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L’abito, il monaco e la donna

30 Novembre 1996 - Autore: Giovanni Cantoni

Giovanni Cantoni, Cristianità n. 259 (1996)

 

Nota parzialmente raccolta, senza rimandi a piè di pagina, in ANTONELLA AMBROSIONI, Famigliola cristiana, in Secolo d’Italia. Quotidiano di Alleanza Nazionale, anno XLV, n. 247, 24-10-1996, p. 15.

 

L’abito, il monaco e la donna

 

Fra le dichiarazioni attribuite a don Leonardo Zega S.S.P., direttore di Famiglia cristiana, e riportate su La Stampa del 21 ottobre 1996, leggo: «Se l’abito non fa il monaco, la gonna lunga non ha mai fatto la donna onesta» (1).

Vi sono luoghi comuni che crescono come parassiti su altri luoghi comuni. È certamente vero che non è l’abito a fare il monaco, ma è altrettanto vero che il monaco porta l’abito, non se ne vergogna, se ne serve come protezione personale contro le tentazioni cui è esposto come uomo e nell’esercizio della sua missione, e come bandiera, per segnalare non la propria personale diversità — l’«essere nel mondo senza essere del mondo» —, ma la diversità di ciò di cui è portatore. Né si può sostenere che oggi portare l’abito sia segno di conformismo, dal momento che è vero — e verificabile a vista — precisamente il contrario.

Quanto all’onestà della donna, non è il solo problema in questione, a meno di non ridurla alla sua indisponibilità all’avventura. Infatti, per la donna vale quanto detto del monaco: si tratta non solo di non offrirsi sul mercato, di non esporsi a proposte sconvenienti, ma anche di non indurre in tentazione il prossimo, facendo da quinta colonna al Tentatore.

«Ma io non ho detto nulla», dirà qualcuna. Il problema della moda è straordinariamente delicato e molto più importante di quanto sembri: basta leggere le pagine di Werner Sombart sul legame fra secolarizzazione dell’amore, diffusione del lusso e nascita della mentalità capitalistica (2). Ma, pur essendo tanto importante, tale problema non è tenuto nella considerazione dovuta e viene liquidato con qualche boutade superficiale, dimenticando la considerazione di Papa Pio XII secondo cui la società parla con l’abito che porta (3): perché il problema è che cosa viene detto con la gonna lunga o con quella corta. Quindi, una pubblicazione di grandissima tiratura quale Famiglia cristiana potrebbe essere la cattedra privilegiata per far nascere e poi alimentare una sensibilità adeguata non solo alla protezione della propria virtù, ma anche alla non aggressione, neppure indiretta, a quella altrui, il tutto come espressione di carità nei confronti del prossimo, quindi di solidarietà con il prossimo. A meno che, della solidarietà, non si abbia una concezione appiattita sul profilo economico dell’esistenza. Ma pare che le cose vadano altrimenti, almeno a tenore delle boutade del direttore del diffuso periodico.

Giovanni Cantoni

 

Note:

(1) Cfr. GIORGIO CALCAGNO, Una Famiglia spregiudicata e cristiana, in La Stampa, 21- 10-1996.

(2) Cfr. WERNER SOMBART, Lusso e capitalismo, trad. it. a cura di Mario Protti, Unicopli, Milano 1988, soprattutto pp. 75-95.

(3) Cfr. PIO XII, Discorso ai partecipanti al primo Congresso Internazionale di Alta Moda promosso dall’Unione Latina Alta Moda, dell’8-11-1957, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XIX, pp. 567-582 (p. 578).

 

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