La questione dei rapporti tra la Nato e la Russia risale ai tempi della fine dell’Unione Sovietica, ed appare oggi un argomento tirato in ballo da entrambe le parti in modalità decisamente parziali e faziose, quando le condizioni erano piuttosto chiare fin dall’inizio.
don Stefano Caprio
Il ministero degli esteri cinese ha oggi buon gioco a dire che “bisognava sciogliere la Nato subito dopo la fine dell’Urss”, secondo una dichiarazione del 2 aprile del rappresentante Zhao Litsiang, in quanto “rimasuglio della guerra fredda”. Una delle tesi di Mosca, infatti, è che l’Alleanza atlantica si sia impegnata, alla caduta dell’Urss, a non espandersi a est e che questo impegno sia stato disatteso. Tesi sempre ufficialmente respinta dall’Occidente.
Il cancelliere tedesco Olaf Scholz, parlando il 18 febbraio scorso alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera sulla crisi ucraina, ha sottolineato che Vladimir Putin ama richiamarsi a precedenti storici, ma che non si possono ridiscutere i confini di oggi, altrimenti si potrebbe andare indietro di duecento anni e trovare materia per innumerevoli conflitti. Una delle tesi della Russia è che la Nato si era impegnata a non espandersi all’est nei territori dell’ex Urss. Secondo quanto riporta Der Spiegel, una nota scovata nell’archivio nazionale britannico dallo studioso americano Joshua Shifrinson appoggerebbe questa lettura.
In un incontro tra i direttori politici dei ministeri degli Esteri di Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania avvenuto a Bonn il 6 marzo 1991 che aveva per tema la sicurezza della Polonia e di altri Paesi dell’Est, il rappresentante della Germania dell’Ovest Jürgen Chroborg dichiarò che “nelle trattative a 2 + 4 abbiamo chiarito che non estenderemo la Nato oltre l’Elba. Non possiamo quindi dare alla Polonia e agli altri l’ingresso nella Nato”. Ed anche il rappresentante degli Usa Raymond Seitz avrebbe aggiunto: “Abbiamo chiarito all’Unione Sovietica – nel 2+4 come in altri incontri – che non trarremo alcun vantaggio dal ritiro delle truppe sovietiche dall’Europa dell’Est”. Due anni dopo gli americani corressero la loro politica, conclude l’articolo.
La Nato ha sempre escluso questa ricostruzione, ma la preoccupazione russa per l’espansione dell’Alleanza atlantica a Est emergerebbe anche dalla trascrizione di una telefonata dell’ex-presidente russo Boris Yeltsin al presidente statunitense Bill Clinton del 15 settembre 1993: “Voglio anche portare attenzione al fatto che lo spirito del trattato sullo stato definitivo della Germania firmato in settembre nel 1990, specialmente le previsioni che proibiscono il dispiegamento di truppe straniere nei territori orientali della Germania, preclude l’opzione dell’espansione della zona Nato all’Est”.
Gli accordi che citava Yeltsin erano tuttavia limitati al trattato sulla Germania firmato a Mosca il 12 settembre 1990, che fu siglato tra le allora due Germanie, Francia, Regno Unito, Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica prima dello scioglimento del Patto di Varsavia nel 1991. Dopo – come ricorda Gavin E L Hall dell’Università di Strathclyde – fu costituito il Consiglio di cooperazione del Nord Atlantico (Nacc) per trasformare la politica di confronto della Nato con il Patto di Varsavia alla nuova realtà di dialogo e cooperazione con i Paesi dell’Est. La Nato non perseguì un allargamento, ma nel 1994 creò un Partenariato per la pace con i Paesi Nacc ed anche alcuni Paesi asiatici.
La Polonia, la Cecoslovacchia e l’Ungheria, però, con la dichiarazione di Visegrad del 15 febbraio 1991 si erano già accordate tra loro per un rapporto di collaborazione aspirando ad entrare nel sistema politico-economico-legislativo e di difesa europeo. Sarebbero poi entrate nella Nato nel 1999, dopo un invito formale espresso dall’Alleanza atlantica nel vertice di Madrid dell’8-9 luglio 1997; la Slovacchia ne divenne membro il 29 marzo 2004.
Un paio di mesi prima, il 27 maggio 1997, la Nato aveva sottoscritto a Parigi un atto di cooperazione, relazioni reciproche e sicurezza con la Federazione Russa concordando la creazione di un Consiglio congiunto permanente, sostituito poi nel 2002 dal Consiglio Nato-Russia che si è riunito l’ultima volta poco più di un mese fa. Con il trattato del 1997 Nato e Russia affermavano che gli Stati parte del Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa del 1990, concluso tra gli Stati della Nato e del Patto di Varsavia (Cfe), avrebbero dovuto “mantenere solo capacità militari, individualmente o in congiungimento con altri, in misura commisurata alle legittime necessità di sicurezza individuali o collettive tenendo conto dei loro obblighi internazionali, compreso lo stesso trattato Cfe”. Veniva affermato anche l’intento di costituire task force ed esercitazioni congiunte. Una lettura puntuale del testo non lascia dunque ricavare una formale ed esplicita rinuncia della Nato di allargarsi come alleanza difensiva ad altri Stati.
Il 16 gennaio 1998 gli Stati baltici, Estonia, Lettonia e Lituania, decidevano con gli Usa un partenariato volto ad entrare nella Nato. Nell’accordo si sottolineava al contempo l’interesse ad una intensificata relazione tra Nato e Russia come elemento fondamentale della pace in Europa. La Russia non si oppose a questo processo negoziando fino al 1997 il Trattato sui confini con la Lettonia che aveva dichiarato la sua indipendenza nel 1991. L’accordo non fu poi concluso nei termini perché il governo della Lettonia adottò una dichiarazione esplicativa unilaterale che faceva riferimento al trattato di pace con la Russia dell’11 agosto 1920. Il gesto fu interpretato da Mosca come una richiesta territoriale, anche se il primo ministro lettone Aigars Kalvitis dichiarò – era il 2005 – che non si trattava di una rivendicazione e il suo Paese avrebbe rispettato i confini definiti nel Trattato. Nel summit tra Ue e Russia, Vladimir Putin dichiarò tra l’altro che “siamo pronti a firmare il trattato sui confini con la Lettonia: speriamo che non siano accompagnate da folli domande territoriali. Nell’odierna Europa, nel ventunesimo secolo, se un Paese ha pretese territoriali contro un altro e al contempo vuole siglare un trattato sui confini con quel Paese, è assolutamente insensato. La Federazione Russa ha perso decine di migliaia di pezzi del suo territorio storico in seguito al collasso dell’Unione Sovietica. Dobbiamo dividere tutto di nuovo? Dobbiamo domandare il territorio della Crimea e parte dei territori delle altre ex Repubbliche Sovietiche?”. Nel 2014 è successo esattamente quello.
In una recente intervista al Financial Times, il Capo di Stato Maggiore estone Tenente-Generale Riho Terras ha richiesto lo schieramento di batterie antimissile Patriot e in generale di maggiori forze NATO nell’area per aumentare il potenziale di deterrenza dei Paesi Baltici contro una potenziale invasione russa. Ma i Paesi Baltici rischiano davvero di essere invasi? La risposta tra gli analisti occidentali varia molto a seconda dell’interlocutore, da chi si esprime come sicuro di una futura invasione a chi nota come sia alquanto improbabile che la Russia voglia scatenare una guerra totale con la NATO, che militarmente appare avere ancora una marcata superiorità. Tra accuse di provocazioni reciproche, in realtà però tutti questi discorsi mancano il vero fulcro della questione, ovvero come funzionino davvero queste dinamiche.
Ogni nazione ha delle “red lines“, chese superate da un avversario fanno scatenare il conflitto aperto vero e proprio. In altre parole, un Paese è disposto a sopportare provocazioni e mosse avversarie fino a che non supera certi limiti e quei “certi limiti” sono quelli che determinano la differenza tra pace e guerra. Entrambi i contendenti cercano di comprendere le red lines dell’altro (e spesso credono, non sempre a ragione, di saperlo) per aumentare la “pressione” diplomatica, militare ecc. senza mai oltrepassarle, perché ovviamente nessuno vuole uno scontro aperto. La stessa situazione si ha tra Russia e NATO, che cercano di valutare ciascuno le red lines dell’altro: fino a che punto posso spingermi per guadagnare vantaggi politici, diplomatici e anche militari prima di scatenare una guerra che non voglio?
La dottrina russa dell’Hybrid Warfare, la guerra ibrida impiegata ad esempio negli ultimi otto anni in Donbass e Crimea (ed è di questo che i Paesi Baltici hanno paura, a torto o a ragione non ha molta importanza) si basa su un concetto semplice: si punta a creare delle situazioni “di fatto” sul terreno, dove le forze armate russe o forze filo-russe possano usare una superiorità locale temporanea per, ad esempio, occupare un’area velocemente (come la Crimea) o mandare aiuti a propri alleati senza dichiararlo apertamente (Donbass). A questo punto, indipendentemente dal diritto internazionale, hanno creato una situazione di fatto ed è come se affermassero: “noi siamo qui, che ti piaccia o no. Se vuoi toglierci da qui devi iniziare tu la guerra diretta.”
Il sistema dell’Hybrid Warfare pertanto, al di là delle tecniche e tattiche specifiche nella quali si attua (esistono molte varianti), gioca sul fatto che esiste uno scarso interesse (soprattutto occidentale) per la guerra e in particolare la guerra su suolo europeo. Mosca cioè ha operato basandosi sull’idea che quelle azioni in Crimea e in Donbass non abbiano superato quelle famose “red lines” NATO, e quindi evitino che la NATO impieghi davvero la sua forza militare.
Sabato, 9 aprile 2022