Giovanni Cantoni, Cristianità n. 305 (2001)
Articolo ampiamente anticipato, senza note e con il titolo Ancora un passo lungo la strada della libertà, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno L, n. 113, 13-5-2001, p. 5.
La tenia rossa
Ricordo un precetto dell’Ordenanza del Requeté, una sorta di “catechismo breve” dei carlisti, i combattenti tradizionalisti della Guerra di Spagna del 1936-1939: “Davanti a Dio non sarai mai un eroe anonimo” (1), che si può tradurre, con diversa accentazione, sia con “Per Dio non esiste il milite ignoto”, sia con “Nessun eroismo è anonimo agli occhi di Dio”.
Lo ricordo nell’imminenza della tornata elettorale del 13 maggio 2001. Quando la pressione massmediatica sta giungendo al parossismo e, coniugata alla diffusa percezione dell’impotenza — o della sempre minor potenza — della politica, espone alla tentazione di disertare le urne, coperta dalle disfattistiche — ma non completamente inverosimili — constatazioni secondo cui “dicono tutti le stesse cose”, “già tanto non cambia mai niente” e “sono sempre gli stessi”.
Perché il quadro si snebbi un poco — la chiarezza totale è una patetica illusione da laboratorio — serve rendersi conto che nella storia, della quale la cronaca veicola e offre, a chi sappia coglierle, le concrete potenzialità, le occasioni appunto storiche, non si danno novità assolute, ma meritano il nome di novità semplicemente nuove combinazioni di vecchie realtà.
Quindi ci si deve anche render conto che tali combinazioni sono il prodotto caleidoscopico di uno scontro, di una lotta, di una dialettica fra il “passato che non deve passare”, la tradizione, e il “passato che non vuole passare”, la Rivoluzione (2), animatrice di una combinazione storica di cui si è potuto verificare il carattere infausto, cioè produttore d’infelicità.
Ebbene, da poco si è chiuso alle nostre spalle un secolo infausto, il secolo XX: non si è trattato di una parentesi, ma dell’ultimo di una lunga serie e in qualche modo dell’apice di essa. Fuoriuscire dalla situazione in cui ci ha lasciati, mutarla realmente — sempre con i limiti segnalati — è particolarmente difficile perché non si tratta di mutare dettagli, il colore della cravatta, ma tendenzialmente l’intero abbigliamento. Ma questa situazione si accompagna anche alla constatazione che ogni mutamento, per quanto esiguo, per quanto di dettaglio, ha una sua importanza: infatti, sia chi sarebbe disposto ad accontentarsi del cambiamento della cravatta sia chi considera pressoché irrilevante tale cambiamento, quando finalmente la toglie percepisce che sta “scoordinando l’intero coordinato”, sta mutando stile.
Dunque, piaccia o non piaccia, anche i gesti più banali, più semplici, quelli di routine e che intendiamo compiere con spirito di basso profilo, con understatement, sono, di loro, gesti significativi, che possono rivelarsi storici. Che meritano perciò sia di essere compiuti — chi vorrebbe dover confessare di esser stato volontariamente assente il “gran giorno”, il “giorno fatale”, ma chi è in grado di prevedere tali giornate? — sia di esser compiuti con la massima consapevolezza.
Lo sanno tutti, almeno tutti quelli che non hanno studiato soltanto il Novecento: il morbo è venuto lentamente, è penetrato dolcemente nel corpo sociale, qualcuno lo ha scambiato perfino per l’inizio di una mutazione qualificando i sintomi della sua presenza “manifestazioni di una crisi di crescita”, spesso, se non sempre, nel nome della libertà. Poi è cresciuto parassitariamente, suggendo gli umori vitali, impedendo lo sviluppo, inquinando la crescita. Quindi, un giorno, il 9 novembre 1989, misteriosamente, è suonata la ritirata. La struttura è implosa al centro e le conseguenze dell’implosione hanno cominciato a interessare anche la periferia. E il suo compimento ha i caratteri di un parto podalico sui generis: si può concludere solo quando è stato espulso il capo, la testa, come nel caso della tenia, come nel caso dell’esorcismo.
E l’esperienza insegna che, se è vero che il medico sceglie sì la malattia, quando si specializza, ma non sceglie il malato da curare, insegna pure che, nella vita, non sempre il malato può scegliere il medico, ma spesso, se non sempre, lo trova come lo trova: non costituisce forse patrimonio culturale delle generazioni vissute nella seconda metà del secolo XX il salutare intervento del medico alcolizzato — il dottor Josiah Boone — in Ombre Rosse di John Ford (1895-1973) (3)?
Ebbene, un mondo umano, una cultura è morta affetta da un morbo ormai identificato, una delle tante espressioni dell’irrealismo, uno dei tanti idealismi, che non vanno confusi con gli ideali, generosi e non pericolosi per sé e per gli altri solo quando non perdono contatto con il reale. “Rivoluzione”, con la minuscola, è termine ambiguo: significa ritorno all’origine, quindi può significare anche ritorno al reale. Tutti vogliamo che nasca un nuovo mondo, in cui possiamo vivere gli anni che ancora ci sono concessi, e possano vivere i nostri figli e i nostri nipoti; tutti auspichiamo che fiorisca una nuova cultura. Ma non bisogna assolutamente farsi illusioni: non può nascere, quindi non nascerà né un mondo immortale, né una cultura perfetta. Si può però impedire che un nuovo mondo, una nuova cultura nasca affetta dallo stesso morbo di cui sono morti il mondo e la cultura che ci stanno alle spalle, e la cui presenza, con il tanfo della loro putrefazione, è in qualche modo incalzante: per certo, può nascere almeno senza quella malattia, senza quella malattia nota. E la nostra responsabilità non consiste nel prevedere l’ignoto — allo scopo servono profeti — ma nel compiere tutti i gesti possibili per impedire che quanto è notoriamente dannoso permanga. Né si tratta obbligatoriamente di gesti fatali e particolarmente onerosi. Talora può bastare un segnale, come quello costituito dai “sondaggi dei poveri”, le tornate elettorali, qual è quella del 13 maggio 2001.
Sì, non solo nessun eroismo, ma anche nessun sacrifico è anonimo agli occhi di Dio, che premierà nell’aldilà chi lo ha compiuto; inoltre, vi sono sacrifici per cui si viene premiati sulla terra, in questa vita, sacrifici come quelli compiuti al fine di ottenere — per esempio — libertà, un altro termine ambiguo a indicare la madre di ogni potenzialità e di ogni possibilità, accompagnata da sicurezza e da giustizia nella sua fruizione. E non vi è ragione di dispiacersene; soprattutto, non vi è ragione per non approfittarne.
Note:
(1) Cfr. General Luis Redondo e Comandante Juan de Zavala, El Requeté (La Tradición no muere), Editorial AHR, Barcellona 1957, pp. 97-105 (p. 99).
(2) Cfr. la nozione in Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta di “Rivoluzione e Contro-Rivoluzione” vent’anni dopo in prima edizione mondiale, con lettere di encomio di mons. Romolo Carboni (1911-1999) e con un mio saggio introduttivo su L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, Cristianità, Piacenza 1977.
(3) Cfr. Ombre rosse (Stagecoach) (USA 1939). Regista: John Ford [pseudonimo di Sean Aloysius O’ Feeney, in omaggio all’omonimo poeta e drammaturgo elisabettiano (1586-1640 ca.)]. Interpreti principali: John Wayne, Claire Trevor, John Carradine, Thomas Mitchell.