Gérard-François Dumont, Cristianità n. 250-251 (1996)
Il termine “mitologia” rimanda di solito al complesso dei miti o racconti greco-latini, che mettono in scena dei, eroi, uomini e animali, alberi e fiori, rivestendo di caratteri meravigliosi lontane reminiscenze storiche. In verità, ci si è chiesto se i greci credevano veramente a queste storie (1). La risposta è: in una certa misura, sì. Noi stessi non continuiamo forse a parlare delle fatiche di Ercole e del filo di Arianna? Non tiriamo forse a sorte il “re dell’Epifania” (2)? Così, numerosi popoli hanno costruito miti, il cui studio è indispensabile per capire le società antiche. Fin dall’inizio dell’umanità, gli uomini, appoggiandosi su apparenze, o in mancanza di conoscenze dimostrabili, immaginano causalità che si rivelano, più o meno rapidamente, essere di fatto solo miti, cioè pure costruzioni dello spirito. Più recentemente, alla fine del secolo scorso, in Francia, Louis Pasteur ha trovato sulla sua via i sostenitori della generazione spontanea, che credevano fermamente alla comparsa, in certe condizioni, di organismi viventi, che causano le malattie. E, sotto i nostri occhi, vediamo attualmente la meravigliosa teoria del Big-Bang passare dallo stato di nozione esplicativa dell’origine dell’Universo a quello di mito.
Dunque, con il passare del tempo, numerose scoperte e riflessioni più approfondite hanno migliorato e affinato le conoscenze. Così si è finito per credere che la ragione e la scienza dovevano scacciare il mito perché dovrebbe essere considerato come vero solo quanto risulta da una spiegazione razionale basata su un procedimento scientifico che, per giungere all’evidenza, fa precedere l’osservazione alla deduzione. Il mito doveva allora essere abbandonato, perché nemico d’una conoscenza vera. Per altro, esiste tutta una corporazione di uomini, gli scienziati, il cui compito sta nel costruire una conoscenza fondata su ricerche indiscutibili.
Ma la realtà del nostro tempo è diversa da questo schema, il quale lascerebbe pensare che la civiltà umana sarebbe passata dall’ombra dell’ignoranza che costruisce, in sostituzione, miti, alla luce della conoscenza che scarterebbe tutto quanto ha carattere d’irreale.
Ma il reale è sempre più complesso di quanto l’uomo immagini e da ciò derivano tre constatazioni. La prima sta nel ricordare i limiti della scienza: anche se lo scientismo ha creduto di poter racchiudere tutta la realtà umana nelle logiche dimostrabili, la scienza — o meglio le scienze — non può spiegare tutto, sperimentare tutto. D’altronde, fare della scienza un dio è una forma di mitologia e può portare a società disumane, come ha mostrato la realizzazione del socialismo scientifico in diversi paesi oppure il famoso libro di Aldous Huxley, Il mondo nuovo (3).
In secondo luogo, la neutralità della scienza resta indubbiamente un obiettivo da perseguire (4), ma gli scienziati sono sempre soltanto uomini, con le loro specificità e imperfezioni. Essi hanno anche la loro soggettività e possono commettere errori. Inoltre, gli strumenti di cui dispongono corrispondono a un certo stadio del progresso tecnico, che limita la loro capacità d’analisi e d’azione.
In terzo luogo bisogna pure constatare che ogni società, compresa quella contemporanea, secerne, fabbrica o manipola miti. Per esempio, era un mito molto radicato la credenza secondo cui i discepoli di Karl Marx conoscevano il senso della storia, il che comportava che i paesi che vi si sottomettevano dovevano ineluttabilmente superare economicamente i paesi non comunisti. Altro esempio, la credenza che le procedure di elezioni all’europea — lo scrive un democratico —, che si reggono sul principio del potere affidato alla maggioranza, sia un modello universale che darebbe soluzione ai torbidi civici in tutte le società. Ora, in diversi paesi, la pace civile è possibile solo se la minoranza o le minoranze godono di una garanzia d’esistenza più rilevante del loro peso quantitativo. Diversamente, si giunge a catastrofi, come quelle del Ruanda, largamente create dal mito europeo prima evocato.
Così, in ogni branca della conoscenza, compaiono miti, cioè, per riprendere la definizione del Petit Robert, “immagini semplificate, spesso illusorie, che gruppi umani elaborano o accettano come un fatto e che svolgono un ruolo determinante nel loro comportamento o nella loro valutazione” (5).
In demografia, come in altre discipline, regna un’importante mitologia, che raggruppa idee comunemente accettate (6), mentre il loro esame mostra la loro carenza di fondamento scientifico.
Questa mitologia demografica non è nuova, anche se il suo sviluppo contemporaneo può stupire, perché si produce proprio quando la demografia ha fatto progressi incontestabili nella conoscenza, soprattutto elaborando strumenti di migliore qualità (7). La mitologia demografica era più scusabile in passato, in epoche in cui la quasi inesistenza della raccolta dei dati demografici non permetteva di conoscere la realtà. Fu così, per esempio, che Charles de Montesquieu costruì come osservazione demografica sull’universo un racconto basato sull’immaginazione, una favola, perché non disponeva di dati quantitativi reali.
Nell’epoca contemporanea, la mitologia demografica utilizza tutti gli strumenti della mitologia: la leggenda, la finzione, il miraggio e l’illusione. Ognuno di questi termini sarà illustrato con un esempio, il che non esclude l’esistenza di molti altri esempi.
Ma cominciamo con una favola mitologica proposta da Montesquieu come la descrizione della realtà.
Una favola antireligiosa
Nelle Lettere Persiane il nostro grande autore si mostra convinto che la terra stia conoscendo uno spopolamento considerevole. E così scrive : “Da un calcolo, esatto per quanto è possibile in questa materia, ho dedotto che sulla terra c’è appena la decima parte degli uomini che c’erano nei tempi antichi. È sorprendente come essa si spopoli di giorno in giorno; se continua così, fra dieci secoli sarà un deserto” (8).
Così il secolo XVIII avrebbe vissuto la continuazione della decadenza che si consumava dopo l’Impero romano. Come spiegare il progredire continuo di un tale spopolamento?
Ora Montesquieu constata che due grandi religioni si sono diffuse dopo l’Impero romano: il cristianesimo e l’islam. “Tu cerchi la ragione per cui la terra è meno popolata che in altri tempi: e, se ci rifletti, vedrai che il grande cambiamento dipende da quello verificatosi nei costumi” (9). Infatti Montesquieu denuncia tre aspetti dei costumi che potremmo designare con l’aggettivo spopolazionisti, di cui getta la responsabilità sulle religioni cristiana e musulmana: il celibato, l’impossibilità del divorzio e la poligamia.
Secondo lui “il numero di persone che fanno professione di celibato è straordinario” (10) e la continenza perpetua scelta da troppi uomini è “una virtù dalla quale non nasce niente” (11).
La proibizione del divorzio da parte della religione cristiana sarebbe un secondo fattore di denatalità. Infatti egli scrive, sempre nelle Lettere Persiane: “Non bisogna dunque stupirsi se fra i cristiani si vedono tanti matrimoni fornire un numero così esiguo di cittadini. Il divorzio è abolito; i matrimoni mal assortiti sono irreparabili” (12).
Montesquieu rimpiange l’impossibilità di risposarsi dopo un divorzio: “[…] le donne non passano più come tra i Romani, successivamente nelle mani di diversi mariti, che ne traevano nel passaggio il miglior beneficio possibile” (13).
Terza causa di spopolamento, i costumi islamici, che autorizzano la poligamia e la pratica dell’harem, che tiene nell’infecondità molti uomini e sottoutilizza le possibilità di procreazione delle donne: “[…] le donne costrette a una continenza forzata, hanno bisogno di chi le sorvegli, e non possono che essere eunuchi: la religione, la gelosia e la ragione stessa non permettono che altri le avvicinino. Questi guardiani devono essere numerosi, sia per mantenere la tranquillità interna, nelle lotte che le donne si fanno di continuo, sia per impedire tentativi dall’esterno” (14).
La rivalità femminile e la sorveglianza dell’harem necessitano dunque di troppa mano d’opera maschile infeconda: “Così uno che ha dieci mogli, o concubine, ha almeno altrettanti eunuchi per sorvegliarle. Ma che perdita per la società, tanti uomini morti fin dalla nascita! che spopolamento ne deve derivare!” (15).
Tutto questo insieme di frasi forma un’autentica favola. Infatti, da una parte non vi è spopolamento nel secolo XVIII e nemmeno se si confronta questo secolo con i primi secoli dell’era cristiana. D’altra parte, le nuove religioni non hanno spinto alla denatalità, ma hanno al contrario onorato la fecondità.
Come spiegare allora la nascita d’una simile favola? A questo scopo bisogna studiare le immagini che Montesquieu ha sotto gli occhi. Così come una fotografia può non essere rappresentativa della realtà, o essere truccata da chi detiene il potere (16), Montesquieu sembra vedere solo una cosa: l’imponenza delle rovine lasciate dall’Impero romano, che facevano supporre la necessità di una popolazione rilevante per costruire e per far vivere tali costruzioni. Egli ne deduce quindi, come numerosi suoi contemporanei, uno spopolamento, che i successivi lavori di demografia storica hanno poi mostrato non essersi verificato. Inoltre — com’è noto — Montesquieu era animato da robusti sentimenti fortemente anticlericali. Quindi non meraviglia che abbia attribuito alle religioni le cause dei disastri demografici ai quali credeva.
La leggenda dell’esponenziale
Nel secolo XVIII, quando la statistica demografica balbetta ancora, la favola di Montesquieu è indubbiamente più scusabile della mitologia demografica contemporanea. Questa si basa anzitutto su una leggenda, cioè su una rappresentazione dei fatti accreditata nell’opinione pubblica, ma deformata e amplificata dall’immaginazione e dalla parzialità.
Quale lettore o quale telespettatore non ha visto la curva secondo la quale gli effettivi della popolazione mondiale sarebbero aumentati in modo continuo dalla preistoria fino alla metà del secolo XVIII, per conoscere allora un nuovo aumento continuo, ma con un ritmo molto più rapido, che dà l’impressione di una curva esponenziale, di una evoluzione folle? Ebbene, questa curva che si pretende riassuma gli studi demografici, contiene numerosi errori che trasformano la realtà in una leggenda dell’esponenziale.
Anzitutto, fino al 1750, la crescita della popolazione mondiale non è stata continua, tutt’altro. È un dato acquisito che la popolazione, nel suo insieme, ha conosciuto fasi di stabilità, di debole crescita, di crescita più rilevante, di debole decrescita o di decrescita più accentuata. L’evoluzione caotica attorno a un effettivo relativamente stabile è generalmente la regola per tutte le popolazioni di esseri viventi, a seconda della variazione delle condizioni climatiche, della concorrenza fra le specie, rappresentata per gli uomini dalle guerre e dalle rivoluzioni, delle epidemie aggravate dalle condizioni di vita in collettività degli esseri umani.
Una crescita debole si constata alla fine del primo millennio dell’era cristiana e nei primi secoli del secondo millennio, o ancora al momento del Rinascimento. Le crescite più rilevanti si manifestano nei periodi in cui l’umanità, o una parte di essa, realizza un salto tecnico che modifica sensibilmente le condizioni di vita. Fino a oggi, almeno tre tempi storici corrispondono a una fase di questo genere. La prima si situa fra il XL e il IX millennio avanti Cristo, quando l’uomo fa progressi nei metodi di caccia e di cottura degli alimenti. La seconda, legata contemporaneamente alla diffusione di tecniche agricole e allo sviluppo delle città, si situa nella prima metà del primo millennio avanti Cristo. Infine, un terzo periodo di crescita rilevante, nei secoli XIX e XX, è la conseguenza d’importanti progressi economici e sanitari (17).
La popolazione mondiale ha conosciuto anche periodi di leggera decrescita, più difficili da datare con precisione, che hanno potuto corrispondere a catastrofi climatiche, a conflitti sanguinosi oppure ad atteggiamenti negativi di fronte alla fecondità. Inoltre, una netta decrescita della popolazione mondiale è incontestabile almeno in due periodi storici. Da una parte, si sa che la decadenza dell’Impero romano ha avuto effetti demografici: la popolazione mondiale, valutata in 250 milioni nell’anno uno, è scesa a 200 milioni nel corso del primo millennio. Analogamente, la grande peste nera del secolo XIV ha provocato una ipermortalità, il cui effetto si è fatto sentire sulla popolazione mondiale. Questi fatti mettono in evidenza come la credenza in una crescita continua della popolazione del pianeta sia una leggenda.
Questa leggenda rimane per il periodo contemporaneo, che spesso è rappresentato come caratterizzato da un tasso di crescita della popolazione elevato e continuo. La realtà delle cifre dà risultati molto diversi. Il tasso di crescita della popolazione mondiale dopo il 1750 è stato molto variabile, a seconda dell’evoluzione delle diverse popolazioni che la compongono. In particolare, questo tasso di crescita ha toccato un massimo, stimato in 2,1% all’anno, alla fine degli anni 1960, e poi non ha cessato di diminuire.
Ora, la stessa leggenda dà l’impressione che l’eccedenza annua di abitanti sul pianeta resterà durevolmente al livello storico massimo, cioè 92 o 93 milioni di persone all’inizio degli anni 1990. In realtà, questa cifra ha iniziato a scendere verso il 1993-1994, contraddicendo così le previsioni che la vedevano crescere a 100 milioni e a non diminuire prima del 2000 (18).
Questo ripiegamento dell’eccedenza annuale degli abitanti della terra era peraltro certo per tutti i demografi avveduti. Il calo della fecondità media, iniziato negli anni 1970, doveva inevitabilmente riflettersi sulla natalità, ma con lo scarto di una generazione, tenendo conto dell’inerzia propria dei meccanismi demografici. Questa evoluzione condanna dunque la leggenda dell’esponenziale e conferma la quasi-certezza che la crescita della popolazione mondiale nel secolo XXI sarà nettamente più debole di quanto non sia stata nel secolo XX, indubbiamente da tre a cinque volte minore.
La mitologia demografica ricorre anche al miraggio, cioè alle apparenze ingannevoli.
Il miraggio dell’aumento letale
L’aumento della popolazione solleva tutte le paure. Fra esse, una delle più radicate consiste nel pensare che la popolazione mondiale sta nello stesso tempo per raddoppiare e per morire di fame. Ora, queste due evoluzioni si escludono reciprocamente.
Se la popolazione mondiale raddoppia, questo può avvenire solo con deboli tassi di mortalità, almeno tanto deboli da permettere un tasso di crescita che porti al raddoppio. Ora, i tassi di mortalità possono essere molto bassi solo se lo permettono le condizioni sanitarie, sociali ed economiche. La popolazione può crescere soltanto se l’alimentazione e le condizioni di vita lo rendono possibile.
Se i metodi di coltivazione e le strutture economiche e sociali non permettono di garantire l’alimentazione di una popolazione più numerosa, i tassi di mortalità saranno elevati mentre i tassi di natalità tenderanno a stagnare, e la popolazione non può crescere. La crescita non si potrà realizzare perché la fertilità sarà indebolita dalla malnutrizione e i neonati saranno destinati a vita breve in ragione del tasso di mortalità infantile elevato che ne deriverebbe. È la trappola malthusiana.
Quindi, accettare l’affermazione seguente: “La popolazione mondiale aumenterà nel secolo XXI fino a 12 miliardi” (19), significa ammettere il seguente sillogismo: “La popolazione mondiale raddoppierà. Ora, un raddoppio della popolazione suppone condizioni economiche e sanitarie soddisfacenti, quindi nel secolo XXI le condizioni economiche e sanitarie saranno soddisfacenti”.
Certo, la scelta delle informazioni diffuse dai media insiste più sulle popolazioni che soffrono carestia — se non altro per presentare un uomo politico in vista, che, con gesto teatrale, si carica sulle spalle un sacco di riso — che su quelle popolazioni le cui condizioni di vita stanno migliorando. “I popoli felici non hanno storia”, dice la saggezza delle nazioni. Si tende a pensare che la loro consistenza numerica abbia la responsabilità delle terribili difficoltà umane constatate in certi paesi. Ora, in realtà, né le carestie né le epidemie corrispondono a una fatalità che viene ad abbattersi su certi paesi in via di sviluppo. La carestia, piuttosto che la conseguenza di una siccità ricorrente, è soprattutto un “sintomo acuto di crisi politiche ed economiche” (20). Talora anche il risultato di “politiche deliberate” (21) da parte di gruppi in lotta o di governi.
Così, non è l’aumento dell’effettivo di una popolazione che si può mettere in relazione con i luoghi di carestia, ma piuttosto i torbidi politici. Gli esempi della Cambogia, della Somalia, del Sudan, del Mozambico e della Liberia illustrano disgraziatamente questa realtà. In altri paesi, la cattiva gestione di certi governi spiega le difficoltà dello sviluppo malgrado le potenzialità talora considerevoli: il Madagascar, la Birmania, l’Etiopia o lo Zaire sono solamente esempi fra altri.
L’aumento contemporaneo della popolazione e della mortalità è dunque un mito, perché due processi contrari non possono svolgersi insieme. O la popolazione aumenta perché l’umanità riesce a nutrirsi, oppure l’umanità non riesce a nutrirsi e la popolazione non può aumentare. Così, la popolazione dell’Inghilterra è quadruplicata nel corso del secolo XIX e l’alimentazione ha seguito ampiamente lo stesso ritmo. Durante lo stesso secolo XIX, la popolazione dell’India era stagnante perché non si era verificata nessuna trasformazione. La popolazione dell’India ha cominciato ad aumentare solo quando si sono prodotte trasformazioni tecniche — scavo di canali d’irrigazione, e così via —, economiche e sanitarie.
Conviene quindi fare attenzione ai miraggi demografici diffusi come fiction.
Una “fiction” accattivante e tenace
Si crea una fiction quando si dà a un fatto constatato una spiegazione diversa dalla realtà e se ne traggono conseguenze.
Una delle grandi fiction demografiche attuali concerne le cause dell’aumento della popolazione mondiale constatato da circa due secoli. Quante volte lo si è attribuito ai popoli “che hanno troppi figli”, “la cui fecondità è troppo elevata”, i cui “tassi di natalità sono insopportabili”? In questo caso, la natalità è considerata come responsabile della crescita demografica degli ultimi due secoli. Questa affermazione, che è una fiction, porta a una conseguenza prevedibile. Poiché la natalità è considerata il fattore determinante della crescita demografica mondiale, come il fattore responsabile della povertà, sarà necessario e sufficiente ridurre la natalità. Questa fiction accattivante influenza per esempio certe conclusioni della Conferenza Internazionale su Popolazione e Sviluppo, svoltasi a Il Cairo nel settembre del 1994. Infatti esse prevedono, come uniche misure concrete per giungere a “una crescita economica sostenibile nel quadro di uno sviluppo durevole” (§ 3.15), la pianificazione familiare, oltre il soddisfacimento dei bisogni relativi alla salute genetica. Ora, se bastasse “frenare la crescita della popolazione” per giungere alla ricchezza, lo si saprebbe e, a contrario, gli Stati Uniti d’America figurerebbero fra i paesi più sottosviluppati, avendo presente la loro eccezionale crescita demografica da due secoli a questa parte. In realtà lo sviluppo ha altre esigenze. Ma è vero che formare i giovani richiede sforzi organizzativi più grandi che mettere “spirali”.
Comunque, il rimedio quasi unico proposto non può essere efficace perché poggia su una fiction. Infatti, l’attuale crescita della popolazione mondiale non è dovuta a una natalità sbrigliata, che sarebbe aumentata da due secoli a questa parte, ma a una mortalità che è crollata, aumentando considerevolmente lo scarto fra mortalità e natalità. Più precisamente, la crescita demografica è il risultato del crollo di tre mortalità, la mortalità neonatale, la mortalità materna e la mortalità dei bambini e degli adolescenti. Questa evoluzione ha portato a un aumento considerevole dei tassi di sopravvivenza. La conseguenza è stata una longevità quasi triplicata e, quindi, il numero degli esseri umani è aumentato. Inoltre, la storia dei diversi popoli del pianeta mostra che non vi può essere un comportamento teso all’abbassamento della natalità se la diminuzione della mortalità non è un fatto durevolmente acquisito. Il fattore scatenante la diminuzione della natalità sta dunque nella diminuzione della mortalità, come sanno tutti gli specialisti della transizione demografica (22). È inutile voler controllare d’autorità la natalità quando non sono presenti le condizioni per un cambiamento di natura del livello di mortalità. Questo spiega, in passato, i numerosi fallimenti dei programmi di pianificazione familiare un poco ovunque nel mondo. Invece, quando le trasformazioni sociali ed economiche di un paese portano a un abbassamento endogeno della mortalità, l’abbassamento della natalità finisce per prodursi naturalmente, non appena le popolazioni hanno capito che questa situazione è duratura e ne hanno visto le conseguenze sulla discendenza desiderata (23).
L’illusione
Oltre la fiaba, la leggenda e la fiction, la mitologia demografica ricorre anche all’illusione, cioè a un’interpretazione errata della realtà dei fatti. I media diffondono periodicamente immagini e cifre lorde, che danno l’impressione di un “sovrappopolamento” presentato come un male assoluto. Vi sono esponenti religiosi che si preoccupano. Nel mondo protestante, un certo numero di responsabili giunge fino a giustificare l’aborto perché vi sarebbero troppi abitanti sul pianeta. Nel mondo cattolico, sacerdoti rifiutano l’enciclica Humanae vitae, del 1968, e le posizioni di Papa Giovanni Paolo II sulla vita in nome dei pericoli di una cosiddetta “sovrappopolazione”, che giustificherebbe tutti i metodi di contraccezione. Così, finalmente, la lotta contro la “sovrappopolazione” giustificherebbe tutti i mezzi, compresi quelli coercitivi, che attentano alla dignità della donna e alla sua integrità fisica.
Questa paura della “sovrappopolazione” costituisce indubbiamente oggi, dopo che il marxismo è passato di moda, l’ideologia più penetrante nel mondo. Io la chiamo l’Ossessione del Sovraffollamento del Pianeta, che corrisponde alla sigla O.S.P. Questa formula mi sembra definire nel migliore dei modi la sostanza di questa ideologia, e non perché il rappresentante di un paese protestante, la Norvegia, se ne è fatto il cantore a Il Cairo. Infatti, si tratta di una vera ossessione, antica, che riappare periodicamente nella vita delle idee (24) e che si è dispiegata di nuovo con forza negli anni 1990.
La si trova già nell’antichità greca in Platone o nel secolo XVIII con i premalthusiani. Essa verrà magnificata a partire dal 1798 con le diverse versioni di An Essay on the Principle of Population, di Thomas Robert Malthus (25), che appaiono appunto all’epoca in cui i progressi tecnici e scientifici cominciano a rivoluzionare il ciclo della vita degli uomini e a contraddire la credenza malthusiana in limiti nella produzione. Il secolo XIX separerà i malthusiani dai non malthusiani nel seno stesso delle grandi correnti di pensiero: socialismo, liberalismo e anche cattolicesimo. Ciascuno si trova diviso in sé stesso quando si tratta di sapere se bisogna felicitarsi per l’aumento del numero degli esseri umani oppure temerlo.
Molto meno comprensibile è il ritorno dell’O.S.P. all’inizio degli anni 1970, con il Club di Roma. Infatti, all’inizio del secondo terzo del secolo XX, la demografia è una scienza che ha fatto molti progressi e molti processi demografici — come i fenomeni d’inerzia o lo schema della transizione demografica — sono ormai ben noti. Ma vi è, di fronte alla realtà, un vero “rifiuto di vedere” (26).
Un’altra caratteristica dell’O.S.P. sta nel mostrarsi incapace di guardare una carta di popolamento del pianeta: essa vi vedrebbe allora che il 95% delle terre emerse ha una densità di popolazione debole. La metà della popolazione mondiale abita nei tre complessi internazionali a densità più elevata che sono il Sudest asiatico, una parte del subcontinente indiano e una parte dell’Europa Occidentale e Settentrionale. L’altra metà della popolazione mondiale, che occupa 142.500.000 km quadrati, è dispersa su vasti territori, fuori dai dieci spazi urbanizzati relativamente densi.
Detto in altre parole, sul 5% delle terre, cioè 7.500.000 km quadrati, vi è una densità di 400 abitanti per km quadrato, cifra inferiore a quella dei Paesi Bassi (453), dell’Isola Maurizio (595) o della regione Île-de-France (890). Sul rimanente 95% la densità media è di 21 abitanti per km quadrato, inferiore a quella di parecchi dipartimenti poco popolati di Francia (Creuse, 23; Ariège, Cantal e Gers, 27; Alta Corsica, 28; Lot e Corsica Meridionale, 29; Aveyron, 30; Meuse, 31; e così via).
Se la totalità della popolazione mondiale fosse riunita sul territorio degli Stati Uniti d’America, e il resto del mondo fosse vuoto, la densità di quei territori sarebbe inferiore a quella della regione Île-de-France.
In realtà, chiunque abbia voluto accedere correttamente all’autentica conoscenza demografica, sa che la diminuzione della fecondità nel mondo si opera secondo lo schema della transizione demografica e che nulla permette di giustificare l’O.S.P. Inoltre, questa ideologia deve essere scartata perché trascura l’importanza delle potenzialità degli uomini e della terra e soprattutto perché crea riflessi di paura del futuro, che non favoriscono le scelte più giudiziose per l’avvenire. Si sa che questa ideologia ha parzialmente influenzato i lavori della Conferenza Internazionale su Popolazione e Sviluppo, il che porta a una riflessione che conviene intitolare “misteri sul Nilo”, per riprendere la formulazione di un titolo di Agatha Christie, Morte sul Nilo.
“Misteri sul Nilo”
Questi misteri derivano dall’ingenuità di certe analisi e dall’utilizzo di nuove formulazioni: i loro autori sperano che il loro uso basterà ad assicurare il progresso.
Il primo mistero è quello del misconoscimento dei meccanismi demografici da parte di una grande percentuale di delegati. L’astuzia consiste forse nell’annunciare una grande politica di “pianificazione della famiglia” per poi vantarsi della diminuzione della crescita demografica nel mondo, diminuzione che è certa e già avviata, senza che dipenda molto da quanti pensano di controllare le popolazioni. Come ogni essere umano ha diritto a un ambiente che gli permetta di accedere alla dignità della maternità o della paternità responsabili, così deve essere bandita ogni politica autoritaria, quindi coercitiva.
Un altro mistero risiede nell’interesse sempre più ostentato di occuparsi delle “generazioni future”. Interessarsi delle “generazioni future”, secondo la terminologia utilizzata alla Conferenza de Il Cairo, è più che lodevole, ma per assicurare una vita migliore alle generazioni future bisognerebbe forse far di tutto per migliorare quella delle generazioni presenti.
Così, la Conferenza de Il Cairo non ha detto praticamente una parola sui problemi posti dallo sviluppo nel mondo contemporaneo, soggetto che tuttavia costituiva la metà del programma promesso nel titolo della Conferenza. Non è stato fatto alcun inventario delle politiche di sviluppo applicate nei diversi Stati per distinguere quelle che si sono rivelate efficaci dalle altre. Quanto alla preoccupazione per le “generazioni future”, è stata solamente molto parziale. Per esempio, non è stato detto nulla sugli effetti economici e sociali, ma anche culturali e morali, che l’insufficienza delle generazioni future rischia di portare con sé in certi paesi d’Europa, che conoscono già — in alcuni casi da oltre un ventennio — una fecondità particolarmente bassa.
Il terzo mistero è anche nelle parole. Dopo la Conferenza tenuta a Rio de Janeiro nel 1993, gli esperti sono giunti alla conclusione che bisognava chiamare “sviluppo sostenibile” il tipo di sviluppo auspicabile, cioè sviluppo la cui durata è assicurata sempre a favore d’una migliore qualità della vita. Nessuno si può opporre alle buone intenzioni contenute in questo nuovo concetto. Ma è legittimo chiedersi se il suo uso ripetuto non sia un modo per mascherare gli errori di valutazione di ieri. Infatti si sa che i paesi a cui, negli anni 1950, la maggior parte degli esperti profetizzava un “non sviluppo” come il Giappone, Taiwan o la Corea, hanno conosciuto lo sviluppo mentre quelli a cui si pronosticava la ricchezza, come l’Africa equatoriale, che possiede risorse considerevoli, non sono riusciti a decollare.
Inoltre il concetto, attualmente molto gradevole, di “sviluppo sostenibile” è, di fatto, molto indeterminato. Sembrava d’altronde difficile proporne le misure operative. Per certo si è tentato di elaborare un indice dello sviluppo umano, ma esso non si è rivelato più operativo degli indici di sviluppo economico (27). Infatti porta a certi risultati che urtano il buon senso. Domandarsi oggi se lo sviluppo constatato in questo o in quel paese è di natura “sostenibile” equivale, in una certa misura, a discutere sul sesso degli angeli.
Alcuni potrebbero concludere che la tendenza a enunciare nuovi concetti, in realtà molto indeterminati, è un modo di mascherare un certo rifiuto del reale, mentre converrebbe previamente approfondirli.
Lo studio della mitologia demografica contemporanea porta così a comprendere perché fanno la loro comparsa parole nuove per esprimere buoni sentimenti che non realizzano necessariamente buone politiche.
Nell’ora in cui le tecniche portano una sofisticazione e un uso crescente di immagini virtuali nei media, i miti demografici appaiono come altrettante immagini virtuali, seducenti e ingannevoli.
Va a onore dell’uomo scartare i miti accecanti per accedere alla conoscenza vera, perché la conoscenza è la libertà dell’uomo. Rifiutarla significa cessare di essere. Significa accettare di farsi trascinare nell’abisso, seguendo l’immagine molto forte dei montoni di Panurgo (28).
Gérard-François Dumont
* Intervento dal titolo La mythologie contemporaine en démographie tenuto a Stans, in Svizzera, l’11 novembre 1995, a un convegno sul tema Popolazione e sviluppo, organizzato dall’Associazione Medici Cattolici Svizzeri, nei giorni dal 10 al 12 novembre. Traduzione e titolo redazionali.
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(1) Cfr. Paul Veyne, Les Grecs ont-ils cru à leur mythe?, Le Seuil, Parigi 1983.
(2) Il riferimento è a all’usanza — ancora diffusa in Francia — di preparare una torta con dentro una fava: chi ha in sorte la fetta che la contiene è nominato “re dell’Epifania” (ndr).
(3) Cfr. Aldous Huxley, Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo, trad. it., Mondadori, Milano 1991 (ndr).
(4) Cfr. il mio La science peut-elle être neutre?, in AA. VV., La famille de la science à l’éthique, Bayard Éditions-Centurion, Parigi 1995, pp. 27-40.
(5) Il rimando è a un classico dizionario della lingua francese, a cura di Paul Robert, nella sua versione minore (ndr).
(6) Cfr. Alfred Sauvy, Mythologie de notre temps, Payot, Parigi 1965.
(7) Cfr. il mio Démographie. Analyse des populations et démographie économique, Dunod, Parigi 1992.
(8) Charles de Montesquieu, Lettere Persiane, lettera CXII, trad. it., Frassinelli, Milano 1995, p. 189.
(9) Ibid., lettera CXIV, p. 192.
(10) Ibid., lettera CXVII, p. 198.
(11) Ibidem.
(12) Ibid., lettera CXVI, p. 197.
(13) Ibidem.
(14) Ibid., lettera CXIV, p. 193.
(15) Ibidem.
(16) È noto il caso delle fotografie pubblicate in certi paesi totalitari, dove, da un’edizione all’altra, scompaiono collaboratori che nel frattempo hanno smesso di essere graditi al dittatore.
(17) Cfr. il mio Le monde et les hommes. Les grandes évolutions démographiques, Litec, Parigi 1995.
(18) Cfr. Pierre-Jean Thumerelle, Une population écartelée entre jeunesse et viellissement, in Bulletin de l’Association de géographes français, n. 5, 1994.
(19) Si tratta di un’affermazione non sostenibile con sicurezza; cfr. il mio De l’explosion à l’implosion démographique?, in Revue des sciences morales et politiques, n. 4, 1993.
(20) François Jean (a cura di), Rapport annuel sur les crises majeures et l’action humanitaire, La Découverte, Parigi 1995, cit. in Le Monde, 25-1-1995, p. 30.
(21) Ibidem.
(22) Cfr. Jean-Claude Chesnais, La transition démographique, Presses Universitaires de France, Parigi 1986. Infatti, il motore della transizione è il calo della mortalità: “Se questa fosse rimessa in questione o, peggio, se venisse sostituita da una recrudescenza, anche il calo della fecondità perderebbe la sua principale ragione d’entrare in campo” (La Chronique du Ceped, n. 16, gennaio-febbraio 1995).
(23) Cfr. Yves Montenay, Les politiques de natalité dans le Tiers-monde, in Défense nationale, vol. 40, n. 4, aprile 1993.
(24) Cfr. il mio Il festino di Crono. Presente & futuro della popolazione in Europa, trad. it., Ares, Milano 1994.
(25) Cfr. Thomas Robert Malthus, Saggio sul principio di popolazione (1798). Seguito da Esame sommario del principio di popolazione, trad. it., Einaudi, Torino 1977 (ndr).
(26) L’espressione è di Alfred Sauvy: cfr. soprattutto il suo L’enjeu démographique, Éditions de l’APRD. Association Pour une Renaissance Démographique, Parigi 1981.
(27) Anche questi indici sollevano molteplici problemi. Un solo esempio: la società Carrefour, aprendo il suo primo supermercato a Città del Messico in un quartiere molto popolare, è stata colpita dal potere d’acquisto dei messicani, rivelatosi nettamente superiore a quello ricavabile dagli indici economici (cfr. la trasmissione Capital, su M6, domenica 29 gennaio 1995).
(28) Il riferimento è a un episodio dell’opera di François Rabelais (1494-1553), Gargantua et Pantagruel (trad. it., Gargantua e Pantagruele, Il quarto libro dei fatti e detti eroici del buon Pantagruele. Composto da Mastro Francesco Rabelais dottore in medicina, capitolo ottavo Come Panurgo fece affogare in mare il mercante e suoi montoni, vol. III, Rizzoli, Milano 1995, pp. 1018-1021): “i montoni di Panurgo” stanno per “quanti si lasciano trascinare da un imbroglione” (ndr).