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L’ ’aborto procurato o IVG (interruzione volontaria della gravidanza): tecnica ed etica

7 Ottobre 2011 - Autore: Alleanza Cattolica

di Diletta Rossi

 

1. Definizione

La medicina definisce “aborto” ogni interruzione di gravidanza che avvenga entro i primi 6 mesi: tempo in cui il nascituro non è ancora capace di vita extrauterina.

L’aborto procurato o IVG – interruzione volontaria della gravidanza – è una pratica che interrompe la gravidanza direttamente e intenzionalmente attraverso la soppressione della vita del nascituro.

 

2. Tecniche

Attualmente, nei paesi in cui non è perseguibile penalmente, l’aborto procurato viene eseguito attraverso le tecniche dell’isterosuzione – frammentazione e aspirazione del prodotto del concepimento attraverso il canale cervicale della madre mediante cannule aspiranti – e del raschiamento – svuotamento della cavità uterina con pinza ad anelli – in un intervento medico ambulatoriale. L’aborto può anche essere indotto da farmaci contragestativi in grado di provocare il distacco, la morte e l’eliminazione dell’embrione già annidatosi. L’aborto viene eseguito da personale medico su richiesta della donna incinta nei tempi e nei modi previsti dalle leggi vigenti in ogni Stato. L’aborto chimico o farmacologico può, in determinate situazioni, non prevedere un intervento medico: è il caso di contragestativi quali l’RU486 (o mifepristone), detta anche “pillola del mese dopo”, che, assunta in caso di ritardo mestruale, si lega ai recettori del progesterone, ormone essenziale per la gravidanza, interrompendone l’azione e provocando lo sfaldamento dell’endometrio uterino e il distacco e la morte dell’embrione.

Sono abortivi anche i farmaci o i dispositivi che hanno un effetto intercettivo o antinidatorio, che cioè alterano la fisiologia del trasporto dell’embrione già formato nella tuba di Falloppio, e ne provocano la morte impedendone l’impianto in utero. Appartengono a questa categoria i cosiddetti “contraccettivi d’emergenza” e gran parte della contraccezione ormonale – il cui effetto è solo in parte contraccettivo, cioè teso a evitare l’incontro dell’ovocita maturo con uno spermatozoo. Sono intercettivi i dispositivi intrauterini (IUD o spirale), la “pillola del giorno dopo”, gli analoghi del GnRH, i progestinici, la pillola estroprogestinica e la minipillola; sono sia inercettivi sia contragestativi il vaccino anti-gonadotropina corionica (vaccino anti-hCG) e il vaccino anti-trofoblasto (vaccino anti-TBA).

 

3. Aborto e gravidanza

Gli antinidatori, agendo prima dell’impianto in utero, non vengono considerati abortivi da chi ritiene che la gravidanza inizi solo con questo evento (cioè circa 14 giorni dopo la fecondazione): anche l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che nel 1985 ha dato una definizione ufficiale di gravidanza, ne ha fissato l’inizio all’impianto. Ciò però nulla toglie a quel che si persegue attraverso l’utilizzo degli antinidatori: la morte del nascituro che già esiste anche se non si è ancora impiantato in utero. Evidentemente non è l’annidamento che fa dell’embrione il suo essere embrione, anche se, senza questo evento, la sua sorte è segnata: infatti, non può essere una relazione a determinare l’esistenza di un soggetto, semmai la sua esistenza a porsi come condizione della relazione. In aggiunta non è l’impianto a stabilire la relazione biologica fra la madre e il figlio; quest’ultimo infatti, oltre a essere di per sé geneticamente legato alla madre, stabilisce fin dal concepimento un intenso dialogo biologico con lei. Perciò la definizione di gravidanza dell’OMS è solo strumentale alla deresponsabilizzazione della madre di fronte al figlio nelle fasi di vita che precedono il momento dell’impianto, con l’obiettivo di rendere l’aborto precoce una pratica priva di rilevanza etica.

 

4. Aborto terapeutico

Si parla di “aborto terapeutico” quando l’interruzione volontaria della gravidanza viene realizzata intenzionalmente per salvaguardare la vita o la salute materna. Il pericolo di vita o di salute per la madre può però comprendere uno spettro di situazioni molto diverse fra loro per gravità: si apre la possibilità che, in assenza di più precise regolamentazioni, l’aborto terapeutico venga esteso anche a situazioni che poco hanno a che fare con la salute materna. Come afferma mons. Elio Sgreccia Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, “sotto il nome di ‘aborto terapeutico’ vengono a ricondursi i casi di aborto eugenetico (malformazione o malattia del feto), della motivazione contraccettiva (figlio non desiderato), delle motivazioni socioeconomiche”, e la salute viene intesa come uno stato di completo – e generico – benessere fisico, psicologico ed emozionale.

L’aborto terapeutico viene praticato quasi sempre a seguito d’indagini diagnostiche sulla salute del nascituro. Secondo il neonatologo Carlo Valerio Bellieni, docente di Terapia Neonatale alla Scuola di Specializzazione in pediatria dell’Università di Siena, è in crescita l’accanimento diagnostico prenatale, motivato dalla ricerca di ‘un altro’ a misura delle proprie paure. Sempre più, egli illustra, si mette a rischio la vita del nascituro pur di ‘sapere’, e la minima anomalia o sospetto sulle qualità del bambino induce nei genitori una reazione di rigetto. Ne conseguono ansia o depressione materna, e spesso l’aborto terapeutico.

In alcuni stati c’è la possibilità di praticare tali aborti fino al nono mese di gravidanza realizzando così l’uccisione di neonati che potrebbero già vivere autonomamente. È nota la pratica del Partial-Birth Abortion: il forcipe entra in utero, afferra la gamba del bambino e ne trascina fuori attraverso il canale cervicale tutto il corpo, eccetto la testa che viene deliberatamente lasciata all’interno del corpo della madre. Il medico quindi conficca un paio di forbici nella nuca del bambino e poi le apre per allargare la ferita. Dopo aver tolto le forbici viene inserito un catetere nella nuca e il cervello viene aspirato. Anche la testa che è così collassata viene quindi estratta dal corpo della madre. Questi aborti vengono generalmente effettuati senza analgesia anche se fin dalla metà degli anni 1980 è noto che il feto è in grado di provare dolore già dopo i quattro mesi di gestazione.

L’aborto terapeutico è definibile come aborto diretto in quanto in filosofia morale è propriamente oggetto diretto della volontà: ciò in vista del quale la volontà passa all’atto di volere, a un’azione. È direttamente voluto tutto quanto è voluto e attuato come fine o come mezzo, sebbene in diversa forma, poiché il primo interessa in sé stesso, mentre il secondo interessa in ragione di un’altra cosa. Diverso è l’aborto indiretto, cioè, sempre secondo la filosofia morale, indirettamente voluto, che si presenta come una conseguenza di un’azione, esso non è attuato in modo alcuno né come fine né come mezzo, ma è previsto e permesso in quanto si trova inevitabilmente legato a ciò che si vuole e si attua direttamente. Non è un’azione abortiva diretta sul feto, ma è un’azione necessaria alla salvaguardia della vita della madre ed è rivolta a una qualche parte del suo corpo. È un atto che provoca l’aborto come effetto collaterale, che quindi non è oggetto diretto né della volontà né dell’azione concreta. Se affermiamo che una delle condizioni perché si possa parlare di atto terapeutico è che l’intervento medico-chirurgico sia direttamente rivolto a curare o a togliere la parte malata del fisico, allora possiamo dire che l’aborto indiretto è conseguenza di un tale atto. Diversamente non si può parlare di reale terapia nel caso di un aborto diretto, anche se chiamato terapeutico, poiché non si tratta di agire su una malattia in atto, ma, piuttosto, si attua la soppressione del feto per evitare l’aggravamento della salute o il pericolo della vita della madre. Il passaggio non è dall’azione terapeutica sulla malattia (della madre) per raggiungere la salute, ma si configura, piuttosto, un’azione su quanto è sano (sul feto che può essere anche sano), per prevenire una malattia o il rischio di morte. In caso poi il malato fosse il figlio, non si può in nessun modo parlare di terapia perché attraverso l’aborto non si elimina la malattia bensì il malato: questo si configura a pieno titolo come un atto eugenetico, che subordina la vita di alcune persone al vantaggio – inteso in senso lato – della specie e, in ogni caso, di altre persone.

 

5. Giustificazioni all’aborto procurato

L’aborto procurato viene giustificato in vari modi: si sostiene che l’embrione fino a un certo stadio di sviluppo non sia ancora una persona umana, o che — comunque — i suoi diritti siano inferiori e subordinati alla volontà della madre (o comunque di chi è già nato), o ancora che la sua vita e la sua morte siano indifferenti in quanto egli non avrebbe ancora interessi propri o autonomia decisionale.

 

6. Argomenti contrari all’aborto procurato

a. La vita di ogni essere umano inizia al concepimento

Dal punto di vista biologico la descrizione del processo di fertilizzazione (concepimento) indica, come scrivono Angelo Serra, Professore emerito di Genetica umana, Facoltà di Medicina e Chirurgia Università Cattolica del Sacro Cuore Roma, Membro della Pontificia Accademia per la Vita e Roberto Colombo, Professore di Biologia generale e di Bioetica, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, Roma e Membro della Pontificia Accademia per la Vita, che “[…] alla fusione dei gameti incomincia a operare come una unità una nuova cellula umana, dotata di una nuova ed esclusiva struttura informazionale che costituisce la base del suo ulteriore sviluppo”. Attraverso il processo di fertilizzazione, infatti, due sistemi a se stanti ma ordinati l’uno all’altro – i gameti – iniziano a interagire non più come due enti separati, bensì come le parti di un tutto, dando così origine a un nuovo sistema, una nuova cellula, detta zigote, che ha due caratteristiche fondamentali: è dotata di una precisa identità e di un proprio orientamento. Essa, infatti, esiste e opera fin da subito come un essere unitario e ben identificato, ed è intrinsecamente orientata e determinata a un definito sviluppo. Questa nuova identità organistica, attraverso uno sviluppo coordinato continuo e graduale, mantiene la propria identità biologica e genetica nel tempo, senza soluzioni di continuità, fino al momento della sua morte. È un nuovo essere che si autocostituisce imponendo a sé stesso la direzione, le strutture differenziate e la qualità dell’accrescimento, secondo il disegno iscritto nel genoma fin dal momento della fertilizzazione; questo indica che è un individuo dotato di vita propria, con una propria identità conferitagli da un unico principio sostanziale unificante. Il salto qualitativo essenziale avviene alla fecondazione, nel passaggio da due sostanze – i gameti – a un’unica sostanza: lo zigote. Questa rivela nel suo sviluppo biologico una continuità sostanziale, perché il principio del mutamento è interno alla sostanza stessa. In ogni fase successiva di questo sviluppo il nuovo organismo mantiene unità ontologica con la fase precedente, senza soluzioni di continuità. Fin dall’inizio del suo ciclo vitale è un uomo, e continua a essere quel determinato uomo sino al termine di questo ciclo.

b. Tutti gli uomini hanno un eguale diritto a vivere

Esiste un diritto alla vita? Ci si chiede: con quale diritto il nascituro esigerà che un altro lo risparmi? E si risponde che questo diritto gli deriva dal suo stesso atto di esistere: è un diritto dipendente dal piano ontologico e non un diritto assoluto, cioè il diritto di chi si pone come fonte di verità di fronte alle cose negando un loro significato intrinseco. L’individuo umano concepito, poiché esiste quale individuo sostanziale e soggetto di natura razionale, ha diritto in quanto tale a essere rispettato nella sua integrità fisica, che è per lui condizione di vitalità: è un essere umano e per questo ha il diritto che la sua vita venga rispettata.

Ci si chiede poi: esistono interessi superiori o situazioni particolari – come l’oggettiva difficoltà e sofferenza di una madre – che giustifichino la soppressione deliberata di una vita umana? Si risponde che nulla sembra eguagliare o superare quella che è la condizione, il sostrato di possibilità di ogni azione umana e di ogni atto razionale e libero. Quindi, il rispetto per la vita biologica di ogni essere umano (indipendentemente dal suo livello di sviluppo e dalle sue qualità) è la condizione di possibilità di ogni altro rispetto che gli si deve accordare. Poiché, inoltre, tutti gli uomini hanno una comune e uguale natura, devono essere accordati a tutti i medesimi diritti fondamentali, fra i quali svetta, appunto, il diritto a non essere uccisi, che viene comunemente definito ‘diritto alla vita’.

L’aborto, alla luce di quanto si è evidenziato, è una pratica omicida, e la sua legittimazione diventa anche un atto profondamente discriminatorio nei confronti di una categoria di persone umane. Mario Palmaro, docente di Bioetica presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma, a tal proposito ripropone l’analogia, istituita da Barbara e Jack Willke in Manuale sull’aborto (1978), fra due sentenze pronunciate dalla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America rispettivamente nel 1857 e nel 1973. Entrambe, infatti, non riconoscono diritti a una determinata categoria di uomini poiché a essi viene negata la personalità giuridica. La sentenza della Dred Scott cause vs. Sandford, una causa intentata da uno schiavo negro per la sua liberazione, stabilì infatti che i negri non avevano alcun diritto o privilegio che l’uomo bianco fosse tenuto a rispettare, tranne quelli che i detentori del potere e del governo avessero voluto concedere loro. Gli schiavi, perciò, come proprietà del padrone potevano essere acquistati o venduti, usati e persino uccisi. Non è difficile riconoscere nella sentenza del caso statunitense Roe vs. Wade, che ha sancito la legalizzazione dell’aborto negli USA, la medesima cultura giuridica di fondo, discriminatoria e dominativa, secondo la quale alcuni uomini – per motivi più o meno gravi – si ritengono ‘padroni’ di altri e vogliono decidere della loro vita e della loro morte.

 

7. Ragione e Fede

Il giudizio etico dato sulla pratica dell’aborto procurato è fondato esclusivamente su dati riconosciuti ed elaborati dalla ragione umana, e in quanto tale va sostenuto. In tal modo esso dev’essere anche assunto dalla legge giuridica positiva, pena l’accettazione di un ordine sociale che ammetta la legge del più forte e quindi la negazione di un diritto reale.

La fede completa i dati di ragione e ci permette di evidenziare la gravità della pratica dell’aborto procurato: un delitto contro l’uomo che è “il termine personalissimo dell’amorosa e paterna provvidenza di Dio” (n. 61), come afferma Giovanni Paolo II (1978-2005) nell’enciclica sul valore e l’inviolabilità della vita umana Evangelium Vitae, del 1995.  Egli ha scritto: “[…] l’aborto procurato è l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita” (n. 58) e che ragioni anche gravi e drammatiche “non possono mai giustificare la soppressione deliberata di un essere umano innocente” (n. 58).


Vedi anche: L’aborto nell’ordinamento giuridico della Repubblica Italiana (di Alfredo Mantovano)


Per approfondire: Henri De Tourris, Roger Henrion e Michele Delecour, Manuale di ginecologia e ostetricia, ed. it. a cura di Giuseppe Benagiano e Brunello Cozza, Masson, Milano 1996; Maria Luisa Di Pietro e Roberta Minacori, Sull’abortività della pillola estroprogestinica e di altri ‘contraccettivi’, in Medicina e Morale, 1996/5, pp. 863-899; Maria Luisa Di Pietro ed Elio Sgreccia, La contragestazione ovvero l’aborto nascosto, in Medicina e Morale, 1988/1, pp. 5-34; Adriano Bompiani, Indicazioni all’aborto “terapeutico”: stato attuale del problema, in Angelo Fiori ed Elio Sgreccia (a cura di), Aborto. Riflessioni di studiosi cattolici, Vita e Pensiero, Milano 1975, pp. 191-218; Angelo Serra, Il neo-concepito alla luce degli attuali sviluppi della genetica umana, in Angelo Fiori ed Elio Sgreccia (a cura di), Aborto. Riflessioni di studiosi cattolici., Vita e Pensiero, Milano 1975, pp. 115-148; E. Sgreccia, Manuale di bioetica, 3° ed., vol. I, Vita e Pensiero, Milano 2002; Carlo Valerio Bellieni, L’alba dell’“io”. Dolore, desideri, sogno, memoria del feto, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2004; Mario Palmaro, Ma questo è un uomo. Indagine storica, politica, etica, giuridica sul concepito, San Paolo, Milano 1996; Angel Rodrìguez Luño, La valutazione teologico-morale dell’aborto, in AA.VV., Commento interdisciplinare alla “Evangelium Vitae”, Pontificia Accademia per la Vita, ed. it. a cura di Elio Sgreccia e Ramón Lucas Lucas, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997, pp. 419-434; Angelo Serra e Roberto Colombo, Identità e statuto dell’embrione umano: il contributo della biologia, in AA.VV., Identità e Statuto dell’embrione umano, Pontificia Accademia pro Vita,Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, pp. 106-158; Centro di Bioetica, Identità e statuto dell’embrione umano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 22-6-1989, in Anime e Corpi, 1989/144, pp. 367-381; Adriano Pessina, Bioetica e antropologia. Il problema dello statuto ontologico dell’embrione umano, in Vita e Pensiero, 1996/6, pp. 402-424.

La rivista Cristianità ha dedicato numerosi articoli al tema dell’aborto. Di seguito quelli disponibili online: Rudolf Ehmann, Il composto RU 486 e il mito della “pillola”, intervista a cura di Ermanno Pavesi, in Cristianità, anno XVII, n. 169, maggio 1989, pp. 8-9; Philippe Shepens, La sindrome post-abortiva. Descrizione e atteggiamento terapeutico, in ibid., anno XXII, n. 232-233, agosto-settembre 1994, pp. 6-10; Maria Luisa Di Pietro, “Come frutti di una medesima pianta”: la cosiddetta “pillola del giorno dopo”, in ibid., anno XXVII, n. 290-291, giugno-luglio 1999, pp. 8-10.

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