Marco Invernizzi, Cristianità n. 413 (2022)
«È tutto un mondo, che occorre rifare dalle fondamenta, che bisogna trasformare da selvatico in umano, da umano in divino, vale a dire secondo il cuore di Dio» (1).
Queste parole vennero pronunciate soltanto sette anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945), quando, cominciata la ripresa economica, gli italiani erano usciti almeno psicologicamente dalla tragedia del conflitto, di quello civile in particolare.
Il venerabile Pio XII non era certo un Papa a cui si potesse imputare di non essere disposto a combattere tutte le battaglie del suo tempo — per difendere la Chiesa dal comunismo in primis, ma non solo —, anche quelle politiche: nello stesso 1952, infatti, cercò di favorire la nascita di una lista elettorale anticomunista a Roma — guidata dal sacerdote siciliano don Luigi Sturzo (1871-1959) — senza simboli di partito ma aperta a tutte le forze politiche. Si trattava della cosiddetta «operazione Sturzo», che peraltro fallì per volontà della Democrazia Cristiana (DC) e dei suoi alleati (2).
Queste parole non sono isolate e casuali, ma sollevano delle domande: forse non era così «sana» quella società degli anni Cinquanta, così «bigotta» come viene spregiativamente definita. Certo, vi era stata la vittoria epocale del 18 aprile 1948 (3) e la Chiesa, attraverso i suoi parroci in particolare, aveva «incontrato» la fiducia di tanti nel dopoguerra, dando loro conforto e aiuto anche materiale, favorendo la riappacificazione degli animi dopo la guerra civile e contribuendo alla ripresa del Paese.
Però, accanto al «miracolo economico» e al boom demografico vi era qualcosa che spingeva in un’altra direzione: non si trattava soltanto del comunismo e dei tanti voti che il PCI raccoglieva soprattutto in alcune regioni, ma di un male che penetrava nel tessuto sociale, a cui i vescovi, non molti anni dopo, nel 1960, dedicarono una lettera pastorale intitolata Il laicismo (4).Si trattava della penetrazione nel corpo sociale di una forma di materialismo pratico che assumerà il nome di «consumismo». Esso non è una vera e propria ideologia e può avere anche degli aspetti positivi, in quanto attraverso l’incremento dei consumi può favorire il miglioramento delle condizioni materiali della vita dei popoli, soprattutto delle categorie più disagiate, consentendo l’allargarsi della classe media. Tuttavia, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, mentre la società cresceva dal punto di vista delle condizioni materiali con il cosiddetto boom economico, venivano erose le radici cristiane nel comportamento pubblico e si realizzava quel processo di allontanamento della maggioranza della popolazione non solo dalla pratica religiosa, ma soprattutto dalle finalità della vita, che diventavano sempre più «terrene», cioè legate al «consumo» di una supposta felicità riposta nel perseguimento di un bene mondano: il successo, il denaro, il sesso, il potere economico o politico. Su questo cambiamento esistenziale si innesterà, con motivazioni anche ideologiche, la rivoluzione antropologica del 1968.
Il potere democristiano
Vi era poi un altro problema, enorme soprattutto da un punto di vista psicologico: il cosiddetto potere democristiano. Era un problema tutto italiano, che non aveva uguali in Europa, se non forse in Germania. La DC aveva un potere rilevante, che sarebbe durato fino agli anni Novanta, ma non aveva il potere, e neppure il «volere», probabilmente, di impedire che l’«ombra» di quel «male» penetrasse nelle viscere del Paese ed esplodesse, come avverrà dopo il 1968 (5).
Da qui la grande difficoltà, ancora presente durante il pontificato di san Giovanni Paolo II (1978-2005): il Magistero indicava la strada della missione non solo ad gentes ma ad intra, e addirittura aveva convocato il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) per lanciare la prospettiva missionaria, ma tanti, soprattutto in Italia, ancora oggi stentano a comprendere.
Chi si impadronì della prospettiva del cambiamento in realtà aveva in mente un mutamento in senso rivoluzionario, che voleva scalzare la DC ma anche la stessa Chiesa, trasformandola nell’«ancella» di una Rivoluzione che nella sostanza mirava a espellere il cristianesimo dalla vita pubblica sfruttando il rancore diffuso, soprattutto a livello giovanile, contro il potere democristiano.
Se ne accorse san Paolo VI (1963-1978) nel 1968 dopo la pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae, che non riuscì a farla accettare a molti vescovi e a pezzi interi del mondo cattolico, mentre la prospettiva di non limitarsi a dire no alla contraccezione, ma di ritornare al principio fondativo dell’amore umano che sta alla base dell’atto coniugale, stentò a prevalere e dovette aspettare la «teologia del corpo» di san Giovanni Paolo II per essere diffusa, peraltro limitatamente (6). Se ne accorse don Joseph Ratzinger, che nel 1972 diede vita con altri a una prospettiva teologica di cambiamento in senso missionario, uscendo dalla redazione della rivista Concilium per far nascere Communio (7).
Si ingaggiarono battaglie che andavano combattute perché vi è sempre un meno peggio da conservare, ma faticò a penetrare la mentalità racchiusa esemplarmente in una frase dell’allora cardinale Ratzinger: «Il Concilio voleva segnare il passaggio da un atteggiamento di conservazione a un atteggiamento missionario. Molti dimenticano che il concetto conciliare opposto a “conservatore” non è “progressista” ma “missionario”» (8).
Missionari perché?
Penso sia necessario definire preliminarmente il termine «missione».
La Chiesa è stata missionaria fin dagli esordi, memore dell’invito di Gesù a evangelizzare tutti i popoli e anche semplicemente osservando la sua testimonianza durante i tre anni della vita pubblica. Se nei primi tre secoli la missione passa soprattutto attraverso la testimonianza dei martiri, tuttavia il cristianesimo si diffonde da uomo a uomo, da famiglia a famiglia, fino a contagiare in modo significativo tutta la società. Gli Atti degli Apostoli sono il primo testo missionario, nonché il primo documento sulla storia della Chiesa. Dopo l’Editto di Milano dell’imperatore Costantino (274-337) nel 313, che permette alla Chiesa di operare pubblicamente e liberamente all’interno dei confini dell’impero romano, la missione assume modalità diverse. Vi sono in questo periodo figure importanti che accompagnano il passaggio da un’epoca a un’altra. Sono quei cristiani a cavallo dei due mondi che si stanno confrontando: i pagani strettamente legati alle loro tradizioni e appunto i cristiani, che escono dalla semiclandestinità e diventano apostoli, cioè testimoni dentro la loro epoca. Sono persone come Stilicone (359 circa-408) (9), Boezio (475/7-524/5) (10) e Cassiodoro (485/90-580) (11), che attraversano i due mondi, testimoniando la luce che proviene dalla fede in un mondo in preda alla confusione e alla violenza.
Intanto, la Chiesa lentamente si organizza con una struttura visibile e sarà soprattutto il monachesimo a favorire le conversioni e a svolgere la missione evangelizzatrice. San Benedetto da Norcia (480-547) e san Colombano di Bobbio (540-615) sono le figure più rappresentative di questo spirito missionario che lentamente permette al cristianesimo di penetrare nel corpo sociale, grazie anche alla contemporanea e decisiva «missione» delle famiglie, che favorisce l’inculturazione della fede.
Tutta la giovane Chiesa, ormai diffusa sull’intero territorio dell’impero, porta il Vangelo agli uomini del tempo, generazione dopo generazione, con un apostolato costante: santi e uomini comuni, preti, vescovi e laici, papi e imperatori, madri di molti bambini che ripopolano i territori dopo le invasioni barbariche, soprattutto i tanti monaci che ricoprono di monasteri l’Europa. Tutto ciò fa nascere un tessuto sociale e quindi una vera e propria cristianità, che assumerà una veste giuridica la notte di Natale dell’800 con l’incoronazione a imperatore del re dei franchi, Carlo Magno (742-814), da parte di Papa Leone III (750-816). Si tratta di una civiltà cristiana, non della Gerusalemme celeste: non mancano delitti e corruzione, tradimenti e confusione, ma il senso comune conosce la differenza fra bene e male, fra vero e falso, anche se spesso le conseguenze di questo cambiamento non sono così evidenti come sarebbe lecito aspettarsi.
Costituita una cristianità, per secoli l’imperativo diventa difenderla dai nemici esterni e interni, le eresie prima e le rivoluzioni poi, a cominciare dalla Riforma protestante. La missione è invece ad gentes, rivolta ai popoli lontani — che non conoscono il Vangelo, ma possono essere raggiunti, soprattutto dopo la scoperta dell’America e i viaggi di Cristoforo Colombo (1451-1506) —, con i quali si apre una stagione missionaria nuova e straordinaria, che forse ha il proprio modello nella figura immensa di san Francesco Saverio (1506-1552).
Nei secoli XVIII e XIX la Chiesa conosce ancora un nuovo impulso missionario, verso l’Africa e l’Asia, i continenti che ancora non conoscono il Vangelo (12). È una stagione complessa, perché la missione si svolge durante l’epoca coloniale, e se la fede nasce in molti uomini e si diffonde fra i popoli dei due continenti — molto in Africa, molto meno in Asia —, da diversi popoli viene percepita come espressione dei regimi colonialisti d’Europa, che nel frattempo stanno abbandonando la fede e cominciano a perseguitarla: un caso eclatante è la soppressione della Compagnia di Gesù nella seconda metà del secolo XVIII in tutta l’Europa, che spinge la stessa Santa Sede allo scioglimento della Compagnia, forse l’evento più drammatico del Settecento insieme al 1789 (13).
L’enciclica Maximum illud
Dopo i secoli XVIII e XIX, dopo la Prima Guerra Mondiale (1914-1918) e la conseguente fine degli imperi, russo, tedesco, austriaco e ottomano, contemporaneamente alla decolonizzazione comincia una nuova stagione missionaria per la Chiesa cattolica. Il segno di questa nuova fase è la lettera apostolica Maximum illud di Papa Benedetto XV (1914-1922) (14).
Essa viene pubblicata in un clima culturale e morale di grande sfacelo. La guerra ha provocato grandi rivolgimenti nel modo di vivere delle popolazioni contadine e infranto il «sogno» della Belle Époque, per il quale, secondo le classi alte delle grandi città europee, in primis Parigi, il Novecento sarebbe stato un secolo di pace e di progresso materiale continuo e inarrestabile. Fra le principali conseguenze della guerra vi sono l’abbattimento degli imperi e la nascita di nuovi Stati nazionali. Ma il nazionalismo dall’Europa si estende ai Paesi colonizzati, che iniziano a ribellarsi per ottenere l’indipendenza.
La Chiesa cattolica, come le altre chiese cristiane, aveva beneficiato della possibilità di operare nei Paesi coloniali, sia evangelizzando ed educando, sia contribuendo allo sviluppo sociale, ma aveva anche dovuto subire un’identificazione con essi che non corrispondeva alla realtà. Nei Paesi europei era in corso una rivoluzione anticristiana, soprattutto a livello culturale, e i governi «usavano» la religione nella misura in cui serviva loro per controllare le masse, ma ciò non impediva ai movimenti di liberazione dei popoli colonizzati di confondere e sovrapporre le due realtà.
Benedetto XV era perfettamente consapevole che stava cominciando una nuova epoca della storia, soprattutto per i Paesi che stavano per raggiungere l’indipendenza. Per questo la Maximum illud, dopo avere ricordato l’importanza della missione e la sua imprescindibilità per il cristianesimo, insiste sull’importanza che il missionario non venisse confuso con chi curava gli interessi della propria patria invece che quelli del Vangelo, e per questo chiede ai missionari: «[…] ricordatevi che voi non dovete propagare il regno degli uomini ma quello di Cristo, e non aggiungere cittadini alla patria terrena, ma a quella celeste». La preoccupazione del Papa è che i popoli che hanno da poco accolto la fede, o ancora non la professano, non confondano la Chiesa con l’Europa o l’Occidente e comprendano la possibilità che sorga una Chiesa certamente legata a Roma ma con un proprio clero indigeno. Infatti, per Benedetto XV il rischio è che la popolazione locale sia «[…] indotta a credere che la religione cristiana non sia altro che la religione di una data nazione, abbracciando la quale uno viene a mettersi alla dipendenza di uno stato estero, rinunciando in tal modo alla propria nazionalità». Il problema doveva essere grande se il Pontefice arrivò a scrivere «[…] veramente Ci recano gran dispiacere certe Riviste di Missioni, sorte in questi ultimi tempi, nelle quali più che lo zelo di estendere il regno di Dio, appare evidente il desiderio di allargare l’influenza del proprio paese: e stupisce che da esse non trapeli nessuna preoccupazione del grave pericolo di alienare in tal modo l’animo dei pagani dalla santa religione. Non così il Missionario cattolico, degno di questo nome».
Su questo punto agiranno molto le forze rivoluzionarie alla guida dei movimenti di liberazione nazionale, cercando di trasformare le richieste di indipendenza in rivoluzioni ideologiche che avrebbero dovuto portare i nuovi governi ad abbracciare le diverse ideologie che si combattevano fra loro in Europa. Benedetto XV colse il dramma che si stava preparando in Medio Oriente, in Africa, in Asia e la necessità che lo scopo della missione, cioè l’evangelizzazione e la salvezza delle anime, venisse preservato da ogni sovrapposizione con altro.
Per ottenere questo scopo era essenziale preparare un clero indigeno che potesse nel più breve tempo possibile guidare direttamente il popolo cristiano. Un clero ben preparato, non formato in modo approssimativo, perché «dove […] esisterà una quantità sufficiente di clero indigeno ben istruito e degno della sua santa vocazione, ivi la Chiesa potrà dirsi bene fondata, e l’opera del Missionario compiuta. E se mai si levasse il nembo della persecuzione per abbattere quella Chiesa, non vi sarebbe da temere che, con quella base e con quelle radici così salde, essa non soccomberebbe agli assalti nemici». Un clero, si raccomanda il Papa, che sia ben preparato nelle materie sacre ma anche in quelle profane, che sia capace di sostenere contrasti e conflitti con chi professa altre religioni o ideologie. Un clero che abbia in cima alle sue preoccupazioni la santità, che si riceve dalla preghiera assidua e costante.
La lettera apostolica, inviata ai vescovi di tutto il mondo, raccomanda infine ai responsabili delle diocesi di essere generosi qualora venissero richiesti loro seminaristi o preti per le missioni, perché Dio restituisce il centuplo di quanto con generosità viene donato.
Magistero, missionarietà e de-ellenizzazione
La Maximum illud rappresenta il primo documento missionario dopo la fine delle cristianità, che in qualche modo erano ancora rappresentate da alcuni degli imperi soppressi dopo la Prima Guerra Mondiale, e prende atto della fine dell’epoca coloniale e dell’inizio di una nuova stagione, nella quale la Chiesa dovrà operare in terra di missione in una condizione completamente diversa da quella precedente. Essa dovrà mostrare di essere altra cosa rispetto all’Occidente di allora, liberale e scristianizzato, senza rinnegare le radici cristiane che hanno creato la civiltà occidentale, di cui la Chiesa è stata l’anima. Un’opera molto difficile, resa ancora più ardua dall’esistenza di un conflitto interno alla Chiesa stessa, in particolare sulla missionarietà, fra chi sostiene che la Chiesa dovrebbe liberarsi delle radici che hanno «fatto» la civiltà occidentale, giungendo a negare la validità della stessa missione — Riforma protestante, teologia liberale, de-ellenizzazione (15) —, e chi invece crede che la Chiesa sia essenzialmente missionaria, come sostengono le Scritture e lo stesso Magistero.
Quest’ultimo ribadisce in più di un’occasione l’importanza e la necessità della missione. La prima enciclica successiva è la Rerum Ecclesiae di Pio XI (1922-1939) nel 1926, cui seguono la Evangelii praecones di Pio XII nel 1951, la Princeps pastorum di san Giovanni XXIII (1958-1963) nel 1959, il documento del Concilio Vaticano II Ad gentes nel 1965, l’esortazione apostolica post-sinodale Evangelii nuntiandi di san Paolo VI nel 1975, l’enciclica Redemptoris missio di san Giovanni Paolo II nel 1990 e infine l’esortazione apostolica Evangelii gaudium di Papa Francesco, nel 2013.
Vorrei soffermarmi su una considerazione che riguarda soprattutto Alleanza Cattolica. I suoi membri non partono per le Indie, come i gesuiti del Seicento, ma sono chiamati a servire la Chiesa promuovendo la nuova evangelizzazione per costruire una civiltà «a misura di uomo e secondo il piano di Dio» (16). Assumere questo atteggiamento missionario cambia chi lo fa proprio, prima di eventuali altri. Così scrive sempre il Papa polacco: «Nessun credente in Cristo, nessuna istituzione della chiesa può sottrarsi a questo dovere supremo: annunziare Cristo a tutti i popoli» (17).
Scopo della missione è annunciare Cristo perché «gli uomini […] non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l’azione dello Spirito. Questa sua mediazione unica e universale, lungi dall’essere di ostacolo al cammino verso Dio, è la via stabilita da Dio stesso, e di ciò Cristo ha piena coscienza» (n. 5). Ciò non significa disprezzare le altre religioni, che possono avvicinare alla pienezza della verità, cioè a Cristo: «Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari» (ibidem).
Pertanto la missione è un compito del battezzato, non una vocazione speciale di alcuni preti o religiosi: «Coloro che sono incorporati nella chiesa cattolica devono sentirsi dei privilegiati, e per ciò stesso maggiormente impegnati a testimoniare la fede e la vita cristiana come servizio ai fratelli e doverosa risposta a Dio, memori che “la loro eccellente condizione non è da ascrivere ai loro meriti, ma a una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, lungi dal salvarsi, saranno più severamente giudicati” (Lumen gentium, 14)» (n. 11).
Un cambiamento epocale
Lungo tutto il secolo XIX e fino alla Prima Guerra Mondiale la Chiesa ha resistito al processo di scristianizzazione promosso dai governi liberali che avevano conquistato il potere nei diversi Paesi europei dopo la Rivoluzione francese. In Italia ha resistito, opponendo il «paese reale» a quello «legale» e originando una serie di istituzioni sociali che avrebbero dato vita a un tessuto impregnato di opere cattoliche, come banche, casse rurali, società operaie e di mutuo soccorso e tante altre. Questo avvenne grazie all’opera dei cattolici militanti del cosiddetto intransigentismo che non accettavano i fatti del 1870, cioè la soppressione violenta del potere temporale del Papa con l’ingresso manu militari dell’esercito italiano a Roma tramite la celebre Breccia di Porta Pia (18). Venne poi l’epoca delle ideologie e della «nazionalizzazione delle masse», che portarono alla scristianizzazione sempre maggiore anche dei ceti popolari attraverso la diffusione di un costume certamente anticristiano. Ancora una volta la Chiesa si oppose alle ideologie e ai sistemi totalitari che ne derivarono, per esempio con le tre encicliche rispettivamente dedicate al fascismo (19), al nazionalsocialismo (20) e al comunismo (21), alle quali si potrebbe aggiungere quella a proposito della Chiesa perseguitata in Messico dai governi massonici (22). Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel clima della Guerra Fredda che contrapponeva il mondo comunista a quello occidentale su scala internazionale, la Chiesa privilegiò l’opposizione al comunismo cercando contemporaneamente di arginare l’aumento del processo di scristianizzazione all’interno del mondo occidentale.
Il Concilio Vaticano II
Si giunge così al Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), che segna per diversi aspetti un nuovo atteggiamento pastorale della Chiesa di fronte a un mondo in grande trasformazione. Don Ratzinger era uno dei più consapevoli di questa tendenza, tanto da scrivere nel 1959 che i cristiani praticanti erano per lo più come dei pagani e che era quindi fuorviante illudersi circa l’esistenza di un’Europa cristiana (23). Ma vi era tutto un mondo interno alla Chiesa che auspicava una nuova stagione missionaria, consapevole che la cristianità era finita e che bisognasse riprendere uno slancio missionario all’interno dei popoli di antica tradizione cristiana, ormai sempre più lontani dalla fede. Fra questi il futuro Paolo VI, che da arcivescovo di Milano, nella Domenica delle Palme del 1963, così si rivolgeva ai propri sacerdoti diocesani: «La nostra riforma non deve consistere tanto in un’indulgenza verso lo stile di vita del nostro secolo, come se dovessimo diventare un sale insipido privo di reazioni cocenti ma salutari, quanto in un’affermazione vigorosa della nostra forma di vita originale e autonoma, come scaturisce dal Vangelo e dall’interpretazione concreta che ci viene data dall’esperienza ascetica e dalla legge canonica della Chiesa» (24).
L’attenzione principale della Chiesa si spostava verso i continenti dov’era in corso la prima evangelizzazione, Africa e Asia, e dove, al contrario dell’Europa, il cristianesimo era in crescita. Inoltre, dopo pochi anni, la crisi del comunismo seguìto alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 avrebbe dato inizio a una nuova stagione, cosiddetta post-moderna, caratterizzata dal declino delle ideologie e dall’emergere, in Occidente, di una nuova epoca segnata dalla «dittatura del relativismo», per usare le parole con le quali il futuro Benedetto XVI ha voluto esprimere il tentativo in corso in Occidente di imporre un senso comune che escludesse la ricerca della verità come un compito fondamentale dell’uomo in quanto creatura voluta a immagine e somiglianza del Creatore: «Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero… La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde — gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» (25).
In questo contesto, la Chiesa assume decisamente un ruolo missionario (26), volto a proporre nei Paesi di antica tradizione cristiana una «nuova evangelizzazione», che culminerà nell’istituzione di un apposito dicastero, e di continuare a proporre per la prima volta il Vangelo nei cosiddetti Paesi di missione, dove la proposta missionaria è ancora agli inizi (India, Giappone) o deve essere consolidata (Africa). Tutto ciò ricordando come siano le stesse comunità cristiane a dover «auto-evangelizzarsi», cioè a prendere o riprendere quel fervore missionario, ad intra e ad extra, che sembra essersi perduto per strada nel clima di autodemolizione successivo a una lettura dialettica del Concilio contraria al Magistero, come denunciato esplicitamente da Benedetto XVI e anche dai suoi predecessori. Modello di questa scelta missionaria è stato san Giovanni Paolo II, anzitutto con il suo esempio di infaticabile visitatore di tutti i popoli della Terra, ma poi anche con l’enciclica Redemptoris missio per rilanciare il compito missionario ad gentes della Chiesa e con i tanti discorsi dedicati alla nuova evangelizzazione.
Scrive san Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio: «Il Concilio Vaticano II ha inteso rinnovare la vita e l’attività della Chiesa secondo le necessità del mondo contemporaneo: ne ha sottolineato la “missionarietà” fondandola dinamicamente sulla stessa missione trinitaria. L’impulso missionario, quindi, appartiene all’intima natura della vita cristiana e ispira anche l’ecumenismo: “Che tutti siano una cosa sola…, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21).
«[…] Tuttavia, in questa “nuova primavera” del cristianesimo non si può nascondere una tendenza negativa, che questo Documento vuol contribuire a superare: la missione specifica ad gentes sembra in fase di rallentamento, non certo in linea con le indicazioni del Concilio e del Magistero successivo.
«[…] Il presente documento ha una finalità interna: il rinnovamento della fede e della vita cristiana. La missione, infatti, rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola! La nuova evangelizzazione dei popoli cristiani troverà ispirazione e sostegno nell’impegno per la missione universale» (27).
Il pontificato di Francesco
In questo contesto si deve leggere il programma del pontificato di Papa Francesco, volto a trasformare tutta l’attività pastorale in una prospettiva missionaria, come esplicitamente indicato nel programma medesimo, esposto nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium: «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia. Come diceva Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Oceania, “ogni rinnovamento nella Chiesa deve avere la missione come suo scopo per non cadere preda di una specie d’introversione ecclesiale”» (28).
Il punto di partenza del discorso di Papa Francesco è un concetto espresso più volte: «quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca» (29). Dopo aver citato san John Henry Newman (1801-1890) a proposito del suo libro Lo sviluppo della dottrina cristiana (30), in cui spiega come la vita cristiana preveda un continuo cambiamento, il Pontefice ricorda che non si tratta «[…] di cercare il cambiamento per il cambiamento» (31) né di seguire le mode, ma di convertirsi, come diceva appunto il santo cardinale inglese, cioè di cambiare per essere fedeli a Dio e al suo progetto. Nel caso concreto — il Papa si sta rivolgendo alla Curia —, «affrontando oggi il tema del cambiamento che si fonda principalmente sulla fedeltà al depositum fidei e alla Tradizione, desidero ritornare sull’attuazione della riforma della Curia romana, ribadendo che tale riforma non ha mai avuto la presunzione di fare come se prima niente fosse esistito; al contrario, si è puntato a valorizzare quanto di buono è stato fatto nella complessa storia della Curia».
Qual è il «cuore» di questa riforma della Curia e in generale della Chiesa che oggi deve affrontare un cambiamento epocale? Il cuore della Chiesa è l’evangelizzazione perché «essa esiste per evangelizzare», come ricorda Papa Francesco citando l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di san Paolo VI (32).
In che cosa consiste questo cambiamento d’epoca? Vi è stata un’epoca in cui il mondo si divideva in «un mondo cristiano da una parte e un mondo ancora da evangelizzare dall’altra». Questa epoca è finita. Ora non è più così: «Le popolazioni che non hanno ancora ricevuto l’annuncio del Vangelo non vivono affatto soltanto nei Continenti non occidentali, ma dimorano dappertutto, specialmente nelle enormi concentrazioni urbane che richiedono esse stesse una specifica pastorale».
Non siamo più in una cristianità e questo è un fatto, non un giudizio negativo sulla cosiddetta «Chiesa costantiniana», purtroppo così diffuso in certi ambienti intellettuali che confondono il fatto con un giudizio storico negativo (33). Il Papa scrive una cosa differente, cioè che è esistito un «passato glorioso» — non esente dal male e da errori — ma oggi siamo di fronte a una situazione di crisi per la Chiesa: egli parla di «tensione tra un passato glorioso e un futuro creativo e in movimento», e fra le due epoche si trova il presente nel quale vivono i contemporanei che devono attuare la riforma della Chiesa in senso missionario e che «hanno bisogno di tempo per maturare».
«Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede — specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente — non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata» (34). Nel 2010 Benedetto XVI ha istituito il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione proprio perché non esiste più un tessuto culturale unitario (35).
Su questo punto bisogna essere molto chiari e attenti. Successe già con i documenti del Concilio Vaticano II, che dovevano segnare il passaggio dalla Chiesa anima di una società cristiana che non c’era più a una Chiesa missionaria, che annunciasse il Vangelo in un mondo post-cristiano. Sappiamo come è andata e lo sappiamo anche grazie ai ripetuti interventi dei pontefici — san Paolo VI, san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI — per riportare il Concilio ai documenti e sottrarlo all’interpretazione dei media, che spingevano per una lettura rivoluzionaria dei documenti, per una ermeneutica di «rottura» con il passato della Chiesa e non per un «rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa» (36). Difficilmente sarebbe «attrattivo» un cristiano che non fosse fiero della propria storia e della propria identità, disposto a riconoscere il male commesso nonostante ma non a causa della propria fede, non disposto a rinnegare chi prima di lui ha cercato di testimoniare il Vangelo in un mondo che poi lo ha accolto.
In secondo luogo, bisogna ricordare i contenuti della missione. L’annuncio della fede è anzitutto l’annuncio di una Persona, il Salvatore: ma se accolta, la fede va proposta anche alla ragione e deve pertanto diventare cultura, cioè investire tutta la persona e i suoi giudizi.
Il passaggio dalla fede alla cultura è essenziale per comprendere la natura della dottrina sociale della Chiesa e per difenderla sia da chi — prima del rilancio durante il pontificato di Giovanni Paolo II — la riteneva inutile e dannosa sia da chi oggi la riduce a qualcosa che non abbia dei princìpi dottrinali precisi, limitandola a un racconto vago o «politicamente corretto». Il Compendio della dottrina sociale della Chiesa spiega che «la fede e la ragione costituiscono le due vie conoscitive della dottrina sociale, essendo due le fonti alle quali essa attinge: la Rivelazione e la natura umana»; e ancora: «La centratura sul mistero di Cristo, pertanto, non indebolisce o esclude il ruolo della ragione e perciò non priva la dottrina sociale di plausibilità razionale e, quindi, della sua destinazione universale. Poiché il mistero di Cristo illumina il mistero dell’uomo, la ragione dà pienezza di senso alla comprensione della dignità umana e delle esigenze morali che la tutelano. La dottrina sociale è un conoscere illuminato dalla fede, che — proprio perché tale — esprime una maggiore capacità di conoscenza. Essa dà ragione a tutti delle verità che afferma e dei doveri che comporta: può trovare accoglienza e condivisione da parte di tutti» (37).
Insomma, il punto importante è che la conversione che potrebbe seguire all’annuncio della fede abbia un esito culturale e sociale, cioè sia la premessa per la nascita di un mondo nuovo, «toccato» dal Vangelo. Tuttavia, la premessa non va mai dimenticata. Per parlare di fede che diventa cultura, per parlare di cristianità come esito possibile della nuova evangelizzazione, vi deve essere prima la conversione: la conversione del cattolico di oggi in un missionario come condizione necessaria per la eventuale conversione di coloro a cui il missionario si rivolge.
È un passaggio psicologico sottile e importante.
Chi deve intraprendere la strada della nuova evangelizzazione deve adattare il suo stile al nuovo compito. Altro è difendere la cittadella assediata, altro è annunciare Cristo a chi non lo conosce o lo ha rifiutato. In entrambi i casi è l’amore di Dio e la Sua gloria che deve muovere, ma lo stile deve essere adeguato all’epoca diversa, come la Chiesa ha sempre fatto modificando il suo modo di comunicare nelle diverse situazioni storiche. Il «dottore del cambiamento e della conversione», san John Henry Newman, può aiutare a rimanere fedeli e a diventare veri missionari.
La conversione è una necessaria premessa alla presentazione della proposta della scuola contro-rivoluzionaria. Quest’ultima infatti presuppone la fede perché la Chiesa è l’anima della Contro-Rivoluzione, che non sarebbe pensabile senza la Chiesa come punto di riferimento. Dalla Chiesa la Contro-Rivoluzione attinge al Magistero e alla Grazia necessaria per l’apostolato attraverso i sacramenti che solo la Chiesa può comunicare. La Contro-Rivoluzione, infatti, non esiste per sé stessa, ma per servire alla ricostruzione di una civiltà cristiana. Può sembrare ironico o temerario oggi anche solo esporre questo desiderio, che sembra non tener conto dell’attuale situazione culturale e sociale di grande confusione e di lacerazione anche nello stesso mondo cattolico. Forse proprio questo, però, può aiutare l’apostolato contro-rivoluzionario perché di fronte a questa situazione così disperata e lacerata, acuita dalla diffusione pandemica, è possibile mostrare una strada di restaurazione dei princìpi elementari del bene comune come medicina necessaria. La proposta contro-rivoluzionaria parte proprio dalla crisi dell’uomo occidentale e cristiano.
Come si arriva alla conversione?
Bisogna innanzitutto che fra i cristiani maturi la convinzione che la conversione non dipende dalla capacità dei missionari. Ciò deve liberare dall’ansia del risultato e far riflettere però su che cosa si deve fare per rendere attrattivo il messaggio cristiano. Ritorniamo a quanto accennato prima: è molto difficile parlare di Contro-Rivoluzione a chi non crede in Dio e nella Rivelazione, e non si può ricostruire una società a misura d’uomo e secondo il piano di Dio senza il protagonista della ricostruzione.
Allora il primo compito è permettere o favorire che attraverso di noi si diffonda questa speranza, che non è nostra ma si può servire di ciascuno di noi.
Aiutano queste parole di san Giovanni Paolo II, pubblicate dopo il Giubileo dell’anno 2000: «Ai discepoli, quasi facendo una sorta di primo bilancio della sua missione, Gesù chiede che cosa la “gente” pensi di lui, ricevendone come risposta: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o uno dei profeti” (Mt16,14). Risposta sicuramente elevata, ma distante ancora — e quanto! — dalla verità. Il popolo arriva a intravedere la dimensione religiosa decisamente eccezionale di questo rabbì che parla in modo così affascinante, ma non riesce a collocarlo oltre quegli uomini di Dio che hanno scandito la storia di Israele. Gesù, in realtà, è ben altro! È appunto questo passo ulteriore di conoscenza, che riguarda il livello profondo della sua persona, quello che Egli si aspetta dai “suoi”: “Voi chi dite che io sia?” (Mt16,15). Solo la fede professata da Pietro, e con lui dalla Chiesa di tutti i tempi, va al cuore, raggiungendo la profondità del mistero: “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente” (Mt16,16)».
E ancora: «Com’era arrivato Pietro a questa fede? E che cosa viene chiesto a noi, se vogliamo metterci in maniera sempre più convinta sulle sue orme? Matteo ci dà una indicazione illuminante nelle parole con cui Gesù accoglie la confessione di Pietro: “Né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (16,17). L’espressione “carne e sangue” evoca l’uomo e il modo comune di conoscere. Questo modo comune, nel caso di Gesù, non basta. È necessaria una grazia di “rivelazione” che viene dal Padre (cfr ibid.). Luca ci offre un’indicazione che va nella stessa direzione, quando annota che questo dialogo con i discepoli si svolse “mentre Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare” (Lc 9,18). Ambedue le indicazioni convergono nel farci prendere coscienza del fatto che alla contemplazione piena del volto del Signore non arriviamo con le sole nostre forze, ma lasciandoci prendere per mano dalla grazia. Solol’esperienza del silenzio e della preghieraoffre l’orizzonte adeguato in cui può maturare e svilupparsi la conoscenza più vera, aderente e coerente, di quel mistero, che ha la sua espressione culminante nella solenne proclamazione dell’evangelista Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv1,14)» (38).
La Chiesa nel mondo da evangelizzare
Come sarà il futuro dei cattolici se e quando riprenderanno veramente la via dell’evangelizzazione raccomandata dagli ultimi Pontefici? Giova leggere le parole in proposito del Papa emerito Benedetto XVI. «Lei si vede come l’ultimo papa del vecchio mondo o come il primo del nuovo?», gli chiede Peter Seewald nell’ultimo libro-intervista. «Direi entrambi», risponde il Pontefice emerito, che aggiunge: «[…] è evidente che la Chiesa sta abbandonando sempre più le vecchie strutture tradizionali della vita europea e quindi muta aspetto e in lei vivono nuove forme. È chiaro soprattutto che la scristianizzazione dell’Europa progredisce, che l’elemento cristiano scompare sempre più dal tessuto della società. Di conseguenza la Chiesa deve trovare una nuova forma di presenza, deve cambiare il suo modo di presentarsi. Sono in corso capovolgimenti epocali» (39).
Le minoranze creative
Ma chi potrà assumersi il grande e difficile compito di provare a far nascere nuovamente un mondo scristianizzato da ormai molto tempo? Chi se non quelle piccole minoranze rimaste in seno alla Chiesa non più per privilegi, per abitudine, per interesse, ma soltanto per convinzione, in sostanza per amore di Cristo? «Direi che normalmente sono le minoranze creative che determinano il futuro, e in questo senso la Chiesa cattolica deve comprendersi come minoranza creativa che ha un’eredità di valori che non sono cose del passato, ma sono una realtà molto viva ed attuale. La Chiesa deve attualizzare, essere presente nel dibattito pubblico, nella nostra lotta per un concetto vero di libertà e di pace» (40).
Sta cambiando drasticamente il modo di essere cristiani. O, meglio, è cambiato da decenni, ma non ce ne siamo ancora accorti. Vi è sempre stata qualche giovane donna che invecchiando ha preso il posto in chiesa delle «vecchiette» che andavano in Paradiso. Certo, alla fine erano sempre di meno, ma ogni volta l’occhio si abituava. E si abituava, e dovrà abituarsi, alla riduzione dei sacerdoti, del numero di Messe, della presenza delle associazioni nella vita pubblica. È ancora il Papa emerito a descrivere bene la situazione. «Oggi non si può più essere cristiani come semplice conseguenza del fatto di vivere in una società che ha radici cristiane: anche chi nasce da una famiglia cristiana ed è educato religiosamente deve, ogni giorno, rinnovare la scelta di essere cristiano, cioè dare a Dio il primo posto, di fronte alle tentazioni che una cultura secolarizzata gli propone di continuo, di fronte al giudizio critico di molti contemporanei.
«Le prove a cui la società attuale sottopone il cristiano, infatti, sono tante, e toccano la vita personale e sociale. Non è facile essere fedeli al matrimonio cristiano, praticare la misericordia nella vita quotidiana, lasciare spazio alla preghiera e al silenzio interiore; non è facile opporsi pubblicamente a scelte che molti considerano ovvie, quali l’aborto in caso di gravidanza indesiderata, l’eutanasia in caso di malattie gravi, o la selezione degli embrioni per prevenire malattie ereditarie. La tentazione di metter da parte la propria fede è sempre presente e la conversione diventa una risposta a Dio che deve essere confermata più volte nella vita» (41).
La cristianità è finita
La cristianità è finita, questo è un fatto, ma è molto importante la lettura che si dà di questo fatto. Il cardinale maltese Mario Grech, segretario generale del Sinodo dei vescovi, ha detto una cosa che lascia perplessi: «È una grazia, che oggi non ci sia più la cristianità. Perché ci sentivamo arrivati: la Chiesa come “società perfetta”. E chi è perfetto non sente il bisogno di cercare, di migliorare, di convertirsi, di mettersi in cammino in ascolto dello Spirito, mentre questo è il Vangelo»; e, nella stessa intervista, ha spiegato che «il sistema sociale nato con Costantino ha fatto bene alla Chiesa ma le ha fatto anche male, molto. Da lì la Chiesa si è lasciata contaminare dalla mondanità, come dice Francesco, dal potere. Da lì ha adottato il sistema della Corte imperiale» (42).
Fa un po’ sorridere parlare di potere della Chiesa oggi in Europa, in particolare in Italia, per esempio leggendo la maggioranza dei giornali o ascoltando le televisioni, oppure frequentando un consiglio di docenti di una qualsiasi scuola o un incontro di professori universitari. Però è indubbio che dopo l’editto di Milano la Chiesa ha cominciato a frequentare il potere, e potente lo è diventata veramente, così come è indubbio che vi è stata una stagione clericale, particolarmente nell’Italia governata dalla DC, che si scristianizzava nel profondo ma ancora gestiva soldi e potere a vantaggio del partito d’ispirazione cristiana e dei suoi interessi. Ma torniamo alla cristianità. Essa certamente non può identificarsi con il cristianesimo ma quest’ultimo deve cercare di dar vita a una cristianità, pena una fede che, se non diventa cultura, non è stata veramente accolta: «Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» (43). Di per sé una cultura non significa una cristianità, ma è la sua premessa necessaria.
Bisogna anche constatare l’esistenza di una componente interna alla Chiesa ostile a qualsiasi idea di cristianità, che in questo senso ha operato anche per delegittimare la dottrina sociale della Chiesa: «Dopo il Concilio Vaticano II si è manifestata la tendenza a ritenere chiusa con questa assise ecumenica l’“era costantiniana”. È una valutazione, per ora, molto difficile. Si sta però manifestando una corrente che giudica pernicioso alla vita della Chiesa l’atto di Costantino, perché la Chiesa stessa si sarebbe umanizzata ed invischiata nel temporale tradendo così la sua missione salvifica ed il suo carattere escatologico. Un simile giudizio pecca di anacronismo e non valuta gli aspetti positivi che dall’ottenuta libertà ne sono derivati alla Chiesa, come la possibilità di una maggiore evangelizzazione e l’influsso sulle strutture della stessa società civile (legislazione più umana). Forse nell’insistere su alcuni reali aspetti negativi, si dimentica la parabola evangelica del buon grano e della zizzania che crescono assieme; la Chiesa perfetta è solo nella eternità» (44).
Senz’altro qualsiasi cristianità risente del peccato originale degli uomini che la guidano, che anche quando sono santi non sono esenti dal peccato; certamente ogni cristianità ha dato e darà motivi di scandalo per molti cristiani e non cristiani, ma non possiamo ignorare — o eliminare, come vorrebbe oggi la cancel culture — tutto quello che storicamente le cristianità hanno portato nella vita pubblica dei Paesi europei: gli ospedali, le università, la dignità della donna, il rispetto della sacralità della vita, l’uguale dignità di ogni persona, il rispetto degli anziani, la condanna della schiavitù e tutte le bellezze artistiche che milioni di turisti vengono a vedere in Italia nonostante siano state espresse in gran parte nell’odiato e oscuro Medioevo. San Paolo VI invitava a diffidare dell’atteggiamento di coloro che contrappongono alcuni periodi della storia della Chiesa: «Oggi non è raro il caso di persone, anche buone e religiose, giovani specialmente, che si credono in grado di denunciare tutto il passato storico della Chiesa, quello Post-tridentino in modo particolare, come inautentico, superato e ormai invalido per il nostro tempo; e così, con qualche termine ormai convenzionale, ma estremamente superficiale ed inesatto, dichiarano senz’altro chiusa un’epoca (costantiniana, preconciliare, giuridica, autoritaria…), e iniziata un’altra (libera, adulta, profetica…) da inaugurarsi subito, secondo criteri e schemi inventati da questi nuovi e spesso improvvisati maestri. Per essere oggi veramente fedeli alla Chiesa dovremo guardarci dai pericoli che derivano dal proposito, tentazione forse, di innovare la Chiesa, con intenzioni radicali o con metodi drastici, sovvertendola» (45). È un discorso molto importante: in esso il Pontefice paventa profeticamente una riedizione del «libero esame» introdotto da Martin Lutero (1483-1546), in una versione moderna e interna alla stessa Chiesa cattolica, in opposizione al Magistero: «Avremmo un nuovo “libero esame”, che moltiplicherebbe le più varie e le più discutibili opinioni in materia di dottrina e di disciplina ecclesiastica, toglierebbe alla nostra fede la sua certezza e la sua funzione unitiva, e farebbe della libertà personale, di cui la coscienza è, e dev’essere, guida immediata (cfr. Dignit. humanae, nn. 2 e 3) un uso contrario alla sua prima responsabilità, quella di cercare la verità, la quale, nel campo della verità rivelata, ha per sua guida suprema il magistero della Chiesa (cfr. Dei Verbum, n. 8)» (46).
La risposta alla domanda sottesa alle parole del card. Grech è decisiva per la nostra identità e soprattutto per la prospettiva della nuova evangelizzazione. Non è una grazia che non vi sia più una cristianità, a mio avviso, ma certamente è un’opportunità, che però è altra cosa. Un’opportunità per assumere lo stile del missionario e abbandonare lo stile retorico di chi si lamenta dei tempi in cui vive, quasi che il Signore sia uscito di scena e non offra più la sua Provvidenza a chi la vuole accogliere. Opportunità significa smettere di lamentarsi guardando al passato e rimboccarsi le maniche per migliorare il presente, significa piegarsi sulle ferite del nostro tempo e aiutare le persone a ritrovare una ragione per vivere, rendendo gloria a Dio, come fece il samaritano sulla via di Gerico. Opportunità significa «uscire» dalle sacrestie per andare alla ricerca dei «lontani», dei nostri contemporanei che non conoscono la fede cristiana, perché non hanno mai incontrato qualcuno che la proponesse. Significa anche assumere l’atteggiamento di chi ricerca delle convergenze da cui partire per avviare il dialogo piuttosto che dei motivi per contrapporsi, adeguando il proprio «parlare» all’interlocutore che ha davanti, secondo la logica missionaria che animava san Paolo: «Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge. Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge. Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tuttoio faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro» (1Cor. 9,19-23).
L’apostolato della Chiesa primitiva e la resistenza dei dissidenti sovietici
Ci sono due modelli ai quali si può guardare per avviare la nuova evangelizzazione degli antichi Paesi cristiani d’Europa. I primi cristiani vivevano in un tempo ostile da tutti i punti di vista, politico, morale, religioso. Essi non avevano la forza di opporsi in modo organizzato, ma riuscirono a contagiare il prossimo attraverso un «apostolato d’ambiente», fatto di testimonianza della vita e di un’apologetica che con il passar del tempo divenne sempre più elaborata. Per tre secoli vennero perseguitati, seppur episodicamente, e in quel tempo costruirono ambienti e oasi nelle quali trovarsi (le catacombe) per celebrare la Messa, pregare, esporre la dottrina cristiana. Ma non rimasero nelle catacombe se non per sopravvivere e ritemprarsi spiritualmente o materialmente, mentre la loro vita si svolgeva soprattutto nel mondo, accanto ai pagani, ai quali trasmettevano la Parola di Dio sperando nella loro conversione. L’ambiente che costruivano non era fine a sé stesso, ma un punto di partenza, necessario ma non esclusivo.
Il modello dei primi cristiani è molto importante anche in riferimento a una certa interpretazione data a un libro di Rod Dreher sulla strategia dei cristiani nel mondo contemporaneo. Infatti, di questo libro è «passata» una lettura per cui l’«opzione Benedetto» oggi dovrebbe consistere nel «rinchiudersi» in oasi di sopravvivenza dei pochi cristiani rimasti fedeli e consapevoli, ipotesi per altro rifiutata dall’autore stesso in una conferenza stampa di presentazione della sua opera avvenuta nel 2018 nella sede della Regione Lombardia. Al contrario, la minoranza cristiana dovrebbe, a mio avviso, certamente creare propri ambienti dove potersi formare e preparare senza confusioni, sincretismi e condizionamenti dettati dalla paura del «pensiero unico», ma facendo in modo che siano ambienti autenticamente proiettati alla proposizione della fede a tutti gli altri uomini, particolarmente ai più sfortunati, ai cosiddetti ultimi (47), sulla scia dell’atteggiamento di tanti ordini e congregazioni religiosi che hanno scelto di educare uomini e donne, ricchi e poveri.
Come loro, servata distantia, si comportarono i dissidenti nei Paesi comunisti, in un contesto altrettanto ostile per i cristiani. Anche loro non avevano la forza di contrapporsi platealmente e dovettero costruire degli ambienti in cui sopravvivere, pregare, informarsi e resistere in attesa della libertà. Erano uomini che avevano «il potere dei senza potere», cioè avevano una speranza grandissima che li sosteneva e guidava.
Per entrambi venne la libertà, dall’Editto di Milano del 313 alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 e alla fine dell’URSS nel 1991. Avrebbero dovuto rifiutare questa libertà o approfittarne per costruire un mondo migliore, anche negli aspetti politici e istituzionali?
Certo, le differenze rispetto a quei tempi sono molte. Dopo il Novecento, il secolo con il maggior numero di martiri della storia cristiana (48), e mentre i martiri sono ancora numerosi in Asia e in Africa, i cristiani oggi in Occidente non rischiano di essere denunciati, di finire in prigione o peggio nei campi di concentramento o di essere inchiodati a una croce, come avvenne per il Signore Gesù e per il suo apostolo Pietro, o di essere comunque martirizzati, come san Paolo. Tuttavia, l’epoca successiva al 1989 conosce un attacco culturale preciso contro le radici umane e cristiane della nostra civiltà. Si tratta della quarta fase di un processo di disgregazione della cristianità occidentale nata dalla prima evangelizzazione e cominciata con la Riforma e il Rinascimento. Oggi, scomparsa una civiltà cristiana, rimangono singoli uomini sempre più soli, individui senza corpi sociali che li aiutino a vivere meglio. Se molte famiglie e parrocchie sono state oasi preziose nell’ultima fase del processo di distruzione della cristianità, continuando a formare giovani alla vita e alla fede, oggi questi corpi intermedi fra il singolo e lo Stato diminuiscono e sono sempre meno in grado di svolgere un compito educativo. Laddove esistono vanno aiutate e frequentate, perché una famiglia accogliente, aperta ad altre persone, può svolgere un grande apostolato ed essere il luogo privilegiato per la formazione di giovani. Lo stesso vale per le parrocchie, e laddove esiste la possibilità di aiutarle a svolgere meglio il loro compito vanno senz’altro aiutate. Fare catechesi a giovani o adulti, aiutare dal punto di vista economico, svolgere un servizio culturale o caritativo, sono tutte cose da fare perché buone in sé, ma anche perché permettono di poter presentare un giudizio sull’attuale situazione della società alla luce del pensiero contro-rivoluzionario.
Tuttavia, non si può solo aspettare di incontrare una parrocchia disponibile a un certo lavoro culturale o di costituire una famiglia che sia modello per questo apostolato. E non è più sufficiente formare buoni militanti cattolici, e dotarli di una formazione dottrinale seria e profonda per quanto possibile. È necessario anche — e sottolineo anche — offrire luoghi e ambienti dove sia possibile vivere e poi trasmettere una vita cristiana autentica e intensa, che risponda alle domande e alle esigenze dei giovani.
I cristiani dei secoli della prima evangelizzazione lo hanno fatto, custodendo e trasmettendo la fede cattolica nei secoli dal IV al IX, dopo che i loro predecessori, nei primi tre secoli, avevano resistito alle persecuzioni e avevano messo insieme una minoranza creativa — come la definiva Benedetto XVI — capace di arrivare all’Editto di Milano nel 313. Egualmente, in circostanze completamente diverse, i cristiani che facevano parte dei gruppi del dissenso nel Paesi comunisti del secolo XX hanno resistito e hanno trasmesso la fede nonostante gli inevitabili sacrifici, anche della vita, dando origine a «polis parallele» laddove era possibile, e comunque organizzandosi per sopravvivere e incrementare la propria presenza (49).
Onoriamoli, preghiamo per loro — non erano santi da immaginetta già preconfezionati — e chiediamo il loro aiuto per quello che dobbiamo fare noi ora.
Note:
1) Pio XII (1939-1958), Radiomessaggio ai fedeli di Roma, del 10-2-1952.
2) Cfr. Marco Invernizzi, Luigi Gedda e il movimento cattolico in Italia, prefazione di Giovanni Cantoni (1938-2020), Sugarco, Milano 2012.
3) Cfr. 18 aprile 1948. L’«anomalia» italiana, a cura di M. Invernizzi, Ares, Milano 2007.
4) Cfr. Francesco Pappalardo, «Il laicismo. Lettera dell’Episcopato italiano al clero» del 25 marzo 1960, in Cristianità, anno XXXV, n. 340, marzo-aprile 2007, pp. 13-18.
5) Sul Sessantotto, cfr. Enzo Peserico (1959-2008), Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto, terrorismo e Rivoluzione, Sugarco, Milano 2008.
6) Cfr. san Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull’amore umano, Città Nuova-Libreria Editrice Vaticana, Roma-Città del Vaticano 1990, che comprende le udienze generali dal 1979 al 1984; e Yves Semen, Compendio della teologia del corpo, Ares, Milano 2017, che le riassume.
7) Cfr. Elio Guerriero, Servitore di Dio e dell’umanità. La biografia di Benedetto XVI, prefazione di Papa Francesco, Mondadori, Milano 2016, pp. 151-155.
8) Rapporto sulla fede, Vittorio Messori a colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1985, p. 8.
9) Su Flavio Stilicone, cfr. Ian Hughes, Stilicone il vandalo che salvò Roma, trad. it., LEG, Gorizia 2018.
10) Di lui cfr. Anicio Manlio Severino Boezio, Consolazione della filosofia, introduzione, traduzione, note e apparati di Luca Orbetello, testo latino a fronte, Rusconi, Milano 1996; e su di lui, Lorenzo Simonetti, Boezio, «soccorso nella battaglia», in Cristianità, anno XLVIII, n. 402, marzo-aprile 2020, pp. 51-55.
11) Sulla vita e le opere di Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, del quale è stata avviata la causa di beatificazione nel 2020, cfr. il sito dell’Istituto degli studi su Cassiodoro e sul medioevo in Calabria <www.cassiodoro.it>.
12) Cfr. Enrico Chiesura, «… fino agli estremi confini della terra». Il carisma missionario nel XIX secolo, Mimep-Docete, Pessano con Bornago (Milano) 2002.
13) Cfr. William V. Bangert (1911-1985), Storia della Compagnia di Gesù, trad. it., a cura di Mario Colpo S.I., Marietti 1820, Genova-Milano 2009, pp. 387-458.
14) Benedetto XV, Lettera enciclica «Maximum illud» sull’attività svolta dai missionari nel mondo, del 30-11-1919. Tutte le citazioni senz’altra indicazione sono tratte da questo testo.
15) Cfr. Benedetto XVI (2005-2013), Discorso «Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni» in occasione dell’incontro con i Rappresentanti della Scienza nell’Aula Magna dell’università di Regensburg, del 12-9-2006.
16) San Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Convegno promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana sul tema «Dalla “Rerum novarum” ad oggi: la presenza dei cristiani alla luce dell’insegnamento sociale della Chiesa», del 31-10-1981; cfr. Alleanza Cattolica, Direttorio. Profilo dottrinale e operativo proposto alla meditazione e alla pratica «ad experimentum» in occasione del Primo Capitolo Generale tenuto nel mese di maggio del 1977. Seconda versione proposta «ad experimentum» in occasione del Capitolo Generale tenuto nel mese di febbraio del 2011 (ristampa febbraio 2017).
17) Idem, Lettera enciclica «Redemptoris missio» circa la permanente validità del mandato missionario, del 7-12-1990, n. 3. Tutte le citazioni senz’altra indicazione sono tratte da questo testo.
18) Cfr. il mio I cattolici contro l’unità d’Italia? L’Opera dei Congressi (1874-1904), Piemme, Casale Monferrato 2002.
19) Cfr. Pio XI, Lettera enciclica «Non abbiamo bisogno» sull’Azione Cattolica Italiana, del 29-6-1931.
20) Cfr. Idem, Lettera enciclica «Mit Brennender Sorge» sulla situazione della Chiesa cattolica nel «Reich» germanico, del 14-3-1937.
21) Cfr. Idem, Lettera enciclica «Divini Redemptoris» sul comunismo ateo, del 19-3-1937.
22) Cfr. Idem, Lettera enciclica «Firmissimam constantiam» sulla situazione religiosa in Messico, del 28-3-1937.
23) Cfr. Joseph Ratzinger, I nuovi pagani e la Chiesa, trad. it., in Cristianità, anno XLV, n. 384, marzo-aprile 2017, pp. 29-40.
24) Cit. in Yves Chiron, Paolo VI. Un Papa nella bufera, trad. it., Lindau, Torino 2014, p. 232.
25) Card. J. Ratzinger, Omelia della Messa pro eligendo romano Pontifice, del 18-4-2005.
26) Il card. Ratzinger, nella stessa omelia, ricorda l’eccellenza dell’apostolato: «Dobbiamo essere animati da una santa inquietudine: l’inquietudine di portare a tutti il dono della fede, dell’amicizia con Cristo. In verità, l’amore, l’amicizia di Dio ci è stata data perché arrivi anche agli altri. Abbiamo ricevuto la fede per donarla ad altri — siamo sacerdoti per servire altri. E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scompaiono. L’unica cosa, che rimane in eterno, è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane — l’amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla gioia del Signore. Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane. Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime in giardino di Dio» (ibidem).
27) Cfr. san Giovanni Paolo II, Lettera enciclica «Redemptoris missio» circa la permanente validità del mandato missionario, cit., nn. 1-2.
28) Francesco, Esortazione apostolica «Evangelii Gaudium» sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, del 24-11-2013, n. 27.
29) Idem, Discorso alla Curia Romana per gli auguri natalizi, del 21-12-2019.
30) Cfr. John Henry Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, trad. it., Jaca Book, Milano 2003.
31) Francesco, Discorso alla Curia romana per lo scambio degli auguri natalizi, cit. Tutte le citazioni senz’altra indicazione sono tratte da questo testo.
32) Cfr. san Paolo VI, Esortazione apostolica «Evangelii nuntiandi» circa l’evangelizzazione nel mondo contemporaneo, dell’8-12-1975.
33) Sul dibattito a proposito della «Chiesa costantiniana», cfr. il mio Per un rinnovato spirito missionario, in Cristianità, anno XLVIII, marzo-aprile 2020, pp. 3-12.
34) Francesco, Discorso alla Curia Romana per gli auguri di Natale, cit.
35) Cfr. Benedetto XVI, Lettera apostolica «Ubicumque et semper», del 21-9-2010.
36) Idem, Discorso alla Curia romana per lo scambio degli auguri natalizi, del 22-12-2005, nel quale il Pontefice disse anche: «Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o — come diremmo oggi — dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso».
37) Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, 2005, n. 75.
38) San Giovanni Paolo II, Lettera apostolica «Novo millennio ineunte» al termine del Grande Giubileo dell’Anno Duemila, del 6-1-2001, nn. 19-20.
39) Benedetto XVI, Ultime conversazioni, a cura di Peter Seewald, trad. it., Garzanti, Milano 2016, p. 218.
40) Idem, Intervista concessa dal Santo Padre ai giornalisti durante il volo verso la Repubblica Ceca, del 26-9-2009.
41) Idem, Udienza generale del 26-2-2013.
42) Card. Mario Grech, «La Chiesa non sia mai più una corte imperiale. Spazio al genio femminile», intervista a cura di Gian Guido Vecchi, in Corriere della Sera, 9-10-2021.
43) San Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al congresso nazionale del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale, del 16-1-1982.
44) Jean Rémi Palanque (1898-1988), Gustave Bardy (1881-1955) e Gian Domenico Gordini (1920-1998), Dalla pace costantiniana alla morte di Teodosio (313-395), in Augustin Fliche (1884-1951) e Victor Martin (1886-1945) (iniziatori), Storia della Chiesa, trad. it., a cura di Aldo Stella (1923-2007), vol. III, tomo 1, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1995, p. 80, nota 92.
45) San Paolo VI, Udienza generale del 24-9-1969.
46) Ibidem.
47) Cfr. Rod Dreher, L’opzione Benedetto. Una strategia per i cristiani in un mondo post-cristiano, trad. it., San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2018.
48) Cfr. Robert Royal, I martiri del ventesimo secolo. Il volto dimenticato della storia del mondo, Ancora, Milano 2002; e Andrea Riccardi, Il secolo del martirio. I cristiani nel Novecento, Mondadori, Milano 2009.
49) Polis parallela è il termine usato dalla resistenza di Charta 77 in Cecoslovacchia nel periodo precedente la caduta del regime comunista. Qualcosa di analogo si può trovare anche all’interno dell’Unione Sovietica e nella Polonia di Solidarność, ossia il tentativo di costituire ambienti in cui poter vivere senza rinunciare ai propri princìpi, ostili all’ideologia del regime, ma senza uscire dalla legalità. Questo atteggiamento non impedì la persecuzione e la prigione, in alcuni casi anche la morte di membri della Resistenza, ma fu certamente un esempio di resistenza pacifica che permise la caduta dei regimi comunisti senza spargimento di sangue. Cfr., per l’idea della Polis parallela, The Long Night of the Watchman. Essays by Václav Benda, 1977-1989, a cura di F. Flagg Taylor IV, St. Augustine’s Press, South Bend, Indiana 2017. Vaclàv Benda (1946-1999) rappresentò l’anima cattolica di Charta 77, di cui fu anche portavoce. Per l’Urss è molto utile la lettura di Marta Dell’Asta, Una vita per incominciare. Il dissenso in Urss dal 1917 al 1990, La Casa di Matriona, Milano 2003.