci mostra l’influenza delle idee sui fatti. Ma la filosofia valuta e pesa le idee, le confronta con la natura umana che è una norma; spiega, oppure finisce di spiegare, i fatti storici con le loro cause morali. Infatti le cause iniziali che la storia ha colto sono sempre cause morali. E da queste cause morali partono le grandi linee di forza di cui la storia — la storia considerata di nuovo come dinamismo — appare, vista dall’alto, tutta percorsa.
«Linee di forza»: spiegherò questa espressione, che racchiude tutta una filosofia della storia, con un’immagine, una similitudine.
Evocherò quei cavi carichi di energia elettrica, dispensatori di forza e di luce, ma anche di morte per chi li tocca imprudentemente; quei cavi che, di pilone in pilone, seguendo direzioni costanti, attraversano il succedersi dei paesaggi, l’estensione dei territori, la diversità delle nazioni, varcano le montagne o si spingono fino sulle onde del mare. Così, ogni grande epoca della storia è percorsa da un capo all’altro da linee di forza. Queste sono determinate da fatti e, più spesso, da idee che danno a tutta un’epoca la sua direzione iniziale. Svolgimento, concatenamento di cause e di effetti che si possono seguire attraverso tutta la diversità degli ambienti, tutta la diversità dei momenti, fino a quando abbiano prodotto le loro ultime conseguenze. Lo spazio che si stende fra l’impulso iniziale e queste ultime conseguenze: ecco quanto forma un’epoca. Indubbiamente ciò non è così semplice. Non è assolutamente facile cogliere queste linee di forza che talora sembrano spezzarsi oppure scomparire. Infatti esse non cessano di essere contrastate, deviate; le si vede arrestate e come spinte indietro da forze contrarie. Ma esse riprendono ugualmente il loro corso, ingrossate da nuovi apporti che vengono a inserirsi su di esse.
Per giungere a cogliere queste linee, a scoprire il loro punto di partenza e a seguire la loro direzione, bisogna avere davanti a sé un vasto spazio di tempo; bisogna imparare a pensare non per anni, non per secoli, ma per epoche.
Gonzague de Reynold