Più se ne parla, meno si capisce. Una breve riflessione storica per riflettere sul conflitto fra Russia e Ucraina
di Stefano Caprio
Da molti anni non si parlava così tanto della Russia e dei paesi ad essa adiacenti, quella che un tempo era l’Unione Sovietica delle 15 repubbliche che si estendevano dal mar Baltico all’Oceano Pacifico. Ai tempi della guerra fredda novecentesca esisteva una quasi-scienza della politica che studiava queste terre e questi popoli: era la “sovietologia”, che doveva preparare il mondo occidentale alle aggressioni e agli inganni che provenivano dal Comitato Centrale, quel misterioso vertice di potenti spesso quasi disumanizzati che si riunivano nei palazzi del Cremlino.
Oggi su tutti i giornali del mondo, le riviste, i siti e i blog si rincorrono le analisi e le previsioni, i calcoli e le interpretazioni, di fronte al terribile pericolo di una guerra di confine che potrebbe trasformarsi in una catastrofe universale e senza rimedio. Non eravamo più abituati a temere la fine del mondo, ammonimento dei predicatori medievali e minaccia delle dittature contemporanee. Neanche più si ricordavano gli schieramenti di truppe, carri e armamenti che furono l’argomento quotidiano delle due guerre mondiali, dalla battaglia delle Ardenne allo sbarco in Normandia, e che oggi si possono soltanto rievocare nei libri e nei film, accostandoli alle Termopili spartane o alle Crociate dei Templari e dei Saraceni.
Il confronto russo-ucraino rievoca anche lo schieramento di tatari e russi ai due lati del fiume Ugra, vicino all’attuale confine ucraino, che impegnò nel 1480 tutte le forze in campo ai confini orientali dell’Europa. I due eserciti s’inseguirono e si guardarono in cagnesco per un anno intero, da gennaio a novembre, quando le truppe del Khan si ritirarono dando origine al sogno della Santa Russia, la Terza Roma di Mosca, chiamata da Dio a salvare il mondo intero. Le previsioni sull’invasione dell’esercito putiniano in Ucraina si rincorrono ormai da dicembre: chi diceva alla vigilia del Natale cattolico e chi durante quello ortodosso, poi dopo le Olimpiadi per non irritare l’imperatore di Pechino, quindi il 16 febbraio perché finivano le manovre in Bielorussia, e in questi giorni per le scaramucce e le provocazioni nel Donbass. Si potrebbero citare centinaia di ulteriori strategie ipotizzate e motivazioni intrecciate, molte assolutamente documentate, altre decisamente fantasiose.
La guerra incipiente è in realtà ormai in corso da tempo, almeno dal 2014, quando l’Ucraina si ribellò alla dipendenza dalla Russia nelle rivolte del Maidan, e Mosca rispose annettendosi la Crimea. I due paesi sono da allora in continua tensione, di quella che è stata chiamata la “guerra ibrida”, fatta di scontri militari parziali e aggressione informatica totale, senza esporre gli arsenali principali. La regione industriale del Donbass è contesa da otto anni senza che ci sia mai stata una vera soluzione, da un lato proclamando l’indipendenza e l’amicizia con la terra-madre, dall’altro rivendicando la sovranità e la mescolanza delle etnie e delle culture. Il passaggio dalla guerra ibrida a quella tradizionale non cambia i termini della questione locale, ma li proietta in una dimensione internazionale: la sicurezza e l’identità dell’Europa, le alleanze e le proporzioni delle potenze mondiali, il legame degli europei con Washington e quelli dei russi con Pechino. Lugansk e Donetsk sono metafore di Parigi e Berlino, delle capitali contese ai tempi del nazismo e di tutte le infinite guerre dell’Europa.
Lo schieramento delle truppe russe non è soltanto l’esito finale del lungo confronto con l’Ucraina, ma è anche una conseguenza del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan. La scomparsa fisica del nemico storico è stata compensata dalla presenza fisica dell’antico padrone: decine, centinaia di migliaia di soldati, esercitazioni congiunte, carri armati e navi, aerei e cannoni di ultima generazione, per dire “noi ci siamo”, queste terre sono nostre. Chi voleva dominare il mondo si deve ritirare, mentre lo spazio dell’Oriente eurasiatico va presidiato, a prescindere dagli esiti: Crimea e Ucraina, Moldavia e Transnistria, Georgia e Mar Nero, Siria, Libia, Kazakistan… i russi sono tornati, la grande desolazione post-sovietica è finita, c’è un mondo reale che rifiuta quello virtuale e immorale dell’Occidente post-moderno.
Putin ha commentato il mancato attacco del 16 febbraio con sprezzante ironia, alla domanda su “quali sono i piani della Russia per i prossimi giorni?”, ha risposto che “agiremo secondo i nostri piani, che si svilupperanno a partire dalle situazioni reali sul territorio, e chi può dire come queste si evolveranno? Per ora nessuno”. Come dire, noi siamo qui e non ce ne andremo, altro che “de-escalation” o ritiri delle truppe, fateci vedere voi di che pasta siete fatti. C’è chi pensa che Putin stia solo bleffando e giocando a scacchi con l’Occidente, chi sostiene che si è spaventato per le minacce americane e la saldezza degli alleati della Nato, chi addirittura ritiene che l’attacco annunciato fosse solo un diversivo per distogliere l’attenzione dall’ennesimo processo all’oppositore Aleksej Naval’nyj.
Gli scopi sono confusi, eppure chiarissimi: la Russia vuole riaffermare il suo ruolo nel mondo, a partire dal territorio tradizionale del suo impero. L’Ucraina cerca di divincolarsi e si appella all’Occidente, come è nella sua natura da sempre, ma non può staccarsi del tutto dal fratello maggiore, con cui condivide l’intera storia millenaria. Kiev fu spazzata via dai mongoli e scomparve dalla storia per quattro secoli, proprio mentre Mosca ne approfittava per prendersi tutto, scendendo a compromessi con gli asiatici, e siamo tornati a quel punto.
È una guerra antica e nuova, militare e informatica, culturale e religiosa che ricomincia ogni secolo da capo, con nuove offese e vecchie pretese. È una guerra mondiale e un conflitto interno, addirittura una lite di famiglia, perché russi e ucraini sono parenti che si contendono l’eredità, come avviene a qualunque latitudine. Un periodo di grandi tensioni, tra gli altri, fu la prima metà dell’Ottocento, quando l’impero di San Pietroburgo era di fatto la prima potenza in Europa dopo la vittoria su Napoleone, una grandezza che si sbriciolò poi nella guerra di Crimea che fu il preludio di tutte le successive guerre mondiali. Lo zar Nicola I, detto il “gendarme d’Europa”, cercava di soffocare ogni rivolta interna ed esterna, dai romantici rivoluzionari decabristi agli eterni avversari turchi, e naturalmente se la prese con gli ucraini, che s’inserivano in ogni sommossa e rivendicazione.
Tra gli ucraini di quegli anni vi era un giovane scrittore proveniente dalla campagna, Nikolaj Gogol, che a San Pietroburgo fu preso sotto l’ala protettrice dei grandi poeti imperiali, da Puškin a Tjutčev e Žukovskij, ai quali si rivolgeva chiedendo lumi per giungere alla “riconciliazione di tutto ciò che sta sulla nostra terra”. Gogol era seriamente preoccupato della tensione fra i due popoli fratelli, e pensò di dedicarsi alla ricostruzione della storia comune: nel 1833 pubblicò su una rivista ufficiale un articolo dal titolo “Sguardo sulle condizioni della Malorossija”, la “Piccola Russia” come veniva chiamata la terra che lo stesso scrittore cominciò timidamente a chiamare “Ucraina”, un termine quasi dispregiativo rispetto a quello tradizionale. Addirittura progettava di stendere un’ampia “Storia della Malorossija”, che però non vide mai la luce e di cui non sono stati trovati né appunti, né manoscritti: probabilmente Gogol li bruciò come fece anche con la seconda parte delle “Anime morte”, il grande romanzo sulla Russia alla ricerca di sé, che lo condusse alla disperazione perché non riusciva a immaginare la strada del futuro.
Il grande scrittore deviò allora sulle storie minime, componendo la straordinaria novella di “Taras Bulba”, storia dell’anziano ed eroico capo dei cosacchi che deve assistere alla tragedia dei suoi figli, divisi tra amore e odio nelle terre polacche e russe. La prosa misticheggiante e grottesca di Gogol produsse quindi una metafora della “guerra di famiglia”, in cui sono coinvolti i preti latini e le liturgie ortodosse, i tradimenti e i passaggi segreti da un accampamento all’altro, gli assassini efferati e le stragi, la natura e la città, senza poter dare una risposta al dilemma: perché combatterci, se siamo fratelli?
Quando Taras Bulba accoglie i due figli tornati dagli studi al seminario polacco, li prende in giro per la tonaca con cui sono vestiti, e il maggiore lo minaccia: “quantunque tu sia mio padre, se mi offendono non bado a nulla e non rispetto nessuno”. I due si azzuffano sotto lo sguardo sconsolato della madre e dei parenti, “e il padre e il figlio, invece di farsi festa dopo una lunga assenza, cominciarono a darsi colpi nei fianchi, nelle reni, nel petto, ora retrocedendo e prendendo la mira, ora avanzando di nuovo”. A un certo punto Taras si blocca ed esclama con ammirazione: “Ma si batte magnificamente!”, disse Bulba, fermandosi. “Bene, per Dio!” proseguì, rassettandosi un poco: “Forse era meglio non provare. Sarà un buon cosacco! Salute, figliuolo! Abbracciamoci!” E padre e figlio si baciarono. “Bene, ragazzo! Dalle a tutti come le hai date a me: non risparmiar nessuno!”.
Gogol visse diversi anni a Roma, vicino a piazza di Spagna, cercando l’ispirazione per comporre la “Divina Commedia” russa e indicare la strada per la redenzione, che a un certo punto pensò di trovare nella religione, scrivendo anche le meravigliose “Meditazioni sulla Divina Liturgia”. Oggi russi e ucraini litigano anche su Gogol, che ciascuno vuole attribuire in esclusiva alla propria cultura. A Kiev, del resto, si litiga ancora per le sottane clericali e le giurisdizioni patriarcali, e se vi sarà l’attacco dei russi il popolo sarà avvertito dalle “campane a martello”, come nella novella di Taras Bulba.
I cattolici hanno pregato insieme con papa Francesco per la pace in Ucraina, e il capo dei greco-cattolici, l’arcivescovo maggiore Svjatoslav Ševčuk, assicura che “se il papa mettesse anche un solo piede in Ucraina, finirebbe ogni conflitto”. Gli ortodossi fedeli a Mosca si sono riuniti a pregare il 16 febbraio, il giorno dell’invasione diventato “giorno della riconciliazione”, e per bocca del metropolita Onufryj (Berezovskij) hanno ricordato che “noi siamo tutti ucraini, non ci sono i migliori o i peggiori, siamo diversi, ma siamo tutti uguali”.
I vescovi filo-russi di fronte alla minaccia dell’invasione si schierano a fianco del governo di Kiev, insieme agli autocefali e ai greco-cattolici, e non a caso in tutto questo tempo il Patriarca di Mosca Kirill (Gundjaev) ha mantenuto un eloquente silenzio sulla vicenda, evitando in ogni modo di benedire le truppe d’assalto di Putin. Si attende per quest’anno anche l’incontro di Kirill con papa Francesco, che potrebbe avvenire a giugno, non si sa ancora in quale luogo. Il sogno dei cristiani e di tutti gli uomini di buona volontà, a Oriente e a Occidente, è che si possano incontrare a Kiev, trascinando le Chiese e i popoli d’Europa in un grande abbraccio pacificatore.
Sabato, 19 febbraio 2022