di Francesco Pappalardo
1. La scoperta
L’arrivo nell’isola di Guanahaní – poi San Salvador – della piccola flotta capitanata dal genovese Cristoforo Colombo (1451 ca. -1506), il 12 ottobre 1492, segna l’inizio della scoperta, della conquista e dell’evangelizzazione delle Americhe. Non si tratta, dunque, di un semplice rinvenimento – come nel caso del probabile arrivo di un gruppo di vichinghi nell’America Settentrionale verso la fine del secolo X, che non ebbe alcuna conseguenza per il continente -, ma di un atto che pone le premesse di un’integrazione razziale, culturale e spirituale unica nella storia.
L’impresa di Colombo s’inserisce nel quadro dell’espansione europea dei secoli XIII-XVI, che vede protagonisti soprattutto portoghesi e spagnoli, i quali solcano con entusiasmo mari sconosciuti e affrontano i pericoli dei viaggi verso l’ignoto, animati anzitutto dal desiderio di ampliare le frontiere della Cristianità. Nell’ammiraglio genovese e in coloro che lo seguono non sono da trascurare le motivazioni economiche e la ricerca di orizzonti più ampi, anche in relazione al serrarsi del Mediterraneo Orientale per l’avanzata dei turchi ottomani, ma un peso notevole hanno pure le aspirazioni religiose, cioè il desiderio di convertire gli indigeni e di reperire fondi per la riconquista di Gerusalemme. Se il progetto crociato del grande navigatore non viene realizzato, non si può dimenticare che l’oro del Nuovo Mondo servirà a finanziare la resistenza contro i turchi.
La spedizione guidata da Colombo segue immediatamente il compimento della Reconquista, cioè del processo di liberazione della penisola iberica dai musulmani, iniziato nel secolo VIII e concluso con la presa di Granada, il 2 gennaio 1492. L’entusiasmo per la vittoria spiega anche perché i Re Cattolici, Isabella di Castiglia (1451-1504) e Ferdinando d’Aragona (1452-1516), consapevoli della grande missione della Spagna – difendere e diffondere il messaggio cristiano in Europa e nel mondo – accogliessero il progetto, apparentemente irrealizzabile, del navigatore genovese: andare dalla Spagna alle Indie “passando il Mare Oceano a Ponente”.
2. La conquista
A partire dal secondo viaggio di Colombo – realizzato fra il 1493 e il 1496 – la visione idilliaca delle Indie, che aveva caratterizzato fino ad allora le relazioni degli scopritori, viene meno tragicamente con l’uccisione di tutti i compagni dell’ammiraglio da parte degli indios. Ha inizio la conquista, il cui fine principale è sempre l’evangelizzazione, che prevale su altri fini del tutto leciti, come l’onore e la grandezza della Spagna, nonché la ricerca di ricchezze e di profitti materiali. L’ideale missionario, applicato alle nuove terre, costituisce l’humus dal quale scaturisce un tipo umano forse irripetibile, quello dei conquistadores. Figli di una terra dove si era appena conclusa la crociata contro i mori, ma in cui sopravviveva lo spirito che l’aveva ispirata, molti di essi attraversano l’oceano animati da un sogno di conquista e di gloria, fondato sulla volontà di ampliare i confini della fede cristiana e i domìni della Corona spagnola.
La conquista, soprattutto nella fase iniziale, è una sorpresa per tutti, risultando come la conseguenza non di un piano preciso, ma di una serie di reazioni di fronte a situazioni impreviste o d’iniziative di pochi audaci, come quella di Hernán Cortés (1485-1547) nei territori dell’attuale Messico. Inoltre, solo per le comunità del Centroamerica e dell’America andina si può parlare di vera e propria conquista, perché i nuovi arrivati non si misurano con organizzazioni primitive ma con autentici Stati, caratterizzati peraltro da inspiegabili assenze sul piano economico e tecnologico – la ruota, l’allevamento, la lavorazione del ferro, l’arco e la volta nelle costruzioni – o da presenze sinistre, come il cannibalismo, i sacrifici umani, la schiavitù. Questi elementi spiegano sia l’intransigenza e il furore dei conquistadores – che inorridiscono di fronte a oscure idolatrie, nei cui templi scorreva sempre sangue -, sia la facilità della conquista. Infatti, i regni e gli imperi indigeni, costruiti a prezzo di guerre sanguinosissime e fondati sulla tirannia e sulla crudeltà, portavano in sé i germi della propria distruzione: l’inaridimento culturale e l’instabilità politica, a causa della turbolenza dei popoli sottomessi, la cui presenza a fianco degli spagnoli capovolge le sorti della guerra e la trasforma in una carneficina.
Una diffusa letteratura antispagnola e anticattolica – nata nel Cinquecento in ambienti protestanti e alimentata ancor oggi da movimenti indianisti ed ecologisti, gruppi neomarxisti e terzomondisti, nonché frange cattoliche progressiste – continua a presentare la conquista come un “genocidio”, ma la storiografia ha mostrato la falsità di questa leggenda nera. “Usciti troppo bruscamente dal loro isolamento – scrive lo storico francese e calvinista Pierre Chaunu –, gli Indiani d’America non soccombettero sotto i colpi delle spade in acciaio di Toledo, ma sotto lo choc microbico e virale”. La catastrofe demografica dei popoli amerindi ha la sua causa nelle grandi epidemie, provocate dal contatto fra due realtà biologiche estranee, e non in una presunta politica razzista e di sterminio messa in opera dagli spagnoli, i quali, invece, avevano tutto l’interesse a garantire la sopravvivenza dei nativi e favoriscono la fusione fra vincitori e vinti. Significativamente l’Iberoamerica è la sola delle Americhe dove, ancor oggi, la razza indiana e i suoi meticci costituiscono la grande maggioranza della popolazione, dimostrando fra l’altro, grazie all’irrisorietà dell’insediamento di neri africani, che la Spagna ricorse in modo molto limitato all’importazione di schiavi nel Nuovo Mondo. Anche le denunce del domenicano Bartolomé de Las Casas (1474-1566) – subito confutate dal missionario francescano Toribio da Benavente (1490 ca.-1569) – si sono rivelate eccessive e inaffidabili, così da non poter essere utilizzate come fonti storiche esclusive e attendibili.
In realtà, nella conquista non colpiscono tanto gli abusi e gli errori iniziali – caratteristici di tutte le vicende umane – quanto la grande capacità di autocritica, unica nella storia della colonizzazione mondiale, che era la conseguenza di una profonda coscienza cristiana. Di fronte alle deviazioni la voce della Chiesa si leva dal primo momento attraverso la denuncia da parte dei missionari, le elaborazioni dottrinali dei teologi e dei giuristi, la sollecitudine dei sovrani spagnoli, che prendono numerosi provvedimenti in difesa degli indios, anzitutto le leggi di Burgos, promulgate dall’imperatore Carlo V d’Asburgo (1500-1558) nel 1519, due anni prima delle denunce di padre Las Casas. In particolare, la testimonianza della Scuola di Salamanca e le celebri ralazioni sugli indios, del domenicano Francisco de Vitoria (1483-1546), rappresentano un encomiabile sforzo di porre i fondamenti teologici e filosofici di una colonizzazione secondo princìpi ispirati all’etica cristiana.
3. L’evangelizzazione
Al momento di finanziare l’impresa di Colombo la regina Isabella spera di condurre altri popoli alla vera fede e non bada né a spese né a difficoltà per onorare gli impegni assunti con Papa Alessandro VI (1492-1503), che aveva concesso ai sovrani il dirito di patronato sulle nuove terre in cambio di precisi doveri di evangelizzazione. Ne consegue uno spiegamento missionario senza precedenti, che dà presto una nuova configurazione alla realtà ecclesiale universale, proprio nel momento in cui le convulsioni religiose in Europa provocavano gravi divisioni nella Cristianità, e che costituisce, secondo le parole di Papa Giovanni Paolo II, “una delle pagine più belle di tutta la storia dell’evangelizzazione portata a compimento dalla Chiesa”.
Protagonisti di questa epopea sono innanzitutto i missionari – altamente selezionati e dotati di grande libertà d’iniziativa di fronte alle autorità civili -, quindi la Corona spagnola, cioè i sovrani e gli organi di governo, fra cui il Consiglio delle Indie, infine tutti gli spagnoli giunti nel continente – conquistadores e coloni -, i quali, nonostante i limiti del loro operato, erano consapevoli di aprire la strada alla diffusione del messaggio di Cristo.
L’azione evangelizzatrice opera in tre direzioni convergenti: l’irradiazione della fede e della cultura cristiana, il salvataggio delle lingue e delle tradizioni del continente americano, la civilizzazione delle popolazioni locali. Sotto il primo aspetto i missionari fanno fruttificare i semi di religiosità presenti nelle credenze dei popoli indigeni attraverso l’elaborazione di nuovi metodi di catechesi, la creazione di parrocchie di indios, dove costoro venivano istruiti nella verità della fede cristiana e ricevevano i sacramenti, e la preparazione di catechismi bilingui o pittografici.
Di fronte al lento progresso dell’evangelizzazione dei primi anni – rivolta a popoli idolatri e lontani culturalmente dalla mentalità europea -, i missionari comprendono che è necessario conoscere a fondo la mentalità e la cultura indigena per presentare il Vangelo nel modo più adeguato. Con un lavoro di autentica premessa all’inculturazione essi studiano le istituzioni, gli usi e i costumi degli indios, raccolgono con amore le testimonianze culturali amerinde più antiche – dando inizio alla moderna etnografia – e apprendono gli idiomi locali, dedicandosi anche alla stesura di grammatiche, di vocabolari e di frasari di conversazione. In questo modo fanno compiere alle lingue indigene, fino ad allora soltanto orali, un incommensurabile salto qualitativo, elevandole all’astrazione della scrittura alfabetica, che dà loro la possibilità di superare l’arcaica struttura che le caratterizzava e di pervenire alla cultura riflessiva.
Infine, i conquistadores e i missionari procedono a un vero e proprio atto di fondazione, erigendo città e creando istituzioni di governo, e realizzano una fondamentale opera di civilizzazione, analoga a quella compiuta dalla Chiesa in Europa durante il Medioevo cristiano. Costruiscono case e chiese, promuovono l’agricoltura e l’allevamento degli animali, creano scuole di arti e mestieri, aprono ospedali – il primo di questi, fondato in Messico da Cortés, nel 1521, è attivo ancor oggi – e numerosissimi centri di carità, fondano collegi e università, la prima delle quali a Santo Domingo, nel 1538, a meno di cinquant’anni dalla scoperta.
L’opera di evangelizzazione e di civilizzazione degli indigeni favorisce anche la creazione di un grande patrimonio artistico, frutto dell’incontro fra la cultura cattolica e la sensibilità delle popolazioni locali. Il monastero medioevale del secolo XVI, la cattedrale rinascimentale del secolo XVII e la chiesa barocca del secolo XVIII illustrano le tappe dello sviluppo architettonico nel continente americano, così come alcuni capolavori pittorici, soprattutto quadri raffiguranti soggetti originali, come le Vergini mulatte e gli arcangeli archibugieri di Cuzco, in Perú, e le statue dei dodici profeti nel santuario del Bom Jesús, a Congonhas do Campo, in Brasile, opera dell’architetto e scultore Antonio Francisco Lisboa (1730-1814), raffigurano visivamente tale incontro fra l’iconografia cristiana e le tradizioni di quei popoli.
L’integrazione fra vincitori e vinti è annunciata dall’apparizione della Vergine Maria all’indio Juan Diego (1474-1544) nel dicembre 1531, sulla collina di Tepeyac, presso Città di Messico, appena dieci anni dopo l’impresa di Cortés. Il volto meticcio della Vergine di Guadalupe prefigura la nascita di una nuova e originale civiltà, esito non di una violenta sovrapposizione ma di una felice sintesi, che si realizza sotto il segno del cattolicesimo, senza incontrare le difficoltà proprie della colonizzazione di marca protestante. Si compie così la fondazione dell’Iberoamerica, una realtà nuova, generata dalla fusione delle tradizioni greco-romana, iberica e cattolica con gli elementi più vitali del mondo precolombiano. I paesi del Nuovo Mondo non costituiranno infatti colonie ma province d’oltremare del regno di Spagna che, insieme con l’impero portoghese, come sottolinea il pensatore e giurista brasiliano José Pedro Galvão de Sousa (1912-1992), perpetuerà per alcuni secoli la tradizione dell’impero missionario medioevale. Oggi la metà dei membri della Chiesa cattolica abita il continente iberoamericano, definito da Papa Giovanni Paolo II – nella lettera apostolica Los caminos del Evangelio, del 29 giugno 1990 – “il Continente della speranza”.
Per approfondire: Marco Tangheroni e Maurizio Parenti, Cristoforo Colombo, ammiraglio genovese e “defensor fidei”, in Cristianità, anno XX, n. 203, marzo 1992, pp. 11-17; Pierre Chaunu, L’espansione europea dal XIII al XV secolo, trad. it., Mursia, Milano 1979; Alberto Caturelli, Il nuovo mondo riscoperto. La scoperta, la conquista, l’evangelizzazione dell’America e la cultura occidentale, trad. it., Ares, Milano 1992; Jean Dumont, Il Vangelo nelle Americhe. Dalla barbarie alla civiltà. Con un’appendice sul processo di beatificazione della regina Isabella la Cattolica, trad. it., con una prefazione di M. Tangheroni, Effedieffe, Milano 1992; e Giulio Dante Guerra, La Madonna di Guadalupe. Un caso di “inculturazione” miracolosa. In appendice “Preghiera per la Vergine di Guadalupe” di Papa Giovanni Paolo II, Cristianità, Piacenza 1992.