MASSIMO INTROVIGNE, Cristianità n. 303 (2001)
I sociologi americani Rodney Stark e Roger Finke sono, con Laurence R. Iannaccone (1), fra i padri della teoria della rational choice, secondo cui alla sociologia delle religioni è possibile applicare con frutto modelli che derivano dagli studi sull’economia, e il campo religioso può essere studiato anche come una forma di “mercato” in cui “ditte” in concorrenza fra loro si contendono la fedeltà dei “consumatori” (2). Gli studi di Stark e Finke sul “mercato” protestante, da questo punto di vista, hanno fatto scuola (3). La teoria della rational choice può sembrare brutale e perfino “scandalosa” in alcune sue formulazioni, e va interpretata con un certo beneficio d’inventario e non senza affiancarle altri modelli interpretativi (4). Si è però rivelata assai utile come strumento sia d’interpretazione ex post sia di previsione ex ante, e ha per esempio il merito di aver previsto con anticipo rispetto ad altri modelli il declino della secolarizzazione e l’avvento del “sacro postmoderno” (5).
Dal punto di vista metodologico, gl’interventi di Stark e Finke meritano quindi attenzione al di là dei casi specifici che prendono in esame. Nel numero di dicembre del 2000 della Review of Religious Research, organo della Religious Research Association, Stark e Finke firmano il saggio di apertura sul tema Catholic Religious Vocation: Decline and Revival, “La vocazione religiosa cattolica: declino e risveglio” (6). I due sociologi prendono in esame la caduta libera delle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa maschile e femminile cattolica in sei paesi — Stati Uniti d’America, Canada, Francia, Germania, Gran Bretagna e Olanda — nel trentennio 1965-1995 e ne indagano le cause. Dal punto di vista quantitativo, la caduta è stata indubbiamente spettacolare soprattutto fra i candidati al sacerdozio — da –81% in Olanda a –54% in Gran Bretagna —, quindi fra le vocazioni religiose maschili (da –82% in Gran Bretagna a –68% in Francia — e, in misura minore, fra quelle femminili: da –51% in Olanda a –43% in Gran Bretagna (7). Per una serie di ragioni metodologiche — prima fra tutte la popolarità dei gender studies, gli “studi sul genere”, maschile o femminile, nella sociologia delle religioni di lingua inglese — la maggior parte degli studi si concentrano sulla diminuzione del numero delle suore, e sono dominati dai lavori di Helen Rose Ebaugh e dei suoi allievi (8). Secondo l’Ebaugh, il numero delle suore è diminuito a causa delle maggiori possibilità offerte alle donne cattoliche — cui la scelta religiosa offriva in precedenza opportunità uniche di mobilità verso l’alto — nei campi dell’educazione e del lavoro secolari. Stark e Finke ritengono questa conclusione, per quanto “elegante” e bene argomentata dall’eminente sociologa di Houston (9), non confermata dai dati empirici per diverse ragioni, di cui tre decisive. Anzitutto, perché negli stessi anni insieme al numero di vocazioni religiose femminili è diminuito anche quello delle vocazioni maschili — anzi, quest’ultimo in misura maggiore —, che non dovrebbe avere relazioni dirette con le opportunità di realizzarsi nella vita secolare offerte alle donne. In secondo luogo — e soprattutto — perché applicando gl’”indici” costruiti dalla Ebaugh per misurare le “possibilità secolari” offerte alle donne, si conclude che queste “possibilità” aumentano in modo continuo almeno a partire dal 1948. Ma, dal 1948 al 1965, pur crescendo le possibilità di educazione e carriera secolari offerte alle donne negli Stati Uniti d’America, cresce anche il numero di suore; dal 1965 in poi, le “possibilità secolari” continuano a crescere, ma il numero di suore invece diminuisce. Infine, mentre il processo di crescita delle “possibilità secolari” è graduale e continuo, la caduta del numero delle nuove suore è repentina e discontinua, e avviene principalmente nel quadriennio 1966-1969, con successiva stabilizzazione verso il basso fino ad anni recenti. Finke e Stark ne concludono che si deve cercare come causa principale del declino delle vocazioni un avvenimento, o una serie di avvenimenti, che si è verificato nella seconda metà degli anni 1960 in modo improvviso e che ha coinvolto sia gli uomini sia le donne cattoliche. Questo avvenimento, secondo i due sociologi americani, può essere solo l’insieme di fattori che derivano dal Concilio Ecumenico Vaticano II e dalle riforme postconciliari: fra il Concilio e il postconcilio vi è, beninteso, una differenza che non sempre riceve attenzione nell’articolo di Finke e Stark. Applicando il modello della rational choice, i due sociologi affermano che, con questi avvenimenti, i costi della scelta sacerdotale e religiosa cattolica sono diminuiti in modo marginale — certo, la disciplina si è rilassata, ma la struttura fondamentale improntata a castità, povertà e obbedienza è rimasta ben presente — mentre i benefici sono diminuiti in modo repentino e drammatico. L’”aggiornamento” postconciliare ha reso meno viva sia la communitas all’interno dei presbiteri e dei conventi, sia la stima unica di cui le figure sacerdotali e religiose godevano all’interno del mondo cattolico in generale, anche in forza della loro “separatezza” segnata da particolari caratteristiche distintive. Giacché la rational choice postula che le scelte religiose non si sottraggono alla normale dinamica di una stima implicita del rapporto costi-benefici, Finke e Stark concludono che questo rapporto è stato improvvisamente e drammaticamente alterato nei primi anni tumultuosi del postconcilio, evidentemente sia per gli uomini sia per le donne.
Ad avviso dei due sociologi americani è possibile una controprova empirica. Se si paragona la situazione dei sei paesi da loro studiati con quella del Portogallo e della Spagna, ci si accorge che dopo il 1965 in questi ultimi paesi il numero di vocazioni non diminuisce affatto, per molti anni. Il numero delle vocazioni diminuisce nella penisola iberica — peraltro in misura minore che negli altri paesi — solo con l’introduzione di un regime politico di carattere democratico sia in Spagna sia in Portogallo. Finke e Stark ne concludono che il salazarismo e il franchismo — per quanto a prima vista possano sembrare candidati improbabili per il ruolo di reclutatori vocazionali —, ostacolando con una serie di misure la penetrazione delle riforme postconciliari nei rispettivi paesi, hanno ritardato la crisi delle vocazioni. Peraltro, anche in presenza di regimi politici diversi è possibile — secondo i due sociologi — che il ruolo della vita sacerdotale e religiosa sia entrato in minore crisi dopo il Concilio in altri paesi per ragioni di tipo culturale: i loro sospetti si appuntano sull’Italia, dove però affermano di non aver avuto a disposizione elementi per un quadro statistico certo.
Un’altra controprova della loro tesi consiste nel fatto che dove è promossa, in particolare a partire dagli anni 1990, una vita religiosa e sacerdotale di tipo “tradizionale” le vocazioni riprendono ad aumentare. Questo si verifica in ordini religiosi considerati “conservatori” e anche in alcune diocesi statunitensi. In base a certi parametri, gli autori hanno costruito un elenco delle diocesi statunitensi considerate — almeno dalla stampa di settore — rispettivamente più “tradizionali” e più “progressiste”; hanno poi esaminato i dati relativi alle ordinazioni e ai seminaristi negli anni 1990 per concludere che il loro numero in percentuale sul numero dei cattolici diocesani è tre volte superiore nelle diocesi “tradizionali” rispetto a quelle “progressiste”.
Gli autori — certamente né cattolici né “tradizionali” — sentono il bisogno di ripetere più volte, scrivendo per di più su una rivista scientifica ma “politicamente corretta”, di non voler affatto sostenere “[…] che la Chiesa cattolica deve adottare una soluzione conservatrice per risolvere i suoi problemi di vocazioni” (10). Una simile conclusione valutativa sarebbe estranea allo stile value-free, “avalutativo”, sia degli autori, sia della rivista. Al contrario, Finke e Stark concludono che, in un’ottica di rational choice, la Chiesa cattolica può risolvere la crisi vocazionale in due modi: diminuendo i costi o “restaurando i benefici tradizionali” (11). La prima soluzione è stata adottata — notano — dalla Chiesa episcopaliana, la branca statunitense della Comunione anglicana: “paghe alte” — fino a trecento milioni di lire all’anno per un vescovo — e “virtualmente nessuna restrizione”: porte aperte ai divorziati, agli omosessuali praticanti, e così via (12). A prescindere dai risultati episcopaliani, che non sono brillantissimi, la via della diminuzione dei costi sembra peraltro ai due sociologi assai più difficile da perseguire per i cattolici, mentre “la seconda strategia [“restaurare i benefici tradizionali”] è stata oggetto di diversi tentativi negli ultimi anni” con effettivi “incrementi delle vocazioni” (13).
In realtà, l’argomento di Finke e Stark va al di là del caso, pure interessante, delle vocazioni nella Chiesa cattolica. Da molti anni i sociologi americani notano che — contrariamente alla vulgata secondo cui il cristianesimo perde colpi perché non è in sintonia con il mondo moderno e mantiene posizioni anacronistiche e premoderne, soprattutto in tema di morale sessuale — di fatto, nel mondo protestante avanzano le denominazioni fondamentaliste e pentecostali — la cui morale sessuale è spesso rigorosa, e il cui antagonismo verso la modernità è notevole — mentre perdono membri le comunità liberal (14). Questo non avviene perché i cristiani siano irragionevoli e masochisti — ribadiscono Finke e Stark a proposito delle vocazioni cattoliche — ma, al contrario, perché i “consumatori religiosi” sono a loro modo eminentemente ragionevoli e, come tutti i consumatori, non considerano né i soli costi, né i soli benefici, ma il rapporto costi-benefici, che nelle religioni è spesso più favorevole al fedele là dove i costi sono più alti.
È possibile, naturalmente, che proprio i credenti più conservatori — che avrebbero in teoria di che rallegrarsi di fronte a dati statistici di questo genere — si scandalizzino di un accostamento alla religione in termini di mercato, consumatori, costi e benefici. Il valore metodologico di queste analisi americane — nonostante le critiche che spesso ricevono in Europa — sembra però confermato dalla permanente diffusione del modello della rational choice negli Stati Uniti d’America, dove è diffuso da oltre vent’anni, e dove non sembra dar segni d’invecchiamento.
Massimo Introvigne
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(1) Cfr., da ultimo, Laurence R. Iannaccone, Introduction to the Economics of Religion, in Journal of Economic Literature, vol. XXXVI, Nashville (Tennessee) 1998, pp. 1465-1496.
(2) Cfr. una panoramica della teoria e delle critiche che ha sollevato, in Lawrence A. Young, Rational Choice Theory and Religion. Summary and Assessment, Routledge, New York-Londra 1996.
(3) Cfr. Roger Finke e Rodney Stark, The Churching of America, 1776-1990. Winners and Losers in Our Religious Economy, Rutgers University Press, New Brunswick (New Jersey) 1992; e una discussione di quest’opera, nel mio I protestanti, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1998.
(4) Cfr. il mio Il cristianesimo delle origini: un nuovo movimento religioso?, in Cristianità, anno XXIV, n. 259, novembre 1996, pp. 9-11, che costituisce recensione di R. Stark, The Rise of Christianity. A Sociologist Reconsiders History, Princeton University Press, Princeton (New Jersey) 1996.
(5) Cfr. sul punto il mio Il sacro postmoderno. Chiesa, relativismo e nuova religiosità, Gribaudi, Milano 1996.
(6) R. Stark e R. Finke, Catholic Religious Vocation: Decline and Revival, in Review of Religious Research, vol. 42, n. 2, Nashville (Tennessee) dicembre 2000, pp. 125-145.
(7) Cfr. ibid., pp. 125-126.
(8) Il percorso, senza sostanziali ripensamenti, va da Helen Rose Ebaugh, Out of the Cloister. A Study of Organizational Dilemma, University of Texas Press, Austin (Texas) 1977, a Eadem, Women in the Vanishing Cloister. Organizational Decline in Catholic Religious Orders in the United States, Rutgers University Press, New Brunswick (New Jersey) 1993.
(9) Secondo gli autori, alla Ebaugh — fra l’altro, presidente dell’autorevole Society for the Scientific Study of Religion e delle cui capacità “tecniche” come sociologa si può difficilmente dubitare — fa velo il fatto che, “essendo convinta che la vita religiosa cattolica è del tutto incompatibile con la modernità, considera i cambiamenti che la hanno interessata come inevitabili e rifiuta di prendere in esame qualunque possibile ritorno verso l’accostamento tradizionale” (R. Stark e R. Finke, Catholic Religious Vocation: Decline and Revival, cit., p. 136). D’interesse, almeno dal punto di vista psicologico, è anche il commento secondo cui errori nelle conclusioni sociologiche “sembrano essere il risultato involontario del fatto che questo campo di studi è stato dominato da ex-preti ed ex-suore [il riferimento, non esplicitato, è qui alla stessa Ebaugh], interessati a comprendere anzitutto la propria biografia a rischio di perdere di vista il quadro più ampio” (ibid., p. 144).
(10) Ibid., p. 136.
(11) Ibid., p. 137.
(12) Ibidem.
(13) Ibidem.
(14) Cfr. una classica impostazione del problema, in Dean M. Kelley, Why Conservative Churches Are Growing. A Study in Sociology of Religion, Mercer University Press, Macon (Georgia) 1982.