Come l’etica protestante non ha prodotto lo spirito del capitalismo
di Massimo Martinucci
Secondo un recente sondaggio britannico il libro “più citato che letto” è il famosissimo 1984 di George Orwell (Eric Arthur Blair, 1903-1950). In Italia leggo che la palma spetterebbe ad Umberto Eco (1932-2016) con il romanzo Il nome della rosa, che molti affermano di aver letto mentre probabilmente hanno visto il film o addirittura soltanto un suo trailer. Nell’ambiente culturale lato sensu di area cristiana sono convinto che accanto a Il principe di Niccolò Machiavelli (1469-1527) — ma quanti di quelli che ne parlano citando “il fine giustifica i mezzi” hanno letto il trattato? — abbia un posto altrettanto rilevante in questa speciale classifica il sociologo tedesco Max Weber (1864-1920) con il suo famoso L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, universalmente considerato una affermazione del fatto che il capitalismo in Europa, e con esso la floridezza economica che ne derivò per tutte le classi sociali, nacque dalla Riforma.
Non è proprio così: Weber non era affatto uno sprovveduto e sapeva bene che il capitalismo era nato ben prima che le 95 tesi di Martin Lutero (1483-1546) comparissero nel 1517 sulla porta della cattedrale di Wittemberg: ma pur avendo sempre affermato di non aver preteso di dare una spiegazione delle cause della nascita del capitalismo ma solo di aver messo in evidenza alcune analogie tra la mentalità capitalistica affermatasi nel mondo moderno e l’etica del protestantesimo, giunge comunque a conclusioni affrettate attribuendo a questa meriti del tutto discutibili.
Afferma il filosofo e aforista colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) — In margine a un testo implicito, Adelphi, Milano 2001, pag. 68 — che «ciò che non è complicato è falso» ma sembra che l’economista tedesco non ne abbia tenuto conto operando una semplificazione addirittura ingenua. Il sociologo statunitense Rodney Stark — citando lo storico belga Henri Pirenne (1862-1935) nell’Introduzione del volume La Vittoria della Ragione. Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza, Lindau, Torino 2006 — spiega che «tutte le fondamentali caratteristiche del capitalismo — impresa individuale, evoluzione nel credito, profitti commerciali, speculazione, ecc. — si troveranno dal XII secolo in poi nelle città-stato italiane: Venezia, Genova o Firenze», dove erano presenti almeno in parte le principali condizioni per la nascita dell’economia moderna: passione per la scienza, libertà politica e proprietà privata. C’è da chiedersi non tanto se queste condizioni erano presenti nel mondo protestante che Weber prende a modello (l’Inghilterra del XVII secolo) — il che ovviamente non dimostrerebbe nulla — ma piuttosto se queste condizioni fossero dovute al protestantesimo.
Ancora nell’ottimo libro di Stark leggo che il capitalismo nato nei “Secoli bui” declinò nei paesi cattolici nel XVII secolo per l’instaurarsi di condizioni sfavorevoli quali il dispotismo che limitò la libertà politica e le conseguenti difficoltà per la proprietà privata; nel frattempo in Inghilterra e Olanda invece continuava a prosperare favorito da una serie di condizioni del tutto indipendenti dalla Riforma e precedenti ad essa quali la grande disponibilità di materie prime, la libertà imprenditoriale ed altre ancora.
Avanzo una ipotesi: non è che il capitalismo nei paesi protestanti abbia trovato terreno favorevole quando i governanti hanno seguito maggiormente gli insegnamenti del Vangelo e, per contro, nei paesi cattolici abbia avuto difficoltà quando questi insegnamenti sono stati maggiormente disattesi? Per fare il bene sociale, in ambito economico come in ogni altro campo, non è sufficiente dichiararsi cristiani, ma occorre anche esserlo, e comportarsi come tali: non dovrebbe essere questo un grande insegnamento per i sedicenti cristiani della nostra epoca?
Giovedì, 17 settembre 2020