Marco Invernizzi, Cristianità n. 203 (1992)
Intervista con don Lush Gjergji
Almeno sessanta tir — secondo la testimonianza di chi lavora in un passaggio della frontiera — hanno attraversato quotidianamente il confine italiano per portare generi di prima necessità e medicinali alla popolazione croata dall’inizio della guerra. Questa notevole opera di aiuti materiali rischia di diminuire dopo il riconoscimento dell’indipendenza di Croazia e di Slovenia, ottenuto il 15 gennaio 1992. Rischia soprattutto di venir meno quel poco di mobilitazione dell’opinione pubblica — peraltro quasi esclusivamente cattolica — che ha accompagnato i giorni del conflitto, cercando di unire gli aiuti materiali all’altrettanto necessaria opera di informazione sulle radici e sulle caratteristiche della questione jugoslava.
Ma, pur ammettendo che Croazia e Slovenia siano ormai avviate verso la soluzione del loro principale problema — senza dimenticare gli enormi costi della ricostruzione postbellica e il fatto che un terzo del territorio croato è occupato dal cosiddetto esercito federale, in realtà serbo-comunista —, rimane il problema delle altre Repubbliche e Regioni Autonome che costituivano l’ex Jugoslavia e che hanno richiesto di essere riconosciute come Stati sovrani: la Bosnia Erzegovina, la Macedonia, il Montenegro, la Voyvodina e il Kosovo.
Affronto questi problemi con don Lush Gjergji, parroco di Ferizaj, nel Kosovo, conosciuto soprattutto come biografo della sua compatriota madre Teresa di Calcutta, ma anche attento ai problemi relativi alla questione balcanica nella sua complessità (cfr. don Lush Gjergji, Calvario nel Kosovo: albanesi e cattolici in Jugoslavia, intervista a cura di Marco Invernizzi, in Cristianità, anno XIX, n. 193-194, maggio giugno 1991), che incontro il 22 febbraio a Milano, nella sede di Alleanza Cattolica.
D. A che punto si trova il riconoscimento richiesto dalle altre Repubbliche e Regioni Autonome dell’ex Jugoslavia?
R. La richiesta della Bosnia Erzegovina non è stata ancora accolta per la situazione di forte tensione che esiste in questa Repubblica. In essa, infatti, la popolazione serba ha già decretato, attraverso un “referendum per soli serbi”, di non voler uscire dalla Jugoslavia e di voler far parte della Grande Serbia; in pratica, è stata sancita la nascita di uno Stato serbo all’interno della Repubblica e l’opposizione al referendum sull’indipendenza della Bosnia Erzegovina indetto dalle autorità locali per il 29 febbraio 1992, al quale invece parteciperanno le altre due componenti principali della Repubblica, cioè i musulmani e i croati. La situazione è molto tesa, quasi un preludio di guerra civile.
Le stesse difficoltà si riscontrano in Macedonia, dove la nuova Costituzione del 1991 — voluta soltanto dal popolo macedone — non fa alcuna menzione degli albanesi, circa il 40% della popolazione della Macedonia, e delle altre componenti della Repubblica. Gli albanesi hanno così indetto un referendum, al quale hanno partecipato 350.000 cittadini, che ha espresso la loro richiesta di ottenere l’autonomia all’interno della Macedonia.
Lo stesso Montenegro — la Repubblica più vicina alla Serbia — ha indetto un referendum per poter verificare se diventare uno Stato sovrano e indipendente o continuare a essere, così com’è, all’interno della Jugoslavia insieme con la Serbia.
Credo che prima o poi dovrà emergere la questione della Serbia stessa, nel senso che il governo di Belgrado non può pretendere di rappresentare la continuità giuridica dell’ex Jugoslavia, ma dovrà anch’essa chiedere di essere riconosciuta come nuovo Stato, e allora si dovrà affrontare il problema degli albanesi del Kosovo. Ricordo infatti che il mio paese è abitato al 90% da albanesi, ma che l’esercito e la polizia federale hanno imposto la chiusura delle scuole di ogni grado perché i professori non accettano di insegnare utilizzando i programmi serbi e usando la lingua serba; inoltre, pur essendo una Regione Autonoma all’interno della Serbia, il Kosovo ha dovuto subire lo scioglimento del proprio parlamento e il suo governo oggi è costretto a vivere in esilio in Slovenia.
D. Quindi i riconoscimenti del 15 gennaio non hanno favorito anche l’indipendenza degli altri popoli dell’ex Jugoslavia?
R. I riconoscimenti avvenuti il 15 gennaio, seppure tardivi, rappresentano una vittoria e un passo avanti, ma la pace si otterrà soltanto quando tutti i popoli della regione avranno avuto giustizia.
Nel mio paese la situazione è peggiorata, se possibile; la chiusura dei nostri confini con la Macedonia, e di quelli di quest’ultima con la Grecia, hanno bloccato il commercio e così adesso mancano anche i generi alimentari, anche se la penuria di generi alimentari colpisce la Macedonia e la Serbia ancor più che il Kosovo.
Tutto questo contribuisce all’aumento della repressione nel nostro paese, soprattutto da quando la Serbia si sente ancora più isolata nella regione, in seguito al rifiuto della Bosnia Erzegovina, della Macedonia e anche del Montenegro di costituire con essa una confederazione che in qualche modo continui l’esperienza della Jugoslavia.
D. Si è avuta notizia — anche se i grandi mezzi di comunicazione non hanno dato risalto al fatto — di scontri con morti albanesi nelle ultime settimane.
R. È accaduto in un villaggio vicino a Klina, nei pressi di Peja, dove i genitori avevano radunato i ragazzi in alcune case private per farli studiare e così superare il blocco della scuola imposto dalle autorità serbe. La polizia ha anche caricato e picchiato con manganelli i bambini che partecipavano a queste lezioni suppletive. Durante questo attacco sono stati uccisi tre genitori che accompagnavano i ragazzi.
Recentemente il mio vescovo, S. E. mons. Nike Prela, e io siamo venuti in Europa per spiegare la situazione della nostra terra e per difendere i diritti umani non soltanto nella loro dimensione personale, ma anche familiare e nazionale. Infatti il blocco delle scuole, dopo il licenziamento di oltre centomila lavoratori albanesi, costituisce un problema che coinvolge tutti gli abitanti del Kosovo, non soltanto alcuni singoli. Devo dire che abbiamo trovato una grande solidarietà nelle nostre comunità all’estero. Grazie ai loro aiuti, tramite l’Associazione Umanitaria Madre Teresa — che dirigo — riusciamo a sfamare mensilmente tremila famiglie e altre settemila si rivolgono a noi periodicamente per avere i generi alimentari indispensabili. Altre diecimila famiglie vengono aiutate una tantum.
D. Riesce a vedere una via d’uscita?
R. L’unica speranza di una soluzione a breve termine mi sembra risieda nella possibilità di rivolgimenti interni alla Serbia. Bisogna aiutare l’opposizione a uscire allo scoperto per organizzare l’insofferenza della popolazione, che indubbiamente esiste, anche se attualmente rimane silenziosa. Ritengo che il popolo serbo abbia capito di essere la prima vittima di questa guerra e bisogna così aiutarlo affinché ne chieda conto alla propria classe dirigente.
Nel frattempo possiamo soltanto resistere e cercare di rafforzare il legame della Chiesa con il popolo. Allo scopo abbiamo aumentato le ore settimanali di catechismo per i giovani, anche per supplire alla chiusura delle scuole, e a queste lezioni partecipano anche i musulmani, che continuano a vedere la Chiesa come custode dell’identità del popolo.
D. Recentemente vi è stato un peggioramento nel rapporto con la Chiesa Ortodossa.
R. Pochi giorni dopo il riconoscimento di Croazia e di Slovenia, si è svolto un Sinodo della Chiesa Ortodossa Serba, che ha rilasciato dichiarazioni sconcertanti contro la “politica fascistoide” della Santa Sede e ha parlato di “egemonismo tedesco” in Europa. Spero siano considerazioni dettate dal clima della guerra e che presto verranno abbandonate. È certo però che oggi il presidente serbo Slobodan Milosevic assume posizioni moderate e si copre dietro l’estremismo del presidente della Kraina, il cosiddetto “Stato serbo in Croazia”, Milan Babic, e del patriarca. Speriamo che l’incontro ecumenico fra vescovi cattolici e ortodossi avvenuto a San Gallo, in Svizzera, dal 21 al 23 gennaio 1992, e la ricerca del dialogo dimostrata dal Sinodo sulla nuova evangelizzazione, tenuto dai vescovi cattolici europei a Roma dal 28 novembre al 14 dicembre 1991, contribuiscano a migliorare un rapporto che attualmente è avvelenato dall’ideologia nazionalcomunista del progetto “grande serbo”.
a cura di Marco Invernizzi