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La Resistenza afgana contro la «tregua» sovietica

10 Febbraio 1987 - Autore: Alleanza Cattolica

Cristianità n. 142 (1987)

Le ragioni in un rapporto redatto sulla base delle informazioni regolarmente trasmesse alla CIRPO-France dal comandante Mansur Ahmadzai, responsabile delle forze combattenti nella regione del Logar.

 

Un ennesimo inganno sventato

La Resistenza afgana contro la «tregua» sovietica

 

L’improvviso arrivo a Kabul del ministro sovietico Eduard Scevarnadze — un uomo con quasi vent’anni di servizio nel KGB e nel MVD, la polizia del ministero dell’Interno — e di Anatoli Dobrinin, il capo dell’orchestra Rossa mondiale, cioè del dipartimento internazionale del Partito Comunista dell’unione Sovietica, richiama a più di un titolo quello di una delegazione dell’URSS a Budapest, nel 1956, qualche giorno prima dell’invasione dei carri armati, oppure a Praga, nel 1968, alla vigilia della repressione.

Esso si verifica «per caso» a ridosso dell’apertura di un importante vertice islamico nel Kuwait, e a sei settimane dalla ripresa, a Ginevra, dei «negoziati» sull’Afghanistan, sotto l’egida dell’ONU. 

I mujaheddin non hanno avuto un attimo di esitazione: il portavoce dei loro sette movimenti principali, corrispondenti all’ottantatrè per cento degli effettivi della Resistenza attiva, respingeva subito l’apparente tregua proposta da Mohamed Najibullah, il proconsole del KGB a Kabul.

I resistenti afgani, fino a ieri poco informati relativamente alla storia di paesi lontani, hanno rapidamente imparato e compreso che il progetto Najibullah assomiglia come una brutta copia ai piani di «coalizione» che, dopo il 1946, hanno permesso sempre ai comunisti di prendere il potere «dolcemente» nell’Europa Centrale; oppure che, dopo il 1962, hanno permesso sempre ai comunisti di dominare allo stesso modo il Laos, e così via.

Essi sanno pure che l’URSS ha gettato sul loro paese non soltanto la sua rete politico-militare — costituita dal KGB più centoventimila soldati —, ma anche la sua rete economica per cui il sessanta percento della produzione e della distribuzione di energia elettrica e il sessanta per cento della produzione industriale dell’Afghanistan sono direttamente controllati dai sovietici. Gli occupanti hanno devastato con il napalm e con prodotti chimici intere province in cui i terreni erano coltivati e forniscono dunque dall’URSS, con il contagocce, grano, zucchero e olio; il novanta per cento degli autocarri in circolazione è di provenienza e sotto controllo sovietico, e così via.

Un «governo di coalizione» come potrebbe essere in qualche modo indipendente oppure realmente sovrano finché dureranno questa dipendenza e questi controlli? Come accettare riconciliazione e amnistia da un governo che esiste solamente grazie al volere di Mosca, dopo che i suoi assassini e i suoi carnefici hanno massacrato e deportato per più di sette anni? Come credere alla sincerità dell’URSS finché i suoi rappresentanti ufficiali controllano a tal punto l’amministrazione dell’ONU che dell’ultimo rapporto redatto per questo organismo da Felix Ermacora è stata proibita la diffusione, salvo estratti amputati?

In tale rapporto si parlava di torture sotto controllo di consiglieri sovietici; di uomini, di donne e di bambini gettati dagli elicotteri, con gli occhi bendati, legati come pacchetti, da dieci a quindici metri d’altezza, contro le rocce, senza parlare, quali che siano le smentite di Mosca, di prove dell’uso di gas tossici, raccolte, per esempio in provincia di Bamian, dall’équipe di un medico svizzero al di sopra di ogni sospetto, dall’agosto all’ottobre del 1986.

Il colonialismo sovietico deve cessare. Le sue truppe devono ritirarsi senza condizioni. L’Assemblea dei Responsabili dei Mujaheddin, poi la Loie Jirga, la «Grande Assemblea», che già nel 1964 aveva approvato la nuova Costituzione dell’Afghanistan, decideranno da sole l’avvenire del paese e la forma e la composizione del suo futuro governo.

Conférence Internationale des Résistances
en Pays Occupés
Ufficio afgano 

Parigi, 3 gennaio 1987 

 

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