Marco Invernizzi, Cristianità n. 148-150 (1987)
Il quadro drammatico di una persecuzione volta a eliminare ogni attività e ogni struttura dei cattolici e, anzitutto, a distaccarli da Roma.
In contrasto con presentazioni edulcorate
La situazione della Chiesa cattolica in Vietnam
Alla fine degli anni Settanta, il Partito Comunista Vietnamita mette a punto un documento a diffusione interna dal titolo Il nostro compito nei confronti della Chiesa cattolica. In esso i comunisti vietnamiti vengono sollecitati a perseguire l’obbiettivo di «operare per la riforma della Chiesa, trasformarla a poco a poco in una organizzazione religiosa che rispetta la politica e la legislazione dello Stato, animata dal patriottismo, vicina alla nazione e al socialismo, il tutto affinché non ostacoli il movimento rivoluzionario delle masse» (1).
Dopo la «liberazione» socialcomunista
In un articolo che riassume la situazione della Chiesa in Vietnam dopo la vittoria delle forze comuniste nel 1975 e che fa stato di tale situazione a tutto il 1986, padre Piero Gheddo — direttore di Mondo e Missione, la rivista mensile del PIME, il Pontificio Istituto Missioni Estere di Milano — descrive i risultati conseguiti dall’attuazione della politica del partito comunista nei confronti del mondo cattolico vietnamita nel corso dell’ultimo decennio (2). I dati forniti in abbondanza, e il quadro generale della Chiesa in Vietnam che ne emerge, confermano l’autenticità del documento riservato e descrivono i caratteri della persecuzione anticattolica nel paese, indiretta, culturale e amministrativa, che attribuisce «una grande importanza alla politica di divisione» (3) all’interno della Chiesa stessa.
«Non si può dire che in Vietnam vi sia oggi un’aperta persecuzione contro la Chiesa — scrive il missionario —, come c’è stata e c’è tuttora contro il Buddhismo, quasi totalmente sradicato in dieci anni, fra l’indifferenza generale dell’opinione pubblica internazionale»; infatti, «per la Chiesa cattolica il processo di controllo dello stato è stato assai più lento», ma ha portato a risultati significativi come la riduzione dei sacerdoti liberi dai 2.500 del 1975 a un numero oscillante fra 1.500 e 2.000, e la chiusura dei trentasei seminari diocesani e religiosi che nel 1975 ospitavano 4.399 seminaristi e 1.056 teologi. Attualmente ne rimangono in funzione soltanto due, uno a Saigon e uno ad Hanoi, entrambi con un numero chiuso di seminaristi, così che, «mentre in passato nel Sud Vietnam venivano ordinati non meno di 100 sacerdoti diocesani l’anno e una trentina di religiosi, oggi non c’è più nemmeno una ordinazione sicura all’anno» (4).
A questi elementi bisogna aggiungere la «mancanza di libertà per preti e vescovi nel visitare i loro fedeli» a causa di autorizzazioni concesse con straordinaria parsimonia e soltanto al clero valutato come malleabile da parte del regime, nonché la soppressione di «tutta una rete di strumenti di apostolato, che in undici anni è stata completamente soffocata: due quotidiani e più di 300 settimanali e riviste, scuole per un milione di alunni, una università cattolica a Dalat, 80 librerie e una trentina di tipografie, centri di ritiri spirituali, oratori, case religiose, 27 ospedali e decine di dispensari medici, tre centri di formazione dei catechisti, ecc. Non s’è salvato nulla, eccetto le chiese parrocchiali, quelle ancora rimaste aperte. Così pure i movimenti laicali di Azione Cattolica e le varie associazioni a livello parrocchiale sono stati tutti sciolti: non sono più permesse riunioni di alcun genere, eccetto che per il culto e l’insegnamento del catechismo solo nelle chiese e in orari ben definiti» (5).
La repressione anche contro i vescovi
Si devono anche ricordare i numerosi processi intentati a sacerdoti e a religiosi per «attività contro-rivoluzionarie»; in particolare, due vescovi sono stati oggetto della politica repressiva del governo comunista: «Il primo, vescovo ausiliare di Saigon (mons. Van Thuân), fu incarcerato subito dopo la “liberazione” perché era a capo della Caritas vietnamita ed aveva aiutato i profughi dal nord Vietnam e dalle zone “liberate” dei vietcong a risistemarsi in terre nuove controllate dal governo di Thieu: tale azione fu giudicata contro-rivoluzionaria. Ora mons. Thuân, liberato dopo dieci anni di carcere duro, vive a residenza sorvegliata in una parrocchia presso Hanoi» (6).
Il secondo vescovo colpito dalla repressione governativa è l’arcivescovo di Hué, mons. Philippe Nguyen Kim Diên che, insieme ai due vescovi delle diocesi meridionali di Ban Me Thuote e di Long Xuyen, è stato sottoposto a lunghi ed estenuanti interrogatori «dal 5 aprile fino al 15 ottobre 1984», per essersi «opposto pubblicamente alla costituzione del “Comitato di Unione fra cattolici patrioti del Vietnam”, sospendendo “a divinis” alcuni suoi sacerdoti che vi avevano aderito […]. Poi condannato a residenza sorvegliata, cioè impossibilitato a governare la diocesi» (7), mons. Philippe Nguyen Kim Diên soltanto due giorni dopo la sua liberazione ha indirizzato una lettera pastorale ai fedeli della propria diocesi ricordando loro che «bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini» (8).
Il viaggio in Vietnam di S.E. mons. Luigi Bettazzi
In questa nazione — a proposito della quale «si può affermare che il primo decennio dopo la “liberazione” del Sud Vietnam è stato usato dallo stato per controllare e reprimere la Chiesa, gradualmente, senza fare martiri, restringendo gli spazi di libertà sempre per motivi di ordine pubblico, di “organizzazione produttiva”, di inquadramento rivoluzionario di tutta la popolazione» (9) — S.E. mons. Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, durante l’estate del 1987 compie un viaggio «come turista, guidato ovunque da agenti turistici ufficiali, ma godendo di una relativa libertà», e dalla visita nasce un diario, pubblicato su Avvenire nello stesso giorno in cui tale quotidiano riporta la notizia dell’arresto di quaranta fedeli, fra i quali si trova il superiore generale della Congregazione vietnamita della Madonna Corredentrice, padre Dominic Tran Dinh Thun (10).
Interrogativi, perplessità e stupore
Alcune affermazioni di mons. Luigi Bettazzi sono tali da suscitare interrogativi, semplicemente sulla base di elementi di fatto: per esempio, il presule di Ivrea sostiene «che, a differenza di altri Paesi a regime comunista, in Vietnam nessuno, né all’interno della Chiesa né da parte del governo, ha mai progettato o minacciato una qualche separazione da Roma» (11) , mentre proprio mons. Philippe Nguyen Kim Diên, nella lettera pastorale scritta dopo il suo rilascio da parte delle autorità del regime, afferma che durante gli interrogatori «l’argomento che si può dire principale era il Comitato di Unione dei Cattolici Patrioti del Vietnam, il CUCPV» (12), e inoltre, come scrive ancora padre Piero Gheddo, molti sacerdoti, che inizialmente avevano aderito a tale comitato, «si sono poi ritirati quando, ad un incontro nella capitale Hanoi, il vice-presidente del Comitato, p. Vuong Dinh Ai, concelebrando la Messa aveva omesso la preghiera del Canone per il Sommo Pontefice: l’omissione è stata interpretata, unita ad altri segni, come espressione di volontà di scissione da Roma» (13).
Un altro interrogativo nasce spontaneo quando mons. Luigi Bettazzi afferma che «il governo vietnamita […] ha sempre concesso ai vescovi di venire a Roma per la periodica “visita ad limina”, per la partecipazione ai Sinodi episcopali ed anche per le riunioni “plenarie” delle varie Congregazioni romane da parte di alcuni vescovi vietnamiti che ne fanno parte» (14), mentre sempre padre Piero Gheddo fa notare «che mai, dalla “liberazione” ad oggi, si è avuta […] una riunione di cattolici provenienti da tutto il paese», fatta eccezione appunto per il caso della fondazione del Comitato di Unione fra i Cattolici Patrioti del Vietnam, avvenuta ad Hanoi il 10 novembre 1984 con delegati della Chiesa scelti dal partito comunista in ogni diocesi, cioè esattamente 142 sacerdoti, 11 religiose e 146 laici; che «la stessa Conferenza episcopale, costituitasi a livello nazionale nel 1980, si è riunita solo tre volte: nell’atto di costituirsi (1980), nel 1983 e nel 1985. Così pure, la visita dei vescovi vietnamiti al Papa (“ad limina”), ha potuto realizzarsi solo nel 1980, quando vennero a Roma tutti i 38 vescovi del Vietnam riunificato. Nell’ultima visita “ad limina ’’ (1985) sono venuti solo tre vescovi, i due di Hanoi e Saigon e quello di Qui-Nhon (in sostituzione del terzo arcivescovo, di Hué, che è a residenza sorvegliata e impossibilitato a muoversi da casa propria)» (15).
La relazione di viaggio di mons. Luigi Bettazzi suscita perplessità anche per il credito da lui concesso alla «liberalizzazione» in campo economico e politico e nell’atteggiamento verso i cattolici, liberalizzazione che sarebbe da collegare al mutamento dei gruppi dirigenti del Partito Comunista Vietnamita e dello Stato deciso dal VI congresso del partito tenutosi ad Hanoi dal 15 al i8 dicembre 1986 (16).
Stupisce pure, nel testo del vescovo di Ivrea, l’invito a essere «anche buoni cittadini, dando così testimonianza di impegno e di solidarietà» (17), da lui rivolto ai seminaristi di Saigon: esso desta perplessità non in sé — evidentemente — ma in quanto non è accompagnato da un minimo cenno di inquietudine relativamente alla realtà totalitaria con la quale dovrebbero essere solidali e verso la quale dovrebbero impegnarsi. Ma stupisce soprattutto il silenzio su quanto la Chiesa e il popolo vietnamita hanno dovuto sopportare nel corso di oltre dieci anni di regime comunista, così come l’assenza di ogni e qualsiasi riferimento a un fenomeno della drammaticità e della portata del boat people, costituito dalle centinaia di migliaia di vietnamiti che preferiscono affrontare il rischio della morte in mare o per mano dei pirati e, comunque, l’incertezza di una vita da profughi piuttosto che continuare a sopportare una condizione esistenziale evidentemente invivibile per l’uomo comune (18).
Diplomazia e silenzio
Si può forse immaginare che la testimonianza di mons. Luigi Bettazzi sia stata originata da un viaggio non privo di intenti — o di reali significati — diplomatici, intesi a favorire lo sviluppo di una condizione che possa restituire alla Chiesa in Vietnam almeno parte del maltolto e un poco di libertà. Anche pensando che quello sia stato il significato implicito o esplicito della visita, il diario che ne è derivato non è evidentemente un documento diplomatico e comunque esula dalla pratica della pur necessaria diplomazia, che mai può giungere a far credere una situazione diversa da com’è. Se non si può dire tutto, piuttosto che falsare il reale è meglio allora tacere.
Marco Invernizzi
Note:
(1) [PARTITO COMUNISTA VIETNAMITA], Il nostro compito nei confronti della Chiesa cattolica, in Quaderni di «Cristianità», anno 1, n. 3, inverno 1985, p. 87. Il documento è stato tradotto in francese in Échange France-Asie. Service Information MEP nel 1982, con la significativa premessa redazionale di averne decisa la pubblicazione «solo dopo avere avuto garanzie certe della sua autenticità. Come altri testi di questo tipo a noi noti non è datato. Tuttavia, la critica interna permette di situarlo prima dell’inizio del 1980 […] e dopo il 14 agosto 1978. Poiché la stesura è stata terminata il giorno della festa nazionale, si può verosimilmente datarlo il 2 settembre 1978, forse il 2 settembre 1979» (ibid., p. 84). Il documento è stato parzialmente tradotto in italiano in Mondo e Missione, anno 112, n. 4, febbraio 1983, pp. 136- 139.
(2) PADRE PIERO GHEDDO, Vietnam: il martirio di una Chiesa, in Communio, anno XII, n. 92, marzo-aprile 1987, pp. 69-78, contributo a un numero monografico sulla persecuzione.
(3) [PARTITO COMUNISTA VIETNAMITA], doc. cit., p. 88.
(4) PADRE P. GHEDDO, art. cit., pp. 72-73.
(5) Ibid., pp. 73-74.
(6) Ibid., pp. 73-75.
(7) Ibid., p. 75.
(8) MONS. PHILIPPHE NGUYEN KIM DIÊN, «Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini», lettera pastorale del 17-10-1984, in Cristianità, anno XIII, n. 118, febbraio 1985.
(9) PADRE P. GHEDDO, art. cit., p. 14.
(10) Cfr Avvenire 11-8-1987.
(11) Ibidem.
(12) MONS P. NGUYEN KIM DIÊN, doc.cit.,
(13) PADRE P. GHEDDO, art. cit., p. 75.
(14) Avvenire, cit.
(15) PADRE P. GHEDDO, art. cit., p. 74.
(16) Il rapporto politico del Comitato Centrale del Partito Comunista Vietnamita al VI Congresso fornisce utili indicazioni per comprendere la lettura comunista della presunta liberalizzazione — anche se di per sé ciò non significa che un mutamento non sia in atto, data la strutturale ambiguità del linguaggio comunista —: «L’attuale VI congresso del partito conferma il proseguimento della linea generale della rivoluzione socialista e della linea diretta ad edificare l’economia socialista, stabilite dal IV e dal V congresso del PCV. Il contenuto fondamentale della linea rivoluzionaria del partito è la coerente realizzazione della dittatura del proletariato, lo sviluppo del diritto del popolo lavoratore all’organizzazione collettiva dell’economia […].
«Nella fase iniziale, il compito delle trasformazioni socialiste è quello di assicurare al settore socialista, la cui base è costituita dal settore pubblico, le posizioni preminenti nell’economia nazionale. Per ciò che concerne gli altri settori, occorre liquidare quello capitalistico privato nella sfera della circolazione, e utilizzare e trasformare gli altri settori adottando le forme e i metodi necessari. Occorre lottare costantemente contro le tendenze alla crescita spontanea del capitalismo e contro gli aspetti negativi dell’attività economica dei settori non socialisti» (Notizie dei Partiti Comunisti. Bollettino d’informazione, anno VII, n. 4 (127), Editrice Internazionale «Pace e Socialismo», Praga 1987, pp. 15-16).
(17) Avvenire, cit.
(18) «Dal 1975 in Malaysia sono arrivati 215.140 vietnamiti, stando a quelli registrati» (L’Osservatore Romano, 11-2-1987). Ma la fuga continua: «Circa 2.500 profughi vietnamiti hanno lasciato in marzo le coste del loro Paese su imbarcazioni di fortuna, il doppio rispetto al mese di febbraio, mentre il numero di coloro che partono con documenti regolari è stato di 1.256. È quanto risulta dalle ultime statistiche dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Hcr)» (Gazzetta Ticinese, 8-5-1987); «Più di 3700 “boat people” sono fuggiti dal Vietnam in giugno» (la Repubblica, 4-9-1987). Secondo il rappresentante in Europa di una organizzazione di vietnamiti in esilio, dottor Tran Duc Tuong, «quasi un milione di vietnamiti […] hanno lasciato il paese come boat people» nel decennio successivo alla vittoria comunista (A dieci anni dalla caduta di Saigon: il Vietnam sotto il dominio comunista, in Quaderni di «Cristianità», anno I, n. 2, estate 1985, p. 79), e a questi bisogna aggiungere il numero di «oltre un milione di vietnamiti […] internato in un sistema di più di centocinquanta campi, sottocampi e prigioni» (MARIO VILLANI, I campi di «rieducazione» nel Vietnam sotto il giogo comunistico, in Cristianità, anno XII, n. 105, gennaio 1984).