Jerome Klapka Jerome, Cristianità n. 363 (2012)
Cfr. il testo in Jerome Klapka Jerome, Diary of a Pilgrimage (and six essays), Arrowsmith, Bristol 1891, pp. 261-279; trad. it. in Carlo Pagetti (a cura di), Il palazzo di cristallo. L’immaginario scientifico dell’era vittoriana, Mondadori, Milano 1991, pp. 351-369. Note, inserzioni fra parentesi quadre e traduzione dall’originale in inglese sono redazionali. Sull’autore e sulla problematica, cfr. Maurizio Brunetti, Nota su Jerome Klapka Jerome e la letteratura distopica, in questo numero di Cristianità, pp. 39-47.
Avevo passato una serata estremamente interessante. Avevo cenato con alcuni miei amici molto “avanzati” al Club Socialista Nazionale. La cena era stata eccellente: il fagiano farcito di tartufi era un poema, e quando dico che lo Chateau Lafitte del ’49 valeva il prezzo per il quale l’avevamo acquistato non saprei cos’altro aggiungere in suo favore.
Dopo cena, mentre fumavamo sigari — devo dire che al Club Socialista Nazionale sanno proprio come fornirsi di buoni sigari —, avemmo una discussione molto istruttiva sul prossimo avvento dell’uguaglianza per l’uomo e della nazionalizzazione del capitale.
Non ero un granché capace di prendere parte alla discussione: da ragazzo, ero stato lasciato in una posizione che rendeva necessario che mi guadagnassi da vivere, perciò non avevo mai goduto dell’opportunità e del tempo per studiare tali questioni (1).
Ascoltai, in ogni caso, attentamente i miei amici che spiegavano come, per le migliaia di secoli che erano passati prima della loro nascita, il mondo era andato avanti in un modo totalmente sbagliato e come, nel corso di pochi anni a venire o giù di lì, l’avrebbero messo loro a posto.
L’uguaglianza di tutto il genere umano era la loro parola d’ordine — perfetta uguaglianza in tutto. L’uguaglianza in ciò che si possiede, l’uguaglianza di posizione e d’influenza, l’uguaglianza di doveri avrebbero portato con sé l’uguaglianza nella felicità e nel sentirsi appagati.
Appartenendo il mondo parimenti a tutti, fra tutti si sarebbe dovuto ugualmente dividere. Il frutto del lavoro di ogni uomo sarebbe stata la proprietà — non del singolo, però, ma dello Stato che lo avrebbe nutrito e vestito —, che si sarebbe dovuta utilizzare non per accrescere la sua agiatezza, ma per l’arricchimento dell’intera specie.
La ricchezza individuale — la catena sociale con cui i pochi avevano costretto i molti, l’arma da bandito di cui una ristretta gang di ladri si era servita per rubare — andava tolta dalle mani di coloro che per troppo tempo l’avevano tenuta.
Delle distinzioni sociali — le barriere tramite le quali l’onda montante dell’umanità era stata fino ad ora logorata e repressa — si sarebbe fatto per sempre piazza pulita. La razza umana doveva proseguire speditamente verso il proprio destino — qualunque fosse — e non, come al presente, quale orda sparsa senza ordine e che si azzuffa, ogni uomo per sé, sul terreno sconnesso delle disparità di nascita e di fortuna — la soffice zolla erbosa per i piedi dei vezzeggiati e i ciottoli taglienti per i piedi dello sventurato —, ma come un’armata che marcia ordinata fianco a fianco sul terreno spianato dell’equità e dell’uguaglianza.
L’ampio seno della nostra Madre Terra avrebbe nutrito tutti i suoi figli, e tutti allo stesso modo; nessuno sarebbe rimasto affamato e nessuno avrebbe avuto troppo. L’uomo forte non avrebbe agguantato più del debole; il furbo non avrebbe macchinato per accaparrarsi più dell’ingenuo. La Terra apparteneva all’uomo, in tutta la sua pienezza, perciò sarebbe stata divisa in parti uguali fra tutta l’umanità. Tutti gli uomini erano uguali per legge di Natura, e bisognava renderli uguali tramite la legge degli uomini.
Con la disuguaglianza sono venuti la miseria, il delitto, il peccato, l’egoismo, l’arroganza e l’ipocrisia. In un mondo in cui tutti gli uomini fossero uguali, non esisterebbe alcuna tentazione di fare il male e la nostra naturale nobiltà potrebbe finalmente imporsi.
Il giorno in cui gli uomini fossero tutti uguali, il mondo sarebbe un Paradiso, finalmente liberato dal degradante dispotismo di Dio.
Levammo i nostri bicchieri e brindammo all’UGUAGLIANZA, alla sacra UGUAGLIANZA; poi ordinammo al cameriere di portarci della Chartreuse verde e altri sigari.
Tornai a casa assai pensieroso. Per un bel po’ di tempo non riuscii a prendere sonno; rimanevo sveglio riflettendo su questa visione di mondo nuovo che mi era stata presentata.
Come sarebbe stata piacevole la vita se solo il progetto dei miei amici socialisti si fosse potuto portare a termine. Non ci sarebbero più state tutte queste lotte, questo combattersi l’uno contro l’altro, non più gelosie, non più delusione, mai più paura della povertà! Lo Stato si sarebbe preso cura di noi dal momento della nostra nascita fino a quello della morte e avrebbe pensato a tutti i nostri bisogni dalla culla alla bara — culla e bara incluse —, fino a poterci addirittura disinteressarci della questione. Non ci sarebbe più stato alcun lavoro duro; tre ore di lavoro al giorno sarebbe stato il massimo, secondo i nostri calcoli, che lo Stato avrebbe richiesto a ogni cittadino adulto, e a nessuno — neppure a me! — sarebbe stato concesso di lavorare di più. Nessun povero di cui avere compassione, nessun ricco da invidiare. Nessuno che ci avrebbe più guardato dall’alto in basso; nessuno da guardare dall’alto in basso; anche se ammetto che riflettere su quest’ultima prospettiva non era, poi, così piacevole. Tutta la nostra vita ordinata e predisposta per noi. Niente a cui pensare se non il glorioso destino — di qualunque destino si trattasse — dell’Umanità!
Poi i pensieri iniziarono lentamente a sfrangersi e a confondersi, e mi addormentai.
***
Quando mi svegliai, mi ritrovai disteso in una teca di vetro, in uno stanzone desolato. C’era un’iscrizione oltre la mia testa. Mi girai e la lessi. Diceva così:
Uomo addormentato – Periodo: diciannovesimo secolo
Quest’uomo fu trovato che dormiva in una casa a Londra, dopo la grande rivoluzione sociale del 1899. Dal resoconto della padrona di casa sembrerebbe che, al momento della scoperta, egli stesse già dormendo da dieci anni interi, avendo ella dimenticato di svegliarlo. Si decise, per scopi scientifici, di non destarlo e di vedere per quanto tempo avrebbe continuato a dormire. Fu, perciò, condotto e depositato nel “Museo delle stramberie” l’11 febbraio 1900. I Visitatori sono gentilmente invitati a non schizzare acqua attraverso i fori per l’aria.
Un vecchio e distinto signore dall’aria intelligente, che stava proprio allora sistemando delle lucertole imbalsamate nella teca accanto alla mia si avvicinò e ne rimosse il coperchio.
“Qualcosa non va?”, domandò. “È stato disturbato?”.
“No — risposi —. Mi sveglio sempre in questo modo, quando credo di aver dormito a sufficienza. In che secolo siamo?”.
“Questo — disse — è il ventinovesimo secolo. Lei ha dormito giusto mille anni”.
“Ah, bene! Mi sento meglio, proprio per questo — risposi, alzandomi in piedi —. Non vi è niente di meglio di una bella dormita fuori casa”.
“Immagino che lei voglia fare la cosa che si fa di solito — mi disse l’uomo mentre indossavo i vestiti che avevano lasciato vicino a me nella teca —. Mi chiederà di accompagnarla per la città e di spiegarle tutto ciò che è cambiato, mentre farà domande e sciocche osservazioni?”.
“Sì — replicai —, suppongo che sia proprio la cosa che dovrei fare”.
“Credo anch’io — borbottò —, andiamo e facciamola finita”, e mi condusse fuori della stanza.
Scesi al piano di sotto, dissi: “Va tutto bene, adesso?”.
“”Va tutto bene” cosa?”, replicò.
“Beh, il mondo — risposi io —. Alcuni miei amici stavano organizzando, proprio prima che mi coricassi, di farlo a pezzi e risistemarlo come si deve. Ci sono riusciti a tutt’oggi? Gli uomini sono tutti uguali, in modo da essersi liberati del dolore, del peccato e di tutti gli altri brutti mali?”.
“Oh, sì — rispose la mia guida —, scoprirà che, ora, tutto va bene. Abbiamo continuato a lavorare duro, mentre lei dormiva. Ci siamo rimboccati le maniche, mentre lei dormiva. Abbiamo sistemato questa Terra che ora, me lo lasci dire, è proprio una perfezione. Nessuno è autorizzato a fare qualcosa di sbagliato o di stupido; e, per quanto concerne l’uguaglianza, solo i ranocchi ne sono esclusi”.
Si esprimeva in modo colloquiale — pensai —, ma non mi andò di rimproverarlo. Passeggiammo per la città. Tutto era molto pulito e tranquillo. Le strade, indicate da numeri, si intersecavano ad angolo retto e ognuna appariva uguale all’altra. Non c’erano in giro né cavalli, né carrozze; circolavano solo veicoli a trazione elettrica. Tutte le persone che incontravamo mostravano un’espressione calma e austera e si assomigliavano così tanto l’una con l’altra da apparire membri di una stessa famiglia. Ognuno era vestito come la mia guida: un paio di pantaloni grigi e una tunica grigia, abbottonata attorno al collo e stretta con una cintura alla vita. Ogni uomo era ben rasato e aveva capelli neri.
“Gli uomini — chiesi — sono tutti gemelli?”.
“Gemelli! Santo cielo, no! — rispose la mia guida —. Come le è venuta in mente un’idea del genere?”.
“Tutti si assomigliano molto e hanno i capelli neri!”.
“Ah, ma quella è la regola riguardante il colore dei capelli — spiegò il mio compagno —. Dobbiamo avere tutti i capelli neri. Se il colore naturale è un altro, bisogna tingerseli di nero”.
“Perché?”, domandai.
“Perché!”, ribatté il vecchio gentiluomo, alquanto irritato. “Pensavo avesse capito che gli uomini sono ora tutti uguali. Che ne sarebbe dell’uguaglianza se a un uomo o a una donna fosse concesso di andarsene in giro mettendo in mostra capelli dorati, quando un’altra dovrebbe accontentarsi di esibire un color carota? In questi giorni felici gli uomini non solo hanno imparato a essere uguali, ma devono anche sembrarlo nella misura del possibile. Facendo sì che gli uomini siano tutti ben rasati, e tutti gli uomini e le donne abbiano capelli neri di uguale lunghezza, noi ovviamo, in una certa qual misura, agli errori della Natura”.
“E perché proprio neri?”, domandai. Disse di non saperlo, ma che quello era il colore che era stato deciso.
“Da chi?”, chiesi.
“Dalla MAGGIORANZA”, rispose levandosi il cappello e abbassando gli occhi, come in preghiera.
Camminammo ancora e incrociammo altri uomini. Dissi:
“Non ci sono donne in questa città?”.
“Donne?!”, esclamò la mia guida. “Certo che ci sono. Ne abbiamo incontrate a centinaia!”.
“Pensavo di saper riconoscere una donna quando ne vedo qualcuna — osservai —. E non ricordo di averne notata nemmeno una”.
“Eccone lì due, proprio ora”, disse, attirando la mia attenzione su una coppia di persone a noi vicine che indossavano i pantaloni e la tunica grigi, come da regolamento.
“Da che cosa ci si accorge che si tratta di donne?”.
“Vede i numeri di metallo che ognuno porta sul colletto?”.
“Sì. Stavo giusto pensando al numero enorme di poliziotti in servizio che avete, e mi domandavo dove fosse il resto della gente!”.
“Ebbene, i numeri pari sono donne, quelli dispari sono uomini”.
“Com’è semplice — osservai —. Immagino che con un po’ di pratica basti appena un’occhiata per distinguere il sesso di una persona”.
“Oh, sì — rispose —. Se è quello che uno desidera”.
Camminammo per un po’ in silenzio. Poi dissi:
“Perché ognuno ha un suo numero?”.
“Perché si possa distinguerlo dagli altri”, rispose il mio compagno.
“Le persone non hanno un nome?”.
“No”.
“Perché?”.
“Oh! Vi è una tale disuguaglianza nei nomi. Coloro che si chiamavano Montmorency (2) guardavano dall’alto in basso gli Smith; e agli Smith non piaceva confondersi con i Jones: sicché, per evitare ogni ulteriore seccatura, si è deciso di sbarazzarsi di tutti i nomi e di dare a ciascuno un numero”.
“I Montmorency e gli Smith non fecero alcuna obiezione?”.
“Sì, ma gli Smith e i Jones erano LA MAGGIORANZA”.
“E non accadde che gli Uno e i Due guardassero dall’alto in basso i Tre e i Quattro e così di seguito?”.
“All’inizio, sì. Ma, con l’abolizione della ricchezza, i numeri persero il loro valore, eccetto che per scopi industriali e per gli acrostici più complicati; e oramai il numero 100 non si considera in alcun modo superiore al numero 1.000.000”.
Al mio risveglio non mi ero lavato, poiché al Museo non vi erano luoghi per farlo, e iniziavo a sentirmi accaldato e sporco. Dissi:
“Vi è un posto dove potrei lavarmi?”.
“No — disse lui —, non siamo autorizzati a lavarci per conto proprio. Dovrà aspettare fino alle quattro e mezzo, quando sarà lavato per l’ora del tè”.
“Essere lavato?!? — esclamai. — E da chi?”.
“Dallo Stato”.
E aggiunse che, tempo prima, avevano scoperto che non era possibile preservare l’uguaglianza permettendo alle persone di lavarsi per conto proprio. Qualcuno si lavava tre o quattro volte al giorno, mentre altri, da un capo dell’anno all’altro, neanche si accostavano all’acqua e al sapone. Si erano, sicché, formate due classi distinte: i Puliti e gli Sporchi. Tutti i vecchi pregiudizi di classe avevano ripreso vigore. Il Pulito disprezzava lo Sporco e lo Sporco odiava il Pulito. E così, per porre termine a ogni divergenza, lo Stato decise che avrebbe provveduto lui a lavare ogni cittadino che, da allora in poi, viene lavato due volte al giorno da funzionari nominati dallo Stato; lavarsi da soli in privato è proibito.
Avevo notato che, nel corso della camminata, non avevo scorto neanche un’abitazione, ma solamente, isolato dopo isolato, enormi edifici che somigliavano a caserme, tutte della stessa forma e dimensione. Qualche volta, in prossimità di un incrocio, c’era un edificio più piccolo contrassegnato come “Museo”, “Ospedale”, “Sala delle Discussioni”, “Bagni”, “Palestra”, “Accademia delle Scienze”, “Esposizioni Industriali”, “Scuola di Conversazione”, eccetera, ma mai un’abitazione privata. Chiesi:
“In questa città non vive nessuno?”.
“Le do la mia parola: le sue sono domande veramente sciocche. Dove pensa che vivano queste persone?”.
“Proprio su ciò mi stavo interrogando. Non vedo abitazioni da nessuna parte!”.
“Non abbiamo bisogno di case — disse —. Almeno non nel senso che intende lei. Noi siamo socialisti ora; viviamo insieme in fraternità e uguaglianza in questi grandi caseggiati che vede. Ogni caseggiato ospita mille cittadini. Contiene mille letti — cento in ogni stanza — e bagni e spogliatoi in proporzione, una sala da pranzo e le cucine. Alle sette del mattino in punto suona una campana: ognuno si alza e rifà il proprio letto. Alle sette e mezzo ognuno va negli spogliatoi ed è lavato e rasato, e gli si acconciano i capelli. Alle otto viene servita la colazione nella mensa, che comprende un porridge di farina d’avena e mezza pinta di latte caldo per ogni cittadino adulto. Al giorno d’oggi, siamo tutti strettamente vegetariani. Il voto vegetariano aumentò enormemente nel corso dell’ultimo secolo. Essendo perfettamente organizzati, i vegetariani sono stati capaci di decidere la sorte di ogni elezione nel corso degli ultimi cinquant’anni. All’una in punto suona un’altra campana e le persone tornano per il pranzo, che consiste in fagioli e frutta cotta con un pudding rolly-polly due volte la settimana e plum-duff il sabato (3). Alle cinque del pomeriggio vi è il tè, alle dieci si spengono le luci e tutti vanno a letto. Siamo tutti uguali e tutti viviamo allo stesso modo, impiegati e spazzini, intellettuali e farmacisti, tutti insieme in fraternità e libertà. I maschi vivono negli isolati da questo lato della città, le donne dall’altra parte”.
“E dove vivono le persone sposate?”, chiesi.
“Oh, non ci sono coppie sposate — rispose —. Abbiamo abolito il matrimonio duecento anni fa. Vede, la vita matrimoniale non si accordava bene con il nostro sistema. Capimmo che la vita domestica era del tutto anti-socialista nelle sue inclinazioni. Gli uomini tendevano a preoccuparsi più della moglie e della famiglia che dello Stato. Desideravano lavorare più a beneficio della loro cerchia ristretta di affetti piuttosto che per il bene dell’intera comunità. Avevano più a cuore il futuro dei propri figli che il Destino dell’Umanità. I legami di amore e di sangue creavano rapidamente dei piccoli gruppi molto uniti, piuttosto che un unico grande tutto. Prima di considerare il progresso del genere umano, pensavano a quello dei loro amici e parenti. Prima d’impegnarsi per una felicità più grande per il maggior numero, gli uomini s’impegnavano per la felicità dei pochi che gli erano più prossimi e cari. Di nascosto, gli uomini e le donne mettevano da parte e lavoravano e si sacrificavano, in modo da poter regalare, in segreto, un po’ di gioia extra ai loro cari. L’amore alimentava il vizio dell’ambizione nel cuore degli uomini. Per conquistarsi il sorriso delle donne che amavano, per lasciare ai propri figli un nome che questi, dopo di loro, sarebbero stati fieri di portare, gli uomini tendevano a volersi elevare sopra il livello generale, a voler compiere azioni in modo tale che il mondo avrebbe rispettato e onorato loro più degli altri concittadini, e infine lasciare un’impronta più profonda degli altri lungo la polverosa strada maestra del loro tempo. I princìpi fondamentali del Socialismo erano quotidianamente frustrati e spregiati. Ogni casa era un centro rivoluzionario per la propagazione dell’individualismo e della personalità. Nel calore di ogni focolare domestico crescevano vipere, il Cameratismo e l’Indipendenza, per colpire lo Stato e avvelenare le menti degli uomini”.
“Le dottrine sull’uguaglianza — continuò — venivano apertamente messe in discussione. Gli uomini, quando amavano una donna, finivano per ritenerla superiore a ogni altra e a stento si davano pena di camuffare questa loro opinione. Le mogli innamorate credevano che i propri mariti fossero più saggi, più coraggiosi, migliori degli altri uomini. Le madri ridevano all’idea che i propri figli non erano in alcun modo migliori degli altri bambini. E i bambini crescevano assimilando l’idea ripugnante che i propri genitori fossero i migliori esistenti al mondo. Da qualunque punto di vista lo si voglia analizzare, l’istituto della Famiglia si ergeva come nostro nemico. Un uomo aveva una moglie incantevole e due bimbi dal carattere dolce; il vicino era, invece, sposato a una bisbetica ed era padre di undici mocciosi turbolenti e birbanti. Che ne era dell’uguaglianza?”.
“E ancora, ovunque esistesse la Famiglia, là volteggiavano, a volte ingaggiando una lotta, gli angeli della Gioia e del Dolore; e in un mondo che conosce la Gioia e il Dolore non può vivere l’Uguaglianza. Una notte, un uomo e una donna vegliano piangendo attorno a una piccola culla. Dall’altra parte della parete, invece, una felice giovane coppia, mano nella mano, sorride dinanzi ai gesti impacciati di un bimbo roseo e farfugliante. E la povera Uguaglianza che fine fa?”.
“Queste cose non potevano essere più permesse. Ci accorgemmo che l’Amore si rivelava un nostro nemico in ogni occasione. Rendeva l’uguaglianza impossibile. Portava gioia e dispiacere e, al suo seguito, pace e sofferenza. Metteva scompiglio nelle convinzioni degli uomini e poneva a repentaglio il Destino dell’Umanità; così abbiamo abolito l’Amore e tutte le sue opere. Adesso non ci sono più matrimoni né, quindi, guai domestici; niente corteggiamenti né, di conseguenza, pene di cuore; niente innamoramenti né, perciò, dispiaceri; niente baci né lacrime. Viviamo finalmente nell’uguaglianza, liberi dai problemi che causano la gioia e il dolore”.
Dissi io: ” Che pace che ci deve essere; ma, mi dica — e badi che pongo la questione da un punto di vista meramente scientifico —, come fate a continuare a garantire l’approvvigionamento di uomini e di donne?”.
“Oh, è abbastanza semplice — spiegò lui —. Ai vostri giorni come facevate a provvedere alla riproduzione di cavalli e di mucche? In primavera, si provvede che nascano tanti bambini quanti lo Stato ne esige, che vengono allevati con cura sotto controllo medico. Quando nascono, vengono sottratti alle loro madri — che, altrimenti, potrebbero abituarsi ad amarli — e portati in asili e scuole pubbliche fino all’età di quattordici anni. Vengono, allora, esaminati da funzionari statali che decidono quale sarà il loro ruolo e, in conformità a questo, viene scelto il tipo di addestramento successivo. A vent’anni assumono il rango di cittadini e acquisiscono il diritto di voto. Non vi è differenza fra uomo e donna. Entrambi i sessi hanno gli stessi privilegi”.
“E quali sarebbero i privilegi?”, chiesi io.
“Beh — rispose —, tutti quelli di cui abbiamo parlato finora”.
Girovagammo ancora per qualche chilometro, ma non vedemmo altro che strade con questi enormi caseggiati, l’uno dopo l’altro. Dissi:
“Non ci sono negozi o grandi magazzini in questa città?”.
“No — rispose —. Non ne abbiamo alcuna necessità. Lo Stato ci nutre, ci veste, ci dà un alloggio, ci fornisce cure mediche, ci lava e ci riveste, ci taglia i calli e ci seppellisce. Che ce ne facciamo di negozi e di grandi magazzini?”.
La camminata cominciava a stancarmi. Dissi:
“Vi è un posto dove potremmo andare a bere qualcosa?”.
“”Bere qualcosa”? — rispose — Che significa? Per cena avremo la nostra mezza pinta di cioccolata calda da bere. È questo che voleva dire?”.
Non mi sentii all’altezza di spiegarglielo né, con ogni evidenza, sarebbe stato in grado di capirmi se l’avessi fatto. Così, risposi:
“Sì, intendevo quello”.
Incrociammo, più avanti, un uomo dai lineamenti molto belli che, notai, aveva un braccio solo. Avevo già intravisto, durante la mattinata, due o tre uomini di corporatura piuttosto massiccia con un solo braccio e la cosa m’incuriosì. Chiesi spiegazioni alla mia guida.
“Sì. Quando un uomo è sopra la media per forza e per corporatura, noi gli amputiamo una gamba o un braccio, tanto per rendere le cose più uguali. Noi lo potiamo un po’, per così dire. Sa, la natura non è aggiornata ai nostri tempi, ma noi facciamo di tutto per rimettere le cose a posto”.
“Immagino che non siate riusciti ad abolire anche lei…”.
“Beh, non del tutto — rispose —. Però abbiamo fatto quanto potevamo — aggiunse poi con comprensibile orgoglio —. Abbiamo fatto parecchio in quella direzione”.
” E se un uomo è intelligente in modo eccezionale? Come fate con lui?”.
“Da quel punto di vista, non abbiamo particolari problemi adesso — rispose —. È da tempo che nulla di pericoloso ci capita a causa d’inusuali capacità intellettive. Quando accade, sottoponiamo la testa a un’operazione chirurgica che rammollisce il cervello portandolo al livello della media”.
“Talvolta ho pensato — rifletteva il vecchio gentiluomo — che sia un peccato non poter livellare verso l’alto, piuttosto che verso il basso; ma, naturalmente, la cosa sarebbe irrealizzabile”.
Dissi io: “Pensate che sia giusto fare a pezzi queste persone, diminuendone le capacità, come fate voi?”.
“È giusto, senza alcun dubbio”, rispose.
“Sul punto, lei mi sembra fin troppo sicuro di sé — ribattei —. Perché sarebbe “giusto” senza alcun dubbio?”.
“Perché è stato deciso dalla MAGGIORANZA”.
“Ed è questo che lo rende automaticamente giusto?”.
“Una MAGGIORANZA non fa mai nulla di sbagliato”, rispose.
“Ed è quello che pensano anche le persone che avete amputato?”.
“Ma quelli — replicò evidentemente meravigliato della domanda — sono in minoranza. Lo comprende?”.
“Certo, ma anche una minoranza ha un diritto ad avere le braccia, le gambe e una testa, non le pare?”.
“Una minoranza NON ha alcun diritto”, rispose.
“Tanto vale, allora, appartenere alla Maggioranza, dovendo vivere qui, vero?”.
“Già, è quello che fa la maggior parte delle persone. Sembra sia la cosa che la gente trova più conveniente”, disse.
Poiché trovavo la città di scarso interesse, chiesi se, tanto per cambiare, potevamo fare un giro in campagna.
“Sì, certamente”, disse la mia guida, aggiungendo, però, che non avrei dovuto aspettarmi granché.
“Oh, ma la campagna, prima che mi addormentassi, era un posto di solito molto bello — incalzai —. C’erano grandi alberi verdi e prati erbosi carezzati dal vento e piccoli cottage adornati con rose e…”.
“Ma tutto questo l’abbiamo cambiato — m’interruppe il vecchio gentiluomo —, adesso è tutto un unico immenso ortomercato, diviso da strade e da canali artificiali che s’intersecano ad angolo retto. Non vi è più alcuna bellezza nella campagna. Noi abbiamo abolito la bellezza; interferiva con la nostra uguaglianza. Non era per niente equo che alcune persone godessero di una veduta incantevole e altri vivessero in una brughiera desolata. E così oggi abbiamo reso tutto pressoché uguale a ogni altro posto, e nessun luogo primeggia ai danni di un altro”.
“È consentito a un uomo emigrare in un altro Paese? — chiesi — In un qualunque altro Paese?”.
“Oh sì, se lo desidera — rispose il mio compagno —, ma perché dovrebbe volerlo? Tutte le regioni sono esattamente uguali alle altre. Il mondo intero è ora un solo e unico popolo; una lingua, una legge, uno stesso modo di vivere”.
“Non esiste varietà, non vi sono cambiamenti da qualche parte? Che cosa fate per divertirvi, nel tempo libero? — chiesi io — Ci sono teatri?”.
“No — rispose la mia guida —. Abbiamo abolito i teatri. Il temperamento istrionico sembrava del tutto incapace di accettare il principio dell’uguaglianza. Ogni attore pensava di essere il migliore del mondo e superiore, di fatto, alla maggior parte delle persone. Era la stessa cosa ai vostri tempi?”.
“Proprio la stessa cosa — risposi —, ma nessuno ci faceva molto caso”.
“Ah, noi ce ne siamo accorti — replicò — e, di conseguenza, abbiamo chiuso definitivamente i teatri. Poco prima di allora, la nostra Società di Vigilanza del Nastro Bianco (4) diceva che tutti i luoghi di svago erano peccaminosi e degradanti; ed essendo una banda (5) energica e risoluta, riuscirono presto a portare la MAGGIORANZA sulle proprie opinioni; e così tutti i divertimenti sono ora proibiti”.
“E i libri? — chiesi — Leggerli è consentito?”.
“In verità — rispose —, non è che se ne scrivano molti. Capisce, le nostre vite procedono in maniera così perfetta, nel mondo non vi è nulla di sbagliato, né sofferenza, né gioia, né speranza, né amore, né motivi di dolore; sicché non vi è, in realtà, molto di cui valga la pena scrivere eccetto, naturalmente, il Destino dell’Umanità”.
“È vero! — risposi —. Lo vedo da me. Ma le antiche opere, i grandi classici? Avevate Shakespeare [William, 1564-1616], e Scott [Walter, 1771-1832], e Thackeray [William Makepeace, 1811-1863]; io pure ho scritto una o due cose che non erano malaccio. Che ne avete fatto?”.
“Abbiamo bruciato tutte queste vecchie opere — disse —. Erano piene di nozioni vecchie e sbagliate sui vecchi tempi, sbagliati e maledetti, quando gli uomini erano meri schiavi e bestie da soma”.
Disse anche che tutte le sculture e i vecchi dipinti erano stati, similmente, distrutti, in parte per la stessa ragione, e in parte perché ritenuti inadeguati dalla Società di Vigilanza del Nastro Bianco, che ora aveva un grande potere. Arte e letteratura nuove, dal canto loro, erano proibite, poiché tendevano a minare i principi dell’uguaglianza. Inducevano gli uomini a riflettere, e coloro che riflettevano crescevano più abili e brillanti di coloro che preferivano non riflettere; e questi ultimi naturalmente protestarono e, risultando la maggioranza, ebbero la meglio. Disse pure che, per ragioni analoghe, non erano autorizzati né sport né altri tipi di giochi. Queste cose innescavano la competizione e la competizione comportava disuguaglianza.
Chiesi allora: “Quanto lavorano al giorno i vostri cittadini?”.
“Tre ore — egli rispose —, dopodiché hanno tutta la giornata a disposizione per sé stessi”.
“Oh! Giusto a questo volevo arrivare — osservai —. Che cosa fate del tempo che avete a disposizione per quelle altre ventuno ore?”.
“Beh, riposiamo”.
“Che cosa? Riposate per ventuno ore di fila?”.
“Più esattamente, riposiamo, riflettiamo e parliamo”.
“E su che cosa riflettete, di che cosa parlate?”.
“Di quanto disgraziata fosse la vita nei tempi andati e quanto felici siamo noi ora e, naturalmente, del Destino dell’Umanità!”.
“Non vi stufate mai di parlare del Destino dell’Umanità?”.
“No, direi di no”.
“E che cosa intendete per esso? In che cosa consiste il Destino dell’Umanità, secondo voi?”
“Perdinci! Continuare a essere uguali come siamo adesso, solo, però, un po’ di più. Ognuno più uguale, e più cose fatte con l’elettricità, e che ognuno possa aver diritto a due voti invece di uno e…”.
“Grazie. È quello che si avvererà. Non vi è nient’altro a cui pensate? Non avete una religione?”.
“Oh, sì”.
“Quindi voi adorate un Dio?”.
“Sì”.
“E come lo chiamate?”.
“LA MAGGIORANZA”.
“Ancora una domanda: non le secca che le sto facendo tutte queste domande, vero?”.
“Macché. Questo fa parte delle mie tre ore di lavoro per lo Stato”.
“Ah, sono lieto di sentirlo. Non mi andava l’idea di sottrarle del tempo di riposo. Volevo solo chiederle: sono in molti qui a tentare il suicidio?”.
“No, una cosa del genere non accade mai”.
Guardai le facce degli uomini e delle donne che incrociavamo. Su tutte vi era un’espressione paziente, quasi patetica. Mi chiedevo dove l’avessi già vista; mi sembrava familiare.
Poi, tutt’a un tratto ricordai. Era giusto l’espressione rassegnata e vagamente stupita che ho sempre notato guardando i cavalli e i buoi che allevavamo nel vecchio mondo. No, questa gente non poteva pensare al suicidio.
***
Strano! Come sono velate e indistinte le facce intorno a me! E dov’è la mia guida? E che ci faccio seduto sul pavimento? E, accidenti, questa sicuramente è la voce della signora Biggles, la mia anziana padrona di casa. Avrà anche lei dormito per mille anni? Sta dicendo che è mezzogiorno. Solo mezzogiorno? Quindi non sarò lavato se non alle quattro e mezzo, e io che mi sento così accaldato con il capo che mi duole. Ma pensa! Mi trovo in un letto! Che sia stato tutto un sogno? Sono tornato nel diciannovesimo secolo?
Attraverso la finestra aperta sento il fracasso e la frenesia della battaglia tipica della vecchia vita. Gli uomini stanno combattendo, lottando, ritagliando la propria vita con la spada della forza e della volontà. Gli uomini stanno ridendo, soffrendo, amando, stanno compiendo azioni giuste e azioni sbagliate — cadendo, dibattendosi, aiutandosi l’un l’altro —, vivendo, insomma!
In quanto a me, oggi ho un buon affare da sbrigare che richiede un impegno di ben più di tre ore, il che significa che mi sarei dovuto alzare alle sette. Accidenti, come mi piacerebbe non aver fumato tutti quei sigari così forti l’altra notte!
Note:
(1) Ecco un esempio di humour britannico: dietro un’inoffensiva notazione autobiografica traspare la tesi secondo cui solo uno sfaccendato può diventare un ideologo utopista.
(2) Oltre a essere il nome di un casato della nobiltà francese, Montmorency è anche il nome dato al piccolo e terribile fox-terrier fra i protagonisti dell’opera pubblicata nel 1889, che dà all’autore un’enorme popolarità, Three Men in a Boat (To Say Nothing of the Dog) (Cfr. J. K. Jerome, Tre uomini in barca (per non dire del cane), trad. it., Rizzoli, Milano 2008). Anche in quel caso Montmorency, che fa parte di un gruppo di amici che decidono di fare una crociera sul Tamigi, agisce in condizioni di assoluta parità e con uguali diritti; tuttavia, a causa dei suoi esecrabili e non condivisibili gusti canini, si trova spesso in netta minoranza e, quindi, la sua opinione non viene presa in alcuna considerazione.
(3) Si tratta di dolci tipici inglesi. Il primo è un budino di pasta dolce arrotolata con marmellata e altro, il secondo un budino con uva passa.
(4) Il white ribbon, il nastro bianco, era già ai tempi dell’autore un simbolo dell’associazione British Women’s Temperance Association — ora White Ribbon Society — e della statunitense Women’s Temperance League, fondata da Eliza Daniel Stewart (1816-1908) nel 1872. Queste associazioni in passato hanno incoraggiato l’approvazione di leggi proibizioniste e propugnano uno stile di vita salutista: i suoi membri firmano una dichiarazione in cui si impegnano ad astenersi da alcol e tabacco. In Diary of a Pilgrimage, Jerome si esprime con estrema franchezza su questo tipo di posizioni: “I tedeschi mi piacciono […]. I predicatori contro l’uso del tabacco o dell’alcol e altri simili fanatici farebbero cattiva prova in Germania. Un tedesco non ha idee antinaturali. […] Se doveste accostare un tedesco, sollecitandolo a firmare un impegno di non bere mai più finché esiste un’altra goccia di birra, egli vi chiederebbe di ricordare che parlate a un uomo, non a un bambino o a un imbecille. […] Egli può comportarsi sensatamente senza mostrarsi sciocco. Può essere “temperato” senza legarsi addosso pezzi di nastro colorato per far sapere la cosa, e senza correre su e giù per le vie, sventolando una bandiera e gridando” (Cfr. Il Diario di un pellegrinaggio, 1891, trad. it., Sonzogno, Milano 1965, pp. 215-216, trad. variata).
(5) Come in italiano, la parola band, “banda”, può riferirsi tanto a una compagnia di persone quanto a una striscia di stoffa.