di Maurizio Milano
Come illustrato in precedenza, le previsioni demografiche dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) per il 2050 dipingono un Paese di anziani ‒ il 34% sul totale della popolazione rispetto al già elevato 22,3% di oggi ‒, con pochissimi giovani, prevalentemente figli unici, senza né zii né cugini. L’allungamento delle aspettative di vita (già oggi sugli 83 anni) e la denatalità (il tasso di fertilità è di soli 1,34 figli per donna in età fertile, molto al di sotto del “tasso di sostituzione” del 2,1 necessario per garantire il ricambio generazionale) faranno sì che nel giro di una sola generazione l’Italia conterrà 60 anziani (oggi sono 35) ogni 100 persone in età lavorativa. Oltre agli evidenti rischi di implosione del sistema pensionistico, è il futuro della sanità pubblica a destare la maggiore preoccupazione, visto che già nel 2016 le spese sanitarie ammontavano a ben 112,5 miliardi di euro, pari al 6,7% del prodotto interno lordo (Pil) e al 13,6% della spesa pubblica totale.
I margini per accrescere l’efficienza, nell’assistenza del malato, sono limitati: anche investendo in strumentazioni evolute non si riesce infatti a ridurre più di tanto il numero del personale medico e infermieristico o il tempo necessario per le cure. Importanti ricuperi di efficienza riguardano invece la gestione burocratica e amministrativa, per la lievitazione dei costi dovuta a incompetenza, sprechi e malversazione. Se lo stesso servizio in una Regione italiana costa molto meno che in un’altra, l’adozione di una logica stringente di costi standard è imprescindibile per abbattere le spese, a parità di prestazioni. Puntare su un numero ridotto di hub ospedalieri di elevata qualità ‒ collegati con presìdi ospedalieri territoriali ‒ e ridurre il numero di piccoli ospedali di terz’ordine sparpagliati sul territorio nazionale con il contestuale rafforzamento dei punti di pronto soccorso locali, dovrebbe accrescere la qualità del servizio riducendone i costi.
Ma tutto ciò potrebbe non essere sufficiente: la riduzione del perimetro dell’intervento pubblico sarà probabilmente necessaria in un prossimo futuro, e il gap dovrà quindi essere coperto da assicurazioni sanitarie e strutture private. Come diceva il pensatore cattolico francese Gustave Thibon (1903-2001), «per voler spartire tutto con tutti, bisogna essere Dio ‒ oppure avere solamente del nulla da offrire» (cfr. Ritorno al Reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, prefazione di Gabriel Marcel [1889-1973], trad. it. a cura e con considerazioni introduttive di Marco Respinti, Effedieffe, Milano 1998, p. 261). Per inciso, ricordo che nei “Livelli essenziali di assistenza” ‒ le prestazioni e i servizi che il Sistema sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di un ticket ‒ rientrano anche l’aborto volontario, la fecondazione artificiale, le pratiche ormonali e il cambio di sesso: un costo scaricato sul contribuente per finanziare la “cultura della morte”, “prestazioni” costose di cui faremmo volentieri a meno.
La probabile, crescente limitatezza di risorse dovrebbe anche indurre a cercare altre vie per preservare la salute pubblica rispetto a quelle perseguite negli ultimi decenni. È ragionevole pensare che il ricorso massiccio ai farmaci non sia condizione necessaria ‒ e forse neppure favorevole ‒ per tutelare la salute. Secondo il padre della medicina, il greco Ippocrate (460-377 a.C.), è la prevenzione la cura migliore oltre che la meno costosa: perché non favorire un’alimentazione e uno stile di vita sano, per preservare il più a lungo possibile le persone in buona salute? Ridurre la morbilità libererebbe risorse da dedicare a chi effettivamente abbisogna di cure, riducendo i tempi di attesa e migliorando la qualità del servizio, oltre che giovare alla produttività del Paese. L’alternativa è una copertura “universalistica” solo sulla carta, con tempi e qualità in costante peggioramento.
Per evitare l’implosione dell’SSN, e non solo, occorre anzitutto fronteggiare immediatamente l’emergenza demografica, riconoscendo la famiglia come il soggetto economico e politico che solo può ricostituire il “capitale umano”, favorendo così la crescita materiale e morale del Paese. Urge l’introduzione del “quoziente familiare” e di buone politiche demografiche, certamente, ma per andare alla radice della crisi ‒ che è culturale e morale prima che economico-finanziaria ‒ è improrogabile la diffusione di una “cultura della vita” che superi lo scetticismo, la perdita di speranza e l’atomizzazione dominanti. Perché si avveri «il miracolo di un mondo migliore che nasce nel mondo che muore» occorre uscire dalla “logica dello scarto”, costantemente denunciata da Papa Francesco, e accogliere la vita sempre, dal concepimento naturale alla morte naturale. Così, l’«inverno demografico» ‒ espressione coniata dal teologo belga monsignor Michel Schoyaans nello studio, Le crash démographique: de la fatalité à l’espérance (Le Sarment-Fayard, Parigi) del 1999 ‒ sarà seguito, forse, da una “primavera demografica”. Ma non c’è più tempo da perdere.