Come accaduto nella pandemia, la guerra della Russia di Putin all’Ucraina diviene terreno di scontro violento tra contrapposte fazioni sui social media. Con una sola regola: non fare prigionieri.
di Aurelio Carloni
Ci risiamo. Quando la guerra violenta sui social tra opposte fazioni di “specialisti” immunologi, virologi, statistici ed epidemiologi stava placandosi, ecco la tragedia del conflitto russo-ucraino offrirsi come opportunità nuova e inesplorata per le stesse comunità per avviare un nuovo scontro. Oggi sul Messaggero interviene sul tema Ruben Razzante – docente di diritto dell’informazione all’Università Cattolica di Milano e alla Lumsa di Roma – che scrive “Una guerra nella guerra. È quella che si combatte nel web e sui social, con la propalazione di fake news, lo spargimento di odio, l’esasperazione dei toni nell’espressione dei commenti e nella manifestazione delle opinioni sul conflitto russo-ucraino. Anziché contribuire a pacificare gli animi e a valorizzare la moralità delle valutazioni e l’etica delle azioni, la Rete si sta caratterizzando sempre più come terreno di conflittualità permanente”. Una verità quotidianamente verificabile in particolare su Facebook, ma non solo.
È capitato a chi scrive di leggere commenti sul conflitto in corso in Europa relativamente al posizionamento dei poveri corpi sparsi per le strade delle città ucraine, con approfondimenti sul colore della pelle, lo stato di decomposizione, la ragionevolezza della loro posizione. E altri sulle conseguenze dei bombardamenti sugli edifici. Se a colpire fossero stati missili, carri armati o altro, con argomentazioni dettagliate. Peccato che a parlare e a spiegare non fossero, nel primo caso, medici impegnati per lunghi anni sui diversi fronti bellici e, nel secondo, militari specialisti nel campo delle armi. Ognuno di questi tempi, in ossequio alla venerazione del proprio io, si improvvisa esperto di una materia o dell’altra a seconda delle circostanze. I social media e la connessione senza limiti fanno credere a ciascuno di saperne di più rispetto a chi lo ha preceduto. In realtà si galleggia sul rumore.
Ci si ferma ai titoli e si finisce col sapere nulla di tutto. Questo rumore infernale costringe gli uomini e le donne di oggi a rifugiarsi in luoghi sicuri simili alle grotte usate nell’era paleolitica dall’umanità per difendersi dalle intemperie e dagli animali selvatici. Nascono così le cosiddette eco chamber, vere e proprie trappole del pensiero e della ricerca della verità, in cui si ascolta unicamente l’eco delle opinioni proprie e di chi la pensa come noi. Siamo di fronte a una società che fugge il silenzio per sfuggire alle domande di senso della vita a cui non è in grado di dare risposte. Una società che corre veloce, che non dorme mai, che non è mai in silenzio perché ne ha paura. Il cardinal Robert Sarah nella sua splendida conversazione con Nicolas Diat (La forza del silenzio – Contro la dittatura del rumore, Cantagalli 2017) dice: “Oggi troppo pochi sono i cristiani che accettano di rientrare in sé stessi per guardarsi dentro e lasciarsi guardare dentro da Dio. Ribadisco: sono troppo pochi coloro che accettano di confrontarsi con Dio nel silenzio, di lasciarsi infiammare in questo grande faccia a faccia. Uccidendo il silenzio, l’uomo uccide Dio. Ma allora, chi aiuterà l’uomo a tacere? Il suo cellulare suona in continuazione, le sue dita e il suo spirito sono sempre occupati a inviare messaggi… il gusto della preghiera è probabilmente la prima battaglia della nostra epoca” (p. 69).
Di fronte a questo quadro ci si può e ci si deve domandare se si possa fare qualcosa per frenare il processo di distruzione delle relazioni sociali in corso. Razzante offre qualche risposta dopo avere ricordato che: “I propri profili social non sono zone franche nelle quali potersi abbandonare a sproloqui e invettive, dando sfogo alle proprie pulsioni individuali. Nella pubblicazione di contenuti on-line, la compostezza e la coerenza dei comportamenti non devono mai essere immolate sull’altare di una straripante vis polemica e sarebbe un errore colpevole scambiare quest’ultima per libera manifestazione del pensiero. Non esiste corretto esercizio della libertà di espressione senza tutela dei diritti della personalità altrui. La divulgazione di notizie e commenti richiede un costante bilanciamento tra la libertà di informazione e la protezione di diritti ugualmente meritevoli di tutela”.
Di qui, secondo il docente, la necessità di introdurre soprattutto nel mondo della scuola “nuovi codici di autoregolamentazione rigorosi e condivisi”. Una proposta di buon senso che potrebbe di certo aiutare le nuove generazioni a comunicare nel rispetto del prossimo e di sé stessi. Ma quello che accade nel web e sui social è anche espressione di una crisi antropologica che parte da lontano. E che da ultimo affonda le proprie radici nel ’68 e nell’abbattimento della figura del padre come simbolo di ogni autorità.
È quindi necessario proporre un itinerario qualitativamente analogo, ma di senso contrario a quello che ha portato a vedere il prossimo come un nemico da annientare invece che come una persona cui rivolgersi in una relazione umana che risponda al naturale bisogno di socialità dell’uomo. Bisogna proporre alle persone un percorso perché mente e cuore si sintonizzino con la verità che è inscritta nei cuori di ciascuno e nella realtà oggettiva delle cose. Un processo lungo e complesso che va attivato e consolidato con urgenza da chi crede che sia ancora possibile costruire una società migliore di questa, dove gli uomini e le donne non siano sempre in guerra con la sola regola di non fare prigionieri. Insomma una società dove sia bello vivere.
Venerdì, 29 aprile 2022