di Stefano Nitoglia
Attorno alle 8,00 di mattina, ora italiana, del 7 giugno, un commando ha attaccato il Majlis, il parlamento dell’Iran, dove era in corso una seduta; contemporaneamente, un altro commando attaccava a colpi di fucile d’assalto kalashnikov il mausoleo dell’imam Ruḥollah Mostafavi Mosavi Khomeyni (1902-1989), a sud della capitale Teheran. Entrambi gli attentati sono stati rivendicati dall’Isis, organizzazione jihadista salafita di confessione musulmana sunnita. Il bilancio complessivo è stato di 12 morti e 47 feriti.
L’attentato è avvenuto immediatamente dopo la decisione di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Yemen, Barhain, Egitto, governo della Libia orientale (quello non riconosciuto dall’ONU) e Maldive, tutti Stati islamici di confessione sunnita, di chiudere le frontiere con il Qatar, che appoggia l’Iran sciita. Anche il presidente statunitense Donald J. Trump si è schierato con il fronte dei Paesi sunniti, tanto che, nell’immediatezza dell’attacco, tra i deputati del Majlis è scoppiata la rabbia al grido di slogan come: “Morte agli Stati Uniti”, “Morte al suo servo, l’Arabia Saudita”.
Ancora non si sa se tra i due avvenimenti vi sia un legame, ma l’attentato di Teheran ha riportato di drammatica attualità il secolare conflitto che vede contrapporsi musulmani sunniti, la stragrande maggioranza dei fedeli islamici, e musulmani sciiti, una minoranza di circa il 10%, che i sunniti considerano secondo una gamma di valutazioni che va da “fratelli separati” a eretici.
I partigiani di Ali
Gli sciiti sosno presenti soprattutto in Iran, dove la scia è la religione di Stato, ma anche in Azerbaigian e nel Bahrein; alte percentuali di sciiti si trovano in Iraq, Libano, Yemen (zayditi) e Kuwait. Forti minoranze sono presenti anche in Arabia Saudita e Siria (alawiti), mentre negli altri Paesi arabi gli sciiti sono fortemente minoritari.
Agl’inizi del 1600 d.C., con Abbas I (1557-1629), della dinastia di lingua e cultura turco-azera dei Safavidi, scià di Persia dal 1587, l’islam sciita duodecimano ‒ uno dei tre filoni in cui si articola quella confessione ‒ diviene religione di Stato in Persia, l’attuale Iran, segnando un punto di svolta storicamente decisivo.
La differenza tra islam sciita e islam sunnita è fondata, oltre che su questioni legate alla legittimità o meno dei successori del fondatore dell’islam, Maometto (570 ca.-632), anche su diverse interpretazioni della storia, della teologia e della legge islamiche, nonché su un difforme elemento temperamentale di fede e devozione (cfr., dell’accademico iraniano-statunitense Vali R. Nasr, La rivincita sciita. Iran, Iraq, Libano. La nuova mezzaluna, trad. it., prefazione di Farian Sabahi, Università Bocconi Editore, Milano, 2007, p. 4).
Quando, nel 632 d. C., Maometto muore, i suoi compagni scelgono come successore, o califfo, il suocero e amico intimo Abu Bakr (573-634). Tra loro, però, un piccolo gruppo ritiene, invece, che sia più qualificato il cugino e genero Alì ibn Abi Talib (599-661), che del fondatore ha sposato la figlia, Fatima bint Muhammad, detta “la Luminosa” (605-633). Prevale il primo orientamento e i dissidenti, incluso Alì, accettano la leadership di Abu Bakr. A questi succedono poi Omar ibn al-Khaṭṭāb (589 ca.-644), Othman ibn Affan (574-656) e, infine, Alì. Questi quattro, secondo i sunniti, sono i cosiddetti “califfi ben guidati” o “Rashidun”, la cui epoca rappresenta, sempre per i sunniti, l’età d’oro dell’islam, anche se di un oro macchiato di sangue dato che, a parte il primo, muoiono tutti di morte violenta per mano musulmana. L’assassinio dell’ultimo, però, Ali, scatena la contestazione dei suoi seguaci contro la scelta dei primi tre successori di Maometto: essi ritengono, infatti, che solo la nomina di Ali sia legittima. Nasce così il “partito di Ali”, in arabo “shīʿat ʿAlī”, da cui la denominazione di scia e di sciiti.
Gli sciiti, da allora, riconoscono come califfi legittimi, chiamati imam, soltanto i discendenti di Ali. All’interno della confessione sciita, i cosiddetti “duodecimani” ritengono che il dodicesimo imam, Muhammad ibn Hasan detto al-Muntasar, cioè “l’atteso”, e al-Mahdi, cioè “il Guidato” (868-941), sia celato misteriosamente agli occhi degli uomini (in “occultamento minore” dall’874 e in “occultamento maggiore” dal 941) fino a quando ricomparirà alla fine del mondo per instaurare il regno della Giustizia e della Verità che precede il Giudizio. Nasce, in tal modo, il filone degli “sciiti dei dodici imam”, altrimenti detti “sciiti duodecimani”, imperniato sulla teologia dell’“imam nascosto”.
Se l’imam è occultato ma presente, qualsiasi altro potere è dunque illegittimo poiché usurpa la sola, autentica, autorità esistente. In assenza dell’imam nascosto, ogni assunzione diretta del governo da parte delle gerarchie religiose è ritenuta inutile. La teologia imamita, che impone di fatto agli sciiti l’obbedienza al potere mondano sino al ritorno del Mahdi, finisce allora per relativizzare l’importanza del governante. Come scrive il sociologo dell’islam Renzo Guolo, «la credenza nell’Imam Nascosto, che ciascun fedele deve conoscere pena la morte nell’incoscienza di Dio, fonda, dunque, l’estraneità della tradizione sciita nei confronti del Politico» (La Via dell’Imam. L’Iran da Khomeini a Ahmadinejad, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 20).
La “tutela del giureconsulto”
I religiosi non hanno quindi alcun ruolo politico. La politica è lasciata alle autorità civili. Il sovrano deve essere ubbidito anche se ingiusto e non pio, purché non imponga ai fedeli la negazione della religione.
Questo vale fino all’avvento al potere, in Iran, di Khomeyni, nel 1979. Perché Khomeyni, con la teoria della “tutela del giureconsulto” (velayat-e faqih), impone una vera e propria rivoluzione nel mondo sciita (cfr., del politologo iraniano Hamid Enayat [18932-1982], Iran: Khumayni’s Concept of the “Guardianship of the Jurisconsult”, in James P. Piscatori [a cura di] ‒ politologo statunitense ‒, Islam in the Political Process, Cambridge University Press, New York 1983, pp. 160-180). Il tema viene sviluppato nel corso di una serie di conferenze tenute nel 1971, quando il futuro capo della rivoluzione sciita iraniana si trovava in esilio a Najaf, in Iraq, e poi raccolte in un volume intitolato Governo Islamico (Hufoumat-e Islami), tradotto in italiano come Il Governo Islamico o l’autorità spirituale del giureconsulto (prefazione di Franco Cardini, Il Cerchio, Rimini 2006). Ribaltando la tradizione fino allora imperante, Khomeyni sostiene che la funzione propria degli ulema, i dottori nella legge islamica, siano mullah o, meglio, ayatollah, può essere svolta nel modo appropriato solo se essi governano.
Non tutti gli sciiti accettano però la nuova teoria. Tutt’altro. Il maggiore oppositore di essa è il Grande Ayatollah (cioè il massimo esponente della gerarchia religiosa sciita persiana) Abol-Qasem al-Khoi (1899-1992), secondo cui il velayat-e faqih è un’innovazione senz’alcun supporto teologico.
Con la presa del potere di Khomeyni, che assume il titolo di “Guida suprema della Rivoluzione Islamica”, e la feroce, sanguinosa, repressione di ogni dissidenza che ne segue, la paura zittisce la gerarchia religiosa contraria al nuovo indirizzo, soprattutto dopo che, con un gesto senza precedenti, il despota priva delle funzioni di Grande Ayatollah Muhammad Kazem Shariatmadari (1905-1986), un affronto che neppure alcuno scià aveva mai nemmeno contemplato.
Sta di fatto che da allora, seppur con numerose resistenze, la teoria della “tutela del giureconsulto” è divenuta, se così si può dire, il principio fondamentale della nuova costituzione iraniana; e fino a quando essa resisterà alle critiche, è difficile che la situazione politica di quella che un tempo fu la Persia possa cambiare. Ed è stato proprio questo nuovo impegno politico dell’islam sciita, a partire dalla rivoluzione khomeynista del 1979, ad avere inserito un ulteriore elemento di turbolenza nello scacchiere mediorientale.