Charles A. Coulombe, Cristianità n. 429 (2024)
In occasione del ventesimo anniversario della beatificazione di Carlo d’Asburgo (1887-1922), ultimo imperatore d’Austria e re d’Ungheria e di Boemia, il 3 ottobre 2004, da parte di san Giovanni Paolo II (1978-2005), con il permesso dell’autore e dell’editore pubblichiamo, in una traduzione redazionale e con alcune variazioni concordate con l’autore stesso, il capitolo intitolato Pietas Austriaca del libro Blessed Charles of Austria. A Holy Emperor and his legacy, TAN Books, Gastonia (North Carolina) 2020, pp. 55-68. Roy-Charles Aquila Coulombe è uno storico, saggista e apprezzato conferenziere statunitense, esperto di storia della Chiesa e delle monarchie europee. Ha studiato teologia all’International Theological Institute, presso Vienna. È un collaboratore del portale Crisis Magazine e membro della Gebetsliga-Unione di Preghiera Beato Carlo per la Pace e la Fratellanza tra i Popoli. Su indicazione di san Giovanni Paolo II (1978-2005) è stato nominato cavaliere commendatore dell’Ordine di San Silvestro Papa per i servigi resi alla Santa Sede. Gli inserti fra parentesi quadre sono redazionali.
«Vienna è solo per un soffio seconda a Madrid nella celebrazione della processione del Corpus Domini. Negozi e luoghi d’affari sono tutti chiusi. L’imperatore d’Austria in persona prende posto in processione, disponendosi in fila subito dopo il clero, seguito dalla corte, dai ministri, dalle autorità municipali e dalle corporazioni commerciali. Ci sono pennacchi sventolanti, cavalli bardati, con l’intero nobile Corpo di guardia ungherese che scintilla nei suoi abiti medioevali. Vi sono benedizioni e genuflessioni alle stazioni successive; e, quando le croci e i simboli sacri vengono tenuti in alto, il popolo si inginocchia devotamente nel fango o nella polvere» (1).
Ogni monarchia cattolica ha sviluppato un proprio stile devozionale, e questo, in particolare, è certamente vero anche per la Casa d’Austria. Gli Asburgo avevano molto in comune con gli aristocratici correligionari di altre dinastie, ma alcune caratteristiche religiose erano loro peculiari. Nel loro insieme, le loro varie devozioni e forme di pietà furono denominate pietas austriaca. Frutto di una mescolanza di consuetudini monarchiche diffuse anche altrove, delle radici medioevali della famiglia, delle tradizioni locali radicate nei vari Paesi che avevano governato e, infine, del ruolo di difensori e rinnovatori del cattolicesimo da loro assunto durante la Controriforma, queste forme di devozione furono vissute pubblicamente da quasi ogni membro della famiglia Asburgo. Per alcuni — come Ottone Francesco [1865-1906], padre del beato Carlo [imperatore, 1887-1922], o il prozio di quest’ultimo, Ludovico Vittorio [1842-1919] — queste azioni erano forse vissute come mere formalità, un po’ come accade spesso oggi quando assistiamo ad atti di pubblica religiosità nell’anglosfera. Il più delle volte, tuttavia, l’adesione era ragionevolmente sincera. Nel caso del beato Carlo, questi si impegnò al massimo per viverle intimamente e farle proprie. Tanto che una comprensione sia pur limitata della pietas austriaca è una condizione necessaria per capire il carattere e la forma mentis di Carlo. Va anche ricordato che l’imperatrice-consorte [Zita di Borbone-Parma (1892-1989)], pur non essendo nata da una dinastia allora al potere, era comunque cresciuta nel ricordo della non tanto dissimile Religion Royale dei Borbone, della quale il rito dell’incoronazione costituiva un elemento centrale e di particolare pregnanza.
Ogni nazione cristiana ha tenuto questo rito in grande considerazione, in quanto esso combinava il sacramento dell’unzione e il giuramento di difendere la Chiesa con un analogo impegno solenne di difendere le leggi, i diritti e i territori del regno in questione; inoltre, il rito prevedeva l’investitura con i gioielli della Corona del Paese. Gli stessi regalia, ovverosia le insegne del potere, erano spesso intrisi di un profondo simbolismo che richiamava la storia e le tradizioni della nazione.
Nel Medioevo, a un sacro romano imperatore poteva capitare di prendere parte a ben quattro di questi riti: eletto a Francoforte, egli riceveva inizialmente la corona di Carlo Magno [742-814] ad Aquisgrana, la cittadina — pure nota con i toponimi Aachen e Aix-la-Chapelle — che Carlo Magno aveva scelto come capitale imperiale. Il neo-imperatore scendeva poi in Italia per essere incoronato, a Milano o a Pavia, re di quel Paese con la Corona Ferrea longobarda (2). Una terza incoronazione, ad Arles, in Francia, riconosceva la sovranità dell’imperatore sul Regno di Borgogna. L’ultimo imperatore a ricevere questa terza corona fu Carlo IV di Lussemburgo [1316-1378] nel 1355. Infine, una quarta incoronazione, stavolta dalle mani del Papa e, magari, in San Pietro a Roma, perfezionava l’acquisizione della carica imperiale. Dopo Carlo V [1500-1558], che ricevette sia la Corona Ferrea che quella imperiale a Bologna nel 1530, nessun altro Asburgo fu incoronato direttamente dal Papa re d’Italia o sacro romano imperatore. Carlo V fu anche l’ultimo a essere incoronato re ad Aquisgrana: a causa dell’ostilità e della prossimità della Francia a quella città, da allora e fino all’incoronazione di Francesco II [1768-1835] nel 1792, la cerimonia si svolse a Francoforte. Temendo che Napoleone Bonaparte [1769-1821] riuscisse a impossessarsi del trono del Sacro Romano Impero, Francesco assunse il titolo di imperatore d’Austria con il nome di Francesco I, abdicò al titolo precedente e sciolse l’antica entità per sottrarla alle grinfie del futuro genero.
Per i suoi successori non ci sarebbe stata alcuna incoronazione a Imperatore d’Austria. Gli Asburgo, tuttavia, nel 1815 ancora regnavano su tre Paesi che si gloriavano della celebrazione di quel rito: l’Ungheria, con la Sacra Corona di santo Stefano [969-1038]; la Boemia — un territorio grosso modo corrispondente all’attuale Repubblica Ceca —, con la Corona di San Venceslao [907 ca.-929/935]; e il Regno Lombardo-Veneto, che ancora conservava la suddetta Corona Ferrea. Ferdinando [1793-1895], salito al trono nel 1835, ricevette felicemente tutte e tre le corone. Per il nipote e suo successore Francesco Giuseppe le cose andarono diversamente: la Corona Ferrea era fuori discussione a causa delle progressive perdite di sovranità sui territori del Lombardo-Veneto. Inoltre, il nazionalismo ceco rese impossibile una sua incoronazione a Praga, sebbene il sovrano lo desiderasse. L’incoronazione ungherese del 1867 fu possibile al prezzo dell’Ausgleich e della creazione dell’Austria-Ungheria (3). Quando sarebbe giunta l’ora del beato Carlo, questi avrebbe vissuto l’investitura con la Sacra Corona di Santo Stefano come la consacrazione di un legame con l’Ungheria non meno indissolubile del matrimonio che lo univa a Zita. Carlo aveva in animo — una volta sopraggiunta l’agognata pace — di essere incoronato anche re di Boemia. È impossibile dire quanto significasse e quanto valesse questo rito per Carlo e Zita, i cui antenati — Borbone, Valois e Capeti — avevano ricevuto analoghe investiture a Reims.
Una volta incoronato, un Asburgo si sentiva responsabile non solo del benessere materiale dei propri sudditi, ma anche del bene delle loro anime; un peso, quest’ultimo, avvertito in forma più lieve dall’illuminista imperatore Giuseppe II [1741-1790], ma che tornò preminente con Francesco II. Ciò significava patrocinare gli ordini e i monasteri operanti in Austria una volta divenuti sovrani; basti pensare all’abbazia benedettina di Melk, a quella cistercense di Heiligenkreuz e all’agostiniana Klosterneuburg. Scoppiata la rivolta protestante, si consentì l’ingresso a nuovi ordini per far fronte alle varie necessità: i piaristi, gli ospitalieri e soprattutto i gesuiti, solo per citarne alcuni. A questi ultimi fu affidato la gestione delle scuole di élite; gesuiti furono spesso anche i confessori dell’imperatore regnante. Beneficiarono del patrocinio asburgico pure altri ordini: per esempio, i domenicani, i francescani, i carmelitani e i serviti. I fondi imperiali furono destinati alla costruzione di conventi e di chiese parrocchiali in tutti i domini asburgici, oltre che di ospedali e di altre strutture di assistenza. Per lo stesso motivo gli Asburgo, a mano a mano che acquisivano nuove terre ai turchi e ai polacchi, finanziavano la costruzione di chiese cattoliche ucraine, rutene, rumene e croato-serbe di rito bizantino. Purtroppo, però, proteggere la fede e salvare le anime a volte richiedeva misure più severe: da qui gli orrori della Guerra dei Trent’anni [1618-1648] — che sarebbe durata ventinove anni di meno in assenza di interventi esterni — e la conseguente messa al bando delle funzioni pubbliche protestanti, perché vi era il timore che i non cattolici potessero cospirare con i nemici degli Asburgo. Un timore che si rivelò giustificato ai tempi della Guerra di Successione austriaca del 1740-1748, visto il comportamento collaborazionistico di molti protestanti della Slesia nei confronti degli invasori prussiani. A noi moderni questo atteggiamento può sembrare esageratamente duro. Ma non mettiamo forse al bando e puniamo anche noi chi si fa portavoce di idee che consideriamo una minaccia per la società? Come spiegare, altrimenti, la criminalizzazione in Europa di chi nega l’Olocausto o la stigmatizzazione, negli Stati Uniti, dei cosiddetti hate-speech, i «discorsi d’odio»? Oggi la qualifica di «eretico» ha una valenza positiva e può essere addirittura un motivo di orgoglio, ma in tempi passati era oggetto della stessa diffusa riprovazione sociale che oggi si tributa a «razzista» o a «bigotto». Sicché, cercare di salvaguardare i propri sudditi da ciò che si considera il male, è una caratteristica dei governanti di ogni società.
Costituisce un aspetto non secondario della spiritualità asburgica anche l’attenzione al rispetto di quelli che possono essere definiti «obblighi ereditari» nei confronti di Roma, della Terra Santa e di varie missioni estere. Oltre alla difesa dello Stato Pontificio — che l’Austria non fu più in grado di garantire dopo la sconfitta inflittale dai franco-piemontesi nel 1859 — l’imperatore si sentiva tenuto a sovvenzionare diverse istituzioni educative e religiose a Roma: quelle legate alla Chiesa di Santa Maria dell’Anima — l’istituto ancora oggi si vanta di essere «[…] insieme al Principato del Liechtenstein l’ultimo residuo esistente del Sacro Romano Impero» (4); il Camposanto Teutonico; il Pontificio Collegio Croato di San Girolamo; il Pontificio Collegio Germanico e Ungherese; il Pontificio Collegio Boemo.
Come pure i re di Francia e di Spagna, alla stregua dei precedenti sacri romani imperatori, gli imperatori d’Austria rivendicarono il diritto di esercitare durante i conclavi lo jus exclusivae, cioè un diritto di veto. Non si arrogavano, cioè, il diritto di nominare il Papa, ma di dichiarare ineleggibile nel corso di un conclave un singolo cardinale se ritenevano la sua elezione contraria all’interesse del proprio Paese. Esercitato più volte nei secoli XVII, XVIII e all’inizio del XIX dalle tre potenze, quando il veto fu posto per l’ultima volta, nel 1903, era già considerato un istituto desueto, giacché non veniva più messo in essere dal 1846. In tale occasione, l’imperatore Ferdinando aveva posto due veti, ma il cardinale latore di uno dei due arrivò troppo tardi per entrare in conclave: tanto meglio, perché il secondo cardinale da dichiarare ineleggibile era Giovanni Mastai Ferretti [1792-1878], che divenne il beato Pio IX [1846-1878].
Analogamente al re di Spagna, al re di Sardegna e al re di Napoli, poi delle Due Sicilie — nonché ai duchi de La Trémoille, oggi rappresentati da un ramo dei principi di Ligne [Belgio] —, anche gli imperatori d’Austria rivendicavano, per ragioni genealogiche che è difficile ricostruire, il titolo di «re di Gerusalemme». L’alleanza della Francia con l’Impero Ottomano aveva dato a quel Paese quasi il monopolio della protezione dei cattolici di Terra Santa; una tutela esercitata, a dire il vero, abbastanza egregiamente. In ogni caso, Francesco Giuseppe prese molto sul serio i suoi obblighi nei confronti della Terra Santa. Nel 1854 fondò un ospizio austriaco a Gerusalemme su una proprietà individuata dal fratello Massimiliano [1832-1867] recandovisi nel 1869, anno in cui fu nominato cavaliere del Santo Sepolcro. Anche l’arciduca ereditario Francesco Ferdinando [1863-1914] si unì all’Ordine in Palestina.
Un altro ambito in cui l’Austria cercò di scardinare la supremazia religiosa e politica francese fu quello delle missioni estere. Non solo in Terra Santa, ma anche in tutto il resto dell’Impero Ottomano, in quello cinese e in molti altri luoghi, i francesi si erano pressoché aggiudicati l’esclusiva quanto alla tutela dei cattolici del posto. Sotto Francesco Giuseppe, comunque, la protezione e l’aiuto austriaco alla Chiesa poterono fiorire in situazioni e luoghi preclusi ai francesi. Nella Germania settentrionale e in Scandinavia, dove la Chiesa aveva cominciato timidamente a emergere dalle rovine della Riforma — grazie soprattutto al romanticismo —, gli austriaci finanziarono nuove chiese. Gli Asburgo fecero lo stesso in regioni dell’Impero Ottomano, come l’Albania e la Macedonia, dove non era previsto alcun sostegno francese. Negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo XIX l’imperatore contribuì in modo massiccio per sostenere, in quello che oggi è il Sudan meridionale, l’operato di uomini come Ignatius Knoblecher [1819-1858] e dei Missionari Comboniani. Di conseguenza, Papa Leone XIII [1878-1903] pose sotto la protezione austriaca il patriarcato copto-cattolico in Egitto, da poco rinato. Uno degli istituti missionari che maggiormente beneficiò della generosità imperiale fu l’Associazione Leopoldina che, fino al 1914, donò milioni di dollari alla Chiesa in difficoltà in un Paese lontano: gli Stati Uniti d’America. Fondata nel 1829, l’Associazione inviò al di là dell’Atlantico missionari di calibro, come il venerabile Frederic Baraga [1797-1868].
Espressioni concrete della pietà degli Asburgo erano e sono riscontrabili in tutti i loro ex possedimenti. Come ci si poteva aspettare, il centro visibile di questo «Impero» spirituale si trova nel suo cuore temporale: la Burgkapelle nel complesso viennese dell’Hofburg. Ancora oggi, la cappella ospita la Messa annuale e il capitolo dell’Ordine del Toson d’Oro, presieduto da Carlo d’Asburgo-Lorena, capo del Casato e nipote dell’imperatore Carlo. La vicina chiesa di Sant’Agostino, la Augustinerkirche, era sia la chiesa parrocchiale — e quindi la cappella nuziale — della famiglia, sia l’ultimo sepolcro dei loro cuori. Conformemente alle antiche usanze, i loro corpi venivano sepolti nella cripta imperiale al di sotto della chiesa dei Cappuccini a Vienna, mentre le loro viscere venivano inviate in una cripta della cattedrale di Santo Stefano, anch’essa un segno potente del patrocinio imperiale.
Nella piazza Am Hof di Vienna ancora oggi campeggia la Mariensäule, un’imponente colonna di bronzo sormontata da una statua della Madonna: ricorda l’intercessione della Vergine quando, nel 1645, l’invasione svedese fu scongiurata. In effetti, la devozione mariana era ed è una componente fondamentale della pietas austriaca. I santuari della Madonna punteggiano numerosi i territori dell’ex Impero, ma al centro di tutti loro vi è il grande santuario di Mariazell, che ospita un’immagine della Vergine chiamata Magna Mater Austriae: la «Grande Madre dell’Austria». Tale immagine è stata ed è venerata non solo dai membri della dinastia degli Asburgo e dagli austriaci, ma anche da ungheresi, cechi, slovacchi, sloveni, croati, polacchi e bosniaci.
All’inizio della Guerra dei Trent’anni Ferdinando II [1578-1637] condusse il suo esercito alla vittoria innalzando lo stendardo di Nostra Signora delle Vittorie (5); fu costretto a giustiziare un gruppo di ribelli cechi e si recò a Mariazell per pregare per le loro anime. Già nel 1598 aveva fatto voto alla Madonna di Loreto [Ancona] di liberare dall’eresia le terre che avrebbe ereditato; sulla scia della sua vittoria diffuse la devozione a Lei con questo titolo. Così come gli Asburgo posero sotto il manto della Vergine la loro lotta contro il peccato e l’eresia, lo stesso accadde in occasione delle varie guerre che combatterono contro i turchi. Per commemorare la liberazione di Vienna dall’assedio dei turchi avvenuta il 12 settembre 1683, poco più di un anno dopo Papa Innocenzo XI [1676-1689] inserì la festa del Santo Nome di Maria nel calendario universale. Nel 1696, un’icona della Vergine nella città cattolica bizantina di Pócs [oggi Máriapócs] iniziò a versare lacrime; quando pochi mesi dopo il principe Eugenio di Savoia [1663-1736] sconfisse i turchi a Zenta [nella Serbia settentrionale], la vittoria fu attribuita all’intervento di Maria e l’icona di Pócs fu portata nel duomo di Santo Stefano [a Vienna] dove è conservata tutt’ora. Poiché anche le vittorie conseguite dal principe Eugenio contro i turchi nel 1716, nonché la disfatta di questi ultimi [presso l’isola di] Corfù nello stesso anno, avvennero in giorni o periodi legati a festività mariane, furono in molti a pensare a un’intercessione della Regina del Cielo. Papa Clemente XI [1700-1721] le collegò alla vittoria di Lepanto, combattuta il 7 ottobre 1571, e decise in quell’anno di estendere la festa della Madonna del Rosario alla Chiesa universale. La presenza in quasi ogni grande città governata dagli Asburgo di pilastri sormontati da una statua della Madonna, cioè di «colonne di Maria» simili a quelle di piazza Am Hof, è una perdurante testimonianza del loro amore per la Vergine.
La venerazione nei confronti di Cristo stesso non è stata meno fervente. La collezione accumulata nel corso dei secoli dalla dinastia nella Camera del Tesoro dell’Hofburg comprendeva un certo numero di reliquie associate direttamente a Nostro Signore, fra cui diversi frammenti della Vera Croce. La devozione verso di essa costituì una componente importante della pietas austriaca. Naturalmente, in quanto sovrani d’Austria e protettori dell’abbazia di Heiligenkreuz, cioè della «Santa Croce», di tanto in tanto gli imperatori si recavano con i loro familiari a venerare anche il notevole frammento della Croce ivi custodito, dono di un duca di Babenberg che aveva partecipato alla terza crociata (1189-1192). In effetti, «crociata» è una parola che fu assai risonante fra gli Asburgo, visto l’impegno profuso nei secoli per combattere eretici e musulmani per la Croce di Cristo. Nel corso della ribellione dei protestanti boemi, che innescò la Guerra dei Trent’anni, un gruppo di nobili riottosi fece praticamente prigioniero l’imperatore Ferdinando II nell’Hofburg, provando a estorcergli sotto minaccia la firma di un decreto che concedesse loro la libertà di culto. Uno di loro osò afferrarlo per le spalle sbraitando in latino: «Scribet Ferdinandus!», «Ferdinando firmerà!». L’intimidazione, tuttavia, non raggiunse il suo scopo: proprio in quel momento arrivò la cavalleria imperiale e gli aguzzini di Ferdinando furono costretti a fuggire (6). Prima che i nobili facessero irruzione, l’imperatore in preghiera aveva udito il Crocifisso della sua cappella privata sussurrare distintamente: «Ferdinande, non Te deseram»: «Ferdinando, non ti abbandonerò!».
In ogni caso, la Croce rammentava agli Asburgo ciò che ci si attendeva da ciascuno loro se desideravano conquistarsi il Paradiso: ravvivare lo spirito di sacrificio per Dio e per i propri popoli. Altri elementi della loro collezione di reliquie erano pervasi di una simbologia analoga: la Sacra Lancia, per esempio, che si riteneva fosse quella che aveva trafitto il costato di Cristo, oppure la Coppa di agata che taluni avevano identificato con il Santo Graal, il recipiente in cui Gesù aveva per la prima volta transustanziato il vino nel suo sangue durante l’Ultima Cena, e che sarebbe stato usato il giorno seguente per raccogliere un po’ del sangue sgorgato dal suo costato.
Un’altra devozione asburgica di assoluta centralità è quella al Santissimo Sacramento. Da un lato, questa devozione aveva risvolti molto pubblici: si pensi alle processioni del Corpus Domini cui gli imperatori ordinariamente partecipavano. La gente del posto le chiamava «i balli di corte di Dio»: uniformi da soldato e costumi nobiliari, cavalieri e religiosi di vari ordini, funzionari civili, e dietro a tutto questo, sotto il baldacchino, l’Ostia nell’Ostensorio, a cui Chiesa e Stato rendevano il dovuto omaggio in questo giorno di festa. La stessa devozione, tuttavia, aveva anche aspetti molto privati: gli imperatori che si sono succeduti difficilmente mancavano di ritagliarsi del tempo da trascorrere in preghiera davanti al Santissimo Sacramento ogni volta che gli affari personali o pubblici lo richiedevano. Quasi non vi era occasione formale a corte che non prevedesse la celebrazione di una Messa.
La cerimonia prevista per il Giovedì Santo aveva un’importanza tutta particolare: come i re di Francia, Spagna, Portogallo, delle Due Sicilie, d’Inghilterra, Sardegna e Baviera, anche l’imperatore era personalmente coinvolto in un rito della lavanda dei piedi. Si trattava di uno degli eventi di corte più scintillanti e merita, perciò, il resoconto da parte di un testimone oculare: «Poco dopo le dieci la platea cominciò a riempirsi di decine e decine di ufficiali in uniforme completa, provenienti dai diversi reggimenti del regno, creando una scena che era imponente e sfolgorante insieme. Fra i presenti c’erano molti dei membri più illustri della corte austro-ungarica, tra cui ministri di Stato, arciduchi, generali di fanteria e cavalleria e viceammiragli della flotta da guerra. A chiacchierare con gli ufficiali in uniformi blu e scarlatte ricamate in oro c’erano i cavalieri di Malta con la croce bianca sulla manica e sul petto, gli ungheresi con alti stivali gialli e una pelle di leopardo gettata sulla spalla sinistra e, in netto contrasto con questi, gli aristocratici polacchi in fluenti abiti neri in lutto per il loro regno perduto. Nel palco reale in alto c’erano le dame di corte. Alle dieci e mezzo il clero è entrato nella sala, seguito dai dodici poveri più anziani di Vienna. Sono loro i protagonisti dell’evento che viene celebrato. L’abito che indossano richiama l’antica foggia tedesca: vestito nero, con colletto a mantellina e pantaloni al ginocchio bianchi.
«Molti degli anziani erano piuttosto deboli e furono aiutati a raggiungere le sedie da loro parenti che, durante la funzione, rimasero dietro di loro. Di prima mattina l’imperatore Francesco Giuseppe, accompagnato dal suo seguito, aveva assistito alla Messa solenne nella cappella reale e al suo ritorno era entrato nella sala, seguito dal cugino, dai nipoti e da un ampio corteo. L’imperatore, con indosso l’uniforme di generale di fanteria, prese subito posto a capotavola, facendo da tredicesimo commensale. Dietro, vi erano tredici membri della sua guardia del corpo. Poi apparvero da un’anticamera dodici nobili, ognuno dei quali portava un vassoio contenente la prima portata del banchetto che sarebbe stato servito agli ospiti del Kaiser.
«L’imperatore stesso pose le pietanze sulla tavola, ma, subito dopo, con l’aiuto di suo fratello e degli arciduchi, le collocò nuovamente sui vassoi tenuti dalle tredici guardie, che se le portarono via. Sarà stato un po’ duro per quei vecchi vedere quelle pietanze così invitanti portate via così rapidamente, ma in seguito apprendemmo che ognuno avrebbe ricevuto a casa propria tutto il cibo e i piatti preparati per l’occasione: si era infatti constatato che la cena era molto più gradita se consumata in quel modo piuttosto che davanti a un’assemblea così numerosa. Il pasto è stato preparato in modo eccellente e ben guarnito, servito in quattro portate, ognuna delle quali è stata presentata e rimossa nel modo descritto, dopodiché i tavoli sono stati portati via.
«Ai dodici anziani vennero poi tolte le scarpe e le calze e, sulle ginocchia di tutti loro, venne steso un lungo rotolo di lino bianco, dopodiché il cappellano iniziò a declamare il Vangelo del giorno. Alle parole “et coepit lavare pedes discipulorum” [Gv 13,5] l’Imperatore si inginocchiò, dando inizio alla cerimonia della lavanda dei piedi vera e propria, con un prelato che reggeva un bacile mentre un altro vi versava dell’acqua. L’imperatore continuò a inginocchiarsi fino a quando non ebbe compiuto questo gesto di umiltà per ciascuno dei dodici, dopodiché prese dei sacchetti di seta disposti in un’apposita guantiera e ne appese uno al collo di ciascuno degli anziani, i quali avrebbero trovato al loro interno trenta pezzi d’argento.
«Terminata la cerimonia, ci siamo trattenuti abbastanza a lungo per vedere questi onorati ospiti essere assistiti nelle carrozze reali per essere rimandati a casa sotto la custodia dei membri della guardia del corpo dell’imperatore. Portavano con sé una cassa di legno con le provviste e un grande fiasco di vino. Quando l’imperatrice è in sede, svolge un servizio simile per le dodici donne povere più anziane di Vienna; se non lo è, come è accaduto quest’anno, esse non sono presenti alla cerimonia, ma ricevono a casa la ricompensa reale loro destinata. Non è raro trovare in seguito questi doni reali in negozi di antiquariato: i destinatari originari spesso desiderano più i fiorini che riescono a procurarsi con quei doni che l’onore di continuare a possederli.
«Uomini e donne ultracentenari sono annualmente presi in considerazione per questo invito reale, ma di solito si riceve questo onore solo una volta nella vita. Quest’anno il più vecchio degli anziani aveva novantasei anni e il più giovane ottantotto» (7).
Neppure mancò alla pietas austriaca la devozione ai santi. Sebbene fosse un Babenberg, il margravio san Leopoldo III [1073-1136] fu venerato ben volentieri dagli Asburgo come patrono dell’Austria. La famiglia era inoltre devota al re santo Stefano d’Ungheria e a san Venceslao, duca di Boemia, oltre che a san Michele Arcangelo. A questi, si aggiunse dal secolo XVII san Giuseppe. Nel 1675, l’imperatore Leopoldo I [1604-1705] — che in seguito avrebbe subìto l’assedio di Vienna — nominò san Giuseppe co-patrono, insieme all’arcangelo Michele, del Sacro Romano Impero. Due anni dopo, lo dichiarò patrono anche della dinastia asburgica e lo onorò ulteriormente nel 1678 dando il nome di Giuseppe al figlio appena nato.
Queste devozioni erano tutte abbastanza consolidate, sia nel cattolicesimo sia fra gli Asburgo. Nel secolo XVII secolo ne sorse una relativamente nuova in Francia: quella al Sacro Cuore di Gesù. Tale devozione aveva sin da subito avuto qualcosa a che fare con la regalità: santa Margherita Maria Alacoque [1647-1690] rivelò che Gesù le aveva ordinato di suggerire a Luigi XIV di Francia [1638-1715] di apporre il Sacro Cuore sui suoi stendardi militari e di consacrarvi il suo Paese. Luigi non lo fece, ma molti altri monarchi presero sul serio la possibilità di una consacrazione: in Inghilterra, gli esiliati Giacomo II [1633-1701] e la consorte Maria Beatrice d’Este di Modena [1658-1718], e poi Augusto II [1670-1733] e Augusto III [1696-1763], elettori di Sassonia, re di Polonia e granduchi di Lituania; il loro rivale per i troni polacco e lituano, Stanislao Leszczyński [1677-1766]; Filippo V di Spagna [1683-1746]; Maria I del Portogallo [1734-1816]; Massimiliano III [1727-1777], elettore di Baviera; Maria Leszczynska [1703-1768], figlia di Stanislao e regina di Francia, in quanto consorte di Luigi XV [1710-1774]. Pur non riuscendo a convincere il marito, Maria comunicò il proprio amore al Sacro Cuore al figlio, il delfino Luigi Federico [1729-1765], e al figlio di lui che pure si chiamava Luigi [1754-1793]. Costui successe al nonno nel 1774 con il nome di Luigi XVI. Imprigionato nel 1792, giurò di consacrare la Francia al Sacro Cuore se mai fosse riuscito a tornare sul trono. Ahimè, fu condannato a morte dal tribunale rivoluzionario e morì ghigliottinato.
La Rivoluzione francese assassinò lui e la moglie asburgica. Il Sacro Cuore divenne allora il distintivo di molti fra i cattolici che la combatterono. Ciò vale soprattutto per la Vandea e il Tirolo: ancora oggi il Sacro Cuore è intimamente legato all’identità delle due regioni. La devozione al Sacro Cuore crebbe soprattutto fra i cattolici sensibili alle questioni politiche e sociali dell’epoca. I legittimisti francesi, i carlisti spagnoli e gli zuavi papali furono determinanti nel diffonderla. Ma fra i maggiori «frequentatori» reali del Sacro Cuore alla fine del secolo XIX ci fu Giorgio, re di Sassonia [1832-1904]. Fu lui a trasmettere tale devozione alla figlia Maria Josefa [1867-1944], destinata a diventare la madre dell’ultimo imperatore asburgico, il beato Carlo.
Charles A. Coulombe
Note:
1) William Shepard Walsh (1854-1919), Curiosities of popular customs and of rites, ceremonies, observances, and miscellaneous antiquities, 1898, Gale Research Co., Detroit 1966, p. 288.
2) Tale denominazione si deve al fatto che il materiale della cerchiatura interna fu ricavata da un chiodo fra quelli utilizzati per crocifiggere Cristo [La corona è oggi conservata nel duomo di Monza (ndr).]
3) Con il termine Ausgleich, «equiparazione», si indica la riforma costituzionale con la quale l’imperatore concedeva all’Ungheria una condizione di parità con l’Austria. Con il nome di Monarchia Austro-ungarica vennero creati due Stati distinti, uniti tuttavia dal vincolo dinastico e da tre ministeri (Esteri; Esercito e Marina; Finanze) (ndr).
4) Il testo è tratto dalla storia della Confraternita di Santa Maria dell’Anima sul sito in lingua tedesca del PISMA, Pontificio Istituto di Santa Maria dell’Anima, nel sito web <https://www.pisma.it/de/institut/bruderschaft>, consultato il 4-11-2024 (ndr).
5) Il riferimento è alla Battaglia della Montagna Bianca, combattuta l’8 novembre 1620 presso la collina Bilá Hora, attualmente inglobata nel tessuto urbano di Praga (ndr).
6) Cfr. Richard Bassett, For God and Kaiser: The Imperial Austrian Army, 1619-1918, Yale University Press, New Haven [Connecticut] e Londra 2015, p. 15.
7) Cit. in W. S. Walsh, op. cit., pp. 675-676.