Miguel Cardinal Obando Bravo, Cristianità n. 134-135 (1986)
Secondo la massima autorità ecclesiastica del paese
La situazione in Nicaragua e possibili soluzioni alternative
Sollecitato da The Washington Post a descrivere in un articolo la condizione del suo popolo, S.E. il cardinale Miguel Obando Bravo, arcivescovo di Managua, ha risposto con una lettera – che presentiamo integralmente in una traduzione redazionale dall’originale spagnolo – pubblicata dal quotidiano statunitense nella sua edizione del 12 maggio 1986 con il titolo Nicaragua: The Sandinistas Have «Gagged and Bound’s Us» – «Nicaragua: i sandinisti “ci hanno legati e imbavagliati”» -, tranne l’importante passo evidenziato. In seguito alla violenta campagna di denigrazione contro il porporato messa in atto nel paese centroamericano dalle autorità comuniste dopo tale pubblicazione – campagna nel corso della quale il presule è stato accusato di «tradimento della patria» -, il 15 maggio il testo della lettera è stato proposto all’organo di stampa del regime, Barricada, ma l’offerta non pare sia stata gradita, dal momento che non ha avuto seguito.
Managua, 7 maggio 1986
Signor Stephen S. Rosenfeld
Deputy Editorial Page Editor
The Washington Post
Washington, D.C.
Stimato Signor Rosenfeld,
ho ricevuto il suo messaggio, che mi chiedeva un articolo su La situazione in Nicaragua e possibili soluzioni alternative. Il suo messaggio è stato ricevuto domenica 13 aprile, nel momento stesso in cui terminavo di celebrare la santa messa, e la mia prima decisione è stata quella di non accogliere la sua richiesta. Non dovevo confondere la mia missione pastorale con altre, che – anche se molto nobili, come quelle di politico o di giornalista – differiscono da quella che mi ha affidato Nostro Signore. Ma non sono neppure obbligato al silenzio. Come uomo, come cittadino, come cristiano, e anche come vescovo, ho certi doveri che devo compiere e sono questi che mi portano a rispondere alla sua richiesta.
Nella messa che avevo finito di celebrare, avevo dovuto dare la notizia, con grande dolore nell’animo, che uffici della Curia, occupati dalla Pubblica Sicurezza dall’ottobre del 1985, erano stati ora confiscati con decreto governativo, nonostante fossero stati costruiti su terreni di proprietà della Nunziatura Apostolica.
In tali uffici funzionava una piccola tipografia, dono dell’episcopato tedesco, che è stata utilizzata per l’edizione del nostro bollettino Iglesia, uno strumento di divulgazione puramente intraecclesiale. Tanto la tipografia che il bollettino sono stati sequestrati dalla Pubblica Sicurezza, insieme a tutti gli archivi, compresi i registri di battesimo e il mio sigillo personale.
Nel corso di questa messa, avevo dato lettura della lettera pastorale scritta da noi vescovi del Nicaragua in occasione della Settimana Santa. Il pulpito era a quel punto la nostra unica possibilità di diffusione, dal momento che la lettera era stata completamente censurata e tolta dalle pagine del quotidiano La Prensa, unico quotidiano privato del paese, che ha tentato invano di pubblicarla. Supponiamo che la causa della censura sia stato il fatto che, per la seconda volta, chiamavamo tutti i nicaraguensi alla riconciliazione e al dialogo come via verso la pace.
Avevo anche annunciato che in questa domenica [i fedeli] non avrebbero trovato in chiesa il foglietto domenicale, con le preghiere e i testi propri del giorno, perché era stato confiscato e che non avrebbero potuto neanche leggere sul quotidiano La Prensa la mia omelia domenicale, che – con il titolo La voce del nostro Pastore – veniva pubblicata su tale quotidiano da molti anni, dal momento che anch’essa era stata censurata, nonostante la nostra particolare cura di escludere da essa qualsiasi elemento che anche remotamente potesse fornire giustificazione a una censura.
Radio Católica, l’unica stazione radio cattolica, era stata chiusa dallo Stato alcuni mesi prima. La sua richiesta è giunta in questi momenti in cui la Chiesa si trova imbavagliata e ammanettata.
La lettura del giorno, tratta dagli Atti degli Apostoli, aveva avuto come tema un episodio che aveva già scosso la mia coscienza. Riferisce che il Sinedrio mandò a chiamare Pietro e Giovanni con il proposito di obbligarli a tacere. «Ma Pietro e Giovanni replicarono: “Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato”» (Atti 4, 18-20).
Ho sentito allora che dovevo proclamare la verità e denunciare come un profeta, anche a rischio di essere una «voce che grida nel deserto». Spiegherò a chi ha orecchio per udire la difficile situazione della nostra Chiesa e il serio pericolo che corriamo per il solo fatto di levare la nostra voce.
Mi viene in mente ora l’episodio narrato da Matteo nel suo capitolo 22: «Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo [Gesù] in fallo nei suoi discorsi». Il metodo utilizzato consistette nel fare ipocritamente appello alla sua autorità spirituale dicendogli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità … Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?». Gesù si rese conto della loro intenzione maliziosa e disse: «Ipocriti, perché mi tentate?».
La storia si ripete e questa è la situazione dell’episcopato nicaraguense, che denunciamo nella nostra recente lettera pastorale. Si fa appello alla nostra autorità morale e alla condizione di guide spirituali di un popolo e ci si chiede una dichiarazione su un tema politico estremamente delicato, ma in verità non si desidera un orientamento di ordine morale, ma la manipolazione di una dichiarazione.
Se Gesù risponde che si deve pagare tributo a Cesare, diventa un collaborazionista con l’imperialismo romano invasore. Se risponde di no, diventa un criminale e un agitatore che attenta contro le leggi del paese. Se non risponde nulla, perde la sua autorità agli occhi del popolo.
Da noi si pretende una dichiarazione contro l’aiuto del governo nordamericano agli insorti. I mezzi di comunicazione statali, le organizzazioni di massa al servizio del sistema e i suoi alleati della cosiddetta Chiesa Popolare e il ministro degli Esteri della repubblica, padre Miguel Escoto, si uniscono per chiedere a gran voce una nostra dichiarazione. Ma, come abbiamo detto, non cercano un orientamento di ordine morale, dal momento che in diverse occasioni il nostro episcopato si è già pronunciato contro ogni ingerenza straniera, sia essa nordamericana o sovietica (lettera pastorale del 22 aprile 1984). Si ha intenzione di manipolare una dichiarazione.
Se si è impedita a ogni costo la diffusione di tutti i nostri orientamenti precedenti, questa dichiarazione avrebbe una grande pubblicità internazionale. Non interessa che la ascolti il popolo fedele, interessa che la ascolti il Congresso nordamericano, ma noi non siamo Pastori del Congresso nordamericano.
Se appoggeremo l’aiuto militare agli insorti, ci si potrà perseguire come traditori della patria. Se ci pronunciamo contro, si otterrà il risultato di farci prendere partito, il che ci squalificherebbe automaticamente come Pastori di tutto il popolo. Se taceremo, il nostro silenzio verrà giudicato colpevole, complicità silenziosa.
Qualcuno potrebbe argomentare che i vescovi nordamericani si sono pronunciati più di una volta su temi che hanno ripercussione nel campo della politica. Ma esiste una grande differenza: le loro dichiarazioni, emesse liberamente, sono dirette al loro proprio gregge e intendono dare un orientamento di ordine morale. Possono farlo con ogni libertà, spiegare ampiamente le loro ragioni con libero accesso ai mezzi di comunicazione e le loro parole non sono censurate, mutilate o deformate. Ma, soprattutto, le loro dichiarazioni non li fanno diventare criminali traditori della patria.
In. Nicaragua, chiunque dissenta dalla causa sandinista può essere messo fuori legge mediante una maliziosa distorsione della verità: il governo, con tutti i mezzi a sua disposizione, si è curato di convincere il mondo intero che quanto è in gioco è essenzialmente un attacco diretto degli Stati Uniti al nostro paese; che vi è una guerra, aperta o coperta, tra i due paesi e che, di conseguenza, ogni forma di aiuto materiale oppure morale al nemico è punibile per legge.
Con uguale interesse e intensità [i sandinisti] respingono l’analisi secondo cui si tratta di un conflitto fra Est e Ovest, che ha trasformato il nostro paese in una carta da giocare, in una pedina, nel gioco delle superpotenze, e la realtà della guerra civile, cioè il fatto che esiste una enorme massa di nicaraguensi che si oppongono con tutte le loro forze all’indirizzo assunto da una rivoluzione che ha tradito le aspettative dei nicaraguensi e anche le sue stesse promesse.
Accettare la realtà di un conflitto Est-Ovest significherebbe accettare che i sandinisti sono strumenti degli interessi sovietici come possono esserli degli Stati Uniti le forze insorte. Se si accetta questo, l’aiuto degli uni è condannabile quanto quello degli altri, oppure è ugualmente necessario il ritiro dei consiglieri sovietici e cubani, come il ritiro di ogni aiuto militare statunitense.
Se si accetta la realtà di una lotta intestina fra nicaraguensi, si dovrebbe concludere che i dissenzienti ribelli sono oggi nella posizione in cui un giorno sono stati gli stessi sandinisti e che, di conseguenza, hanno lo stesso diritto che essi ebbero di sollecitare da altre nazioni l’aiuto che, a loro volta, essi stessi hanno sollecitato e ottenuto per combattere una spaventosa dittatura.
Accettare questo significherebbe dare agli insorti il titolo di «ribelli», che essi stessi ostentarono con orgoglio in quei giorni.
In contrario si potrebbe solo argomentare che, a differenza della dittatura somozista combattuta in modo quasi unanime da tutti i nicaraguensi, quello attuale è un governo democratico, legittimamente costituito, che, ponendo gli interessi del popolo nicaraguense al di sopra di ogni lotta ideologica o di ogni causa internazionale, persegue il benessere e la pace del popolo, e può contare sul sostegno della sua enorme maggioranza.
Purtroppo anche questo non è vero. Accettarlo come una verità indiscutibile significa negare l’esodo massiccio degli indiani miskito, che a un certo punto sono fuggiti a migliaia accompagnati dal loro vescovo monsignor Salvador Shlaeffer, e anche di decine di migliaia di nicaraguensi di ogni età, sesso, professione, condizione economica o militanza politica. Significa negare che molti di coloro che dirigono o militano nella contro-rivoluzione sono stati un tempo militanti oppure alti esponenti del Fronte Sandinista o ministri del suo governo. Significa negare la mancanza di ogni possibile giustificazione alla più terribile violazione della libertà di stampa e di espressione che abbia conosciuto il nostro paese. Significa negare la progressiva e soffocante restrizione delle libertà pubbliche, con la copertura di una legge di emergenza nazionale senza termine, e la violazione costante dei diritti umani. Significa negare l’espulsione di sacerdoti, l’esodo massiccio di giovani in età di servizio militare … Niente di questo genere succede dove un governo può contare sulla simpatia e sull’appoggio generale del popolo.
E questo è quanto denuncia l’episcopato nicaraguense.
«È urgente e decisivo che i nicaraguensi, liberi da ingerenze o da ideologie straniere, trovino una via d’uscita alla situazione conflittuale in cui vive la nostra patria».
Oggi riaffermiamo con rinnovata enfasi quanto dicevamo già nel 1984 nella nostra lettera pastorale del 22 aprile, Pasqua di Risurrezione: «Potenze straniere approfittano della nostra situazione per fomentare lo sfruttamento economico e lo sfruttamento ideologico. Ci guardano come oggetto di appoggio al loro dominio, senza rispetto per le nostre persone, per la nostra storia, per la nostra cultura, e per il nostro diritto di decidere il nostro proprio destino.
«Di conseguenza, la maggioranza del popolo nicaraguense vive timorosa del presente e insicura quanto al proprio futuro, prova una profonda frustrazione, invoca la pace e la libertà, ma la sua voce non viene udita, smorzata dalla propaganda di guerra dell’una e dell’altra parte.
«Pensiamo che ogni forma di aiuto, qualunque sia la sua fonte, che porti alla distruzione, al dolore e alla morte delle nostre famiglie, oppure all’odio e alla divisione tra i nicaraguensi, sia condannabile. Optare per l’annientamento del nemico come unica possibile via verso la pace significa inevitabilmente optare per la guerra».
La Chiesa propone come unica soluzione vera la riconciliazione attraverso il dialogo come via verso la pace, e chiarisce, usando le parole di Sua Santità Giovanni Paolo II nel corso della sua visita in El Salvador, nel marzo del 1983, che questo dialogo «non è una tregua tattica per rafforzare posizioni nella prospettiva della prosecuzione di una lotta, ma lo sforzo sincero di rispondere con la ricerca di soluzioni opportune all’angoscia, al dolore, alla stanchezza, alla fatica di tanti e tanti che anelano alla pace. Tanti e tanti che vogliono vivere, rinascere dalle ceneri, cercare il calore del sorriso dei bambini, lontani dal terrore e in un clima di convivenza democratica».
Questo è il testo incorso nella censura del governo sandinista.
Ci si chiede di pronunciarci contro l’aiuto nordamericano alle forze insorte. Si comporterebbe male un padre se, di fronte a due figli che si stanno battendo a morte, si adoperasse per disarmarne uno solo, senza prima promuovere la riconciliazione e il dialogo per disarmarli entrambi. Ancora di più, se gli si chiede di disarmare quello che ha un pugnale, per lasciarlo indifeso di fronte a quello che ha una spada.
Questa è la situazione del Nicaragua, la situazione della Chiesa e la situazione del nostro episcopato, che si adopera per dirigere la Chiesa attraverso acque agitate, ma più guidato dallo Spirito che dalle scienze naturali degli uomini e dalla politica, che sembrano non avere soluzioni per problemi così profondi. Siamo in una situazione difficile, ma confidiamo e riposiamo nel Signore Gesù, Principe della Pace e Signore della Storia.
La ringrazio della sua gentile offerta affinché sia possibile la pubblicazione di questa lettera, che è diretta ai cristiani e a tutti gli uomini di buona volontà.
Miguel Cardinal Obando Bravo
Arcivescovo di Managua