Giovanni Cantoni, Cristianità n. 227-228 (1994)
Dopo la tornata elettorale politica
L’alternativa davanti ai Poli delle Libertà e del Buon Governo: Seconda Repubblica o Nuova Repubblica?
Dai risultati della consultazione prime considerazioni sulle scelte di fondo del corpo sociale e sulle doverose prospettive degli eletti e delle loro aggregazioni.
1. La tornata elettorale del 27 e 28 marzo 1994
Preceduta e in un certo senso annunciata dalla consultazione amministrativa del 21 novembre 1993, perfezionata con i ballottaggi del 5 dicembre — non solo quanto all’esito, ma anche quanto alla presenza di nuovi e rilevanti soggetti politici — la tornata elettorale del 27 e 28 marzo 1994 si è conclusa con la traduzione in pratica di una sorta di «sogno collettivo», coltivato da un numero consistente di cittadini italiani e in loro cresciuto, insieme a uno stato di sempre maggiore ansia, nei decenni seguenti il 1948, quindi intravisto come un miraggio negli accadimenti del 1989: la speranza di una rinnovata e inequivoca sconfitta delle forze politiche della Sinistra si è realizzata con l’arresto del «treno dei progressisti», guidato dal Partito Democratico della Sinistra, versione riciclata del Partito Comunista Italiano (1).
Ma l’indubbia felicità dell’esito non può e non deve impedire l’esplicita rilevazione delle vistose carenze del modo in cui il risultato è stato conseguito, cioè attraverso una campagna elettorale altamente spettacolare, nella quale però, per dire il meno, il livello del dibattito politico è stato di profilo basso: in un certo senso — e un poco paradossalmente — lo spessore del profilo è stato inversamente proporzionale alla elevata spettacolarità. Infatti, a parte le tematiche di carattere economico — spesso, se non sempre, anch’esse di tono contingente, dal momento che né la proprietà privata né la libertà economica, il cosiddetto «mercato», vengono più messe in questione radicalmente e formalmente —, non hanno avuto adeguata attenzione problemi non meno rilevanti di quelli economici, anche se talora sono stati evocati, ma raramente illustrati nei termini loro propri e secondo la loro portata, e su questa base affrontati (2).
Comunque, i risultati emersi dalle urne possono essere considerati soddisfacenti, in quanto sono tali da mantenere aperti spazi di libertà e, talora, da aprirne perfino di nuovi, naturalmente per chi intenda la libertà non solo come «libertà da» ma anche, se non piuttosto, come «libertà per». Dico questo — sia chiaro — non certamente nell’ottica di un «vivere alla giornata», di una sorta di carpe diem (3) politico, quindi come un incitamento edonistico, ma invitando a guardare con attenzione al caso concreto, traducendo il carpe diem con un «prendi tempo», «serviti del tempo», e illuminandolo con gli evangelici «A ciascun giorno basta la sua pena» (4), quindi anche la sua gioia, e «Dobbiamo compiere le opere […] finché fa giorno» (5).
2. Una lettura proporzionalistica: il rifiuto generalizzato del socialcomunismo,
comunque travestito
Benché il regime elettorale applicato per lo svolgimento della consultazione sia stato sostanzialmente quello maggioritario, con un piccolo correttivo proporzionale, il felice risultato non può certamente essere attribuito in modo semplicistico al nuovo procedimento elettorale. Infatti, una lettura proporzionalistica dell’esito — cioè un esame dei suffragi in valore assoluto — rivela un trend significativo contrario alla Sinistra. Piuttosto, si può notare che questa tendenza non è stata adeguatamente sfruttata nei termini resi possibili nel quadro dello stesso nuovo regime elettorale, che sollecita la costituzione di fronti, cartelli o «poli», com’è ormai d’uso chiamarli. Infatti — ancora — se questo trend del corpo elettorale avesse trovato ovunque, sul territorio nazionale, lo stesso polo non di Sinistra, la presenza dei progressisti negli organi elettivi rinnovati sarebbe oggi meno significativa, quindi meno condizionante e, comunque, meno globalmente insidiosa.
Però, com’è noto, le cose non sono andate così. Infatti, gli elettori hanno trovato, al nord, il Polo delle Libertà, costituito da Forza Italia, dall’Unione di Centro, dalla Lega Nord, dal CCD, il Centro Cristiano Democratico, e dalla Lista Pannella, e al sud il Polo del Buon Governo, formato a sua volta da Forza Italia, dall’Unione di Centro, dal CCD e da Alleanza Nazionale. Il che accresce l’ammirazione per il sensus politico del corpo sociale, che ha colto la drammaticità implicita nel nuovo procedimento elettorale, ha mostrato di intuire — se non di comprendere — la profondità dell’alternativa soggiacente alla consultazione, oltre l’espressione in cui gli veniva proposta.
Il quesito, soggiacente alla tornata elettorale e «impudicamente coperto» dal tenue velo dello spettacolare dibattito partitico, può essere enunciato con un’allure quasi referendaria: «Si vuol mantenere o si vuol togliere il consenso popolare al regime repubblicano, se non a quello instaurato dalla Costituente almeno a quello inaugurato con l’“apertura a sinistra”, trascinato fino alla “solidarietà nazionale” — tentativo di restaurazione del CLN, il Comitato di Liberazione Nazionale —, quindi esauritosi nel decennio che va dal 1979 al 1989, quando — nella prospettiva dell’instaurazione di un CLN senza l’apporto democristiano — il gruppo politico dirigente si è sempre più appoggiato su poteri di fatto?» (6). La risposta al quesito implicito è stata chiara.
Così, benché nessuno abbia adeguatamente informato gli elettori italiani sul significato degli avvenimenti ormai collegati emblematicamente al 1989, talora anzi tacendo perfino gli avvenimenti stessi o presentandoli in modo mistificato; benché nessuno, almeno dopo il 1989, abbia fatto dell’anticomunismo con la serietà e la metodicità necessarie dopo decenni di superficialità, di menzogna e di complicità, ciononostante l’elettorato ha colto qualche segnale d’insofferenza di fronte all’ipotesi che la guida del «rinnovamento» venisse affidato a chi aveva vistosamente fallito — segnale certamente coraggioso e apprezzabile —, ha supplito a queste storiche mancanze con un altrettanto apprezzabile «buon senso» e ha risposto negando consenso alla cosiddetta Prima Repubblica e ai suoi gestori.
Se il linguaggio elettorale in regime proporzionale è un linguaggio ideologico, quindi partiticamente gergale, il linguaggio referendario — e con esso il linguaggio del regime elettorale maggioritario — è un linguaggio al minimo dell’articolazione espressiva, ma raggiunge, per altra via, la semplicità e la drasticità dell’evangelico «Sia […] il vostro parlare sì, sì; no, no» (7). La risposta è stata chiara e questo dato sta, qualunque sia l’uso che di essa verrà fatto: anzi, questo dato deve, o almeno dovrebbe, condizionare ogni gesto politico venturo.
3. La «liberazione» dalla Democrazia Cristiana e il problema politico dei cattolici
Fra i risultati positivi di quanto è accaduto va certamente rubricato il crollo elettorale dei bracci secolari del neomodernismo e del progressismo, cioè, rispettivamente, della mutazione della Democrazia Cristiana — denominata PPI, Partito Popolare Italiano, non si sa con quanto rispetto e con quanta attenzione sostanziali per la creatura politica di don Luigi Sturzo — e del Movimento per la Democrazia-La Rete. In quest’ultimo caso il risultato è stato decisamente clamoroso; nel primo, i dati quantitativi sono ancora inquinati da vischiosità costituite da posizioni di potere, ma qualitativamente il fenomeno pare avviato a realizzazione compiuta.
Evidentemente, la realizzazione compiuta della liberazione del mondo cattolico dall’egemonia del neomodernismo politico non comporta la scomparsa di aggregazioni politiche di cattolici che auspicano per l’organizzazione statuale del popolo italiano un regime democratico, cioè di cattolici democratici senza blocco fra i due termini, ma con un chiaro primato della qualificazione religiosa, semplicemente specificata da quella politica. Tale realizzazione implica invece l’irrilevanza nel mondo cattolico dei «cattolici democratici», cioè di quanti bloccano cattolicesimo e democrazia, privilegiano la democrazia sul cattolicesimo e/o, variamente, costruiscono combinazioni caleidoscopiche sulla base del «cattolicesimo come religione democratica», del «cristianesimo come religione della democrazia», e via deviando.
Inoltre, la liberazione del mondo cattolico da queste aggregazioni partitiche ripropone il problema, dottrinale e culturale prima che operativo, della presenza cattolica in politica in un mondo culturalmente disomogeneo: si tratta di una problematica da affrontare con la maggiore tempestività, adesso che i condizionamenti partitici si sono felicemente ridotti e sembrano perfino in via di scomparsa (8).
4. Dalla responsabilità dell’elettorato a quella degli eletti e delle loro aggregazioni
Accanto alle ragioni di gioia per l’esito elettorale, sono venuto segnalando anche ragioni di perplessità, che non riguardano evidentemente l’esito stesso, ma — piuttosto — elementi che lo hanno accompagnato e che emergono con sempre maggiore rilievo nel tempo post-elettorale, sì da meritare di essere partitamente esaminati.
Mi limito a ricordare, anzitutto, quanto non è stato fatto dalle aggregazioni degli eligendi per favorire una più consistente sconfitta del polo progressista, attraverso comportamenti oggettivamente e irresponsabilmente disgreganti.
Ma, soprattutto, segnalo come, se mi è parso — e mi pare — corretto definire il «treno dei progressisti» «partito radicale di massa» (9), purtroppo questo non significa che i «radicali», cioè i propugnatori della dissoluzione anarcoide e libertaria del corpo sociale e della sua organizzazione, siano presenti soltanto nel polo progressista. Infatti, la definizione «partito radicale di massa» regge a condizione di precisare — come mi appresto a fare — che, se il polo progressista costituisce la concentrazione dei radicali, gli stessi radicali sono però presenti, in modo diffuso, anche nel Polo delle Libertà, e che — se sembra prudente mettere in guardia contro possibili infiltrazioni mafiose in questo o quella aggregazione politica, non si deve trascurare anche la denuncia di possibili infiltrazioni socialcomuniste.
La presenza radicale inquina gravemente la prospettiva alternativa in cui è avvenuto lo scontro elettorale, cioè la prospettiva che ha sollecitato la massiccia risposta degli elettori, e costituisce una spada di Damocle sul mantenimento delle promesse, esplicite e implicite, fatte agli elettori stessi.
Stando così le cose, l’alternativa che si para davanti agli eletti e alle loro aggregazioni suona nei termini seguenti: «La Repubblica che ci si appresta a instaurare sarà semplicemente una Seconda Repubblica, una versione poco diversa da quella precedente, almeno nel momento terminale del suo decorso storico, oppure si tratterà di una Nuova Repubblica, liberata nella misura del possibile da germi autodistruttivi e rispondente alla chiara indicazione del corpo elettorale?».
Non vi è chi non colga la portata dell’alternativa, che merita di essere affiancata da due quesiti minori.
Il primo suona così: «Fra gli eletti nel PPI, che si vuole erede di chi ha corporativamente realizzato nei decenni scorsi la scristianizzazione del popolo italiano — dico corporativamente per mettere al momento da parte le responsabilità individuali —, qualcuno saprà compiere gesti di oggettiva autoredenzione, allineandosi coraggiosamente con la parte vincente affinché, diminuito — se non vanificato — il peso dei radicali, oltre alle aggregazioni politiche premiate dal suffragio popolare possa vincere anche il popolo italiano?».
Quanto al secondo quesito, credo possa avere la seguente formulazione, che comporta premesse: «Si parla, da parte di molti, del superamento della dialettica fascismo-antifascismo, che ha accompagnato e segnato la vita politica italiana almeno a partire dalla seconda guerra mondiale. Nella sua genericità, il proposito non può che piacere. Ma è soltanto una decisione oppure si tratta del frutto di una maturazione culturale? Ci si rende conto che il fascismo è l’espressione politica della reazione di un corpo sociale culturalmente disomogeneo e che può essere superato in radice soltanto dalla volontà di perseguire l’omogeneità culturale del corpo sociale stesso?».
Giovanni Cantoni
Note:
(1) Cfr. la mia intervista «Fermiamo il partito radicale di massa», a cura di Angelo Cerruti, in Secolo d’Italia. Quotidiano del MSI-DN, 6-1-1994, trascritta in Cristianità, anno XXII, n. 225-226, gennaio-febbraio 1994; e Marco Invernizzi, «Dal PCI al PDS»: le tappe e i contenuti di una metamorfosi rivoluzionaria, ibidem.
(2) Cfr. uno spettro della problematica, in Alleanza Cattolica (Il Capitolo Nazionale di), Un’azione politica umana e cristiana per ricostruire l’identità del popolo italiano, manifesto del 4-10-1993, ibid., anno XXI, n. 222, ottobre 1993.
(3) Quinto Orazio Flacco, Odi, libro I, ode XI, v. 8.
(4) Mt. 6, 34.
(5) Gv. 9, 4.
(6) Cfr. i miei La «lezione italiana». Premesse, manovre e riflessi della politica di «compromesso storico» sulla soglia dell’Italia rossa, Cristianità, Piacenza 1980; e La «democrazia compiuta» ovvero l’Italia rossa grazie alla setta democristiana, in Cristianità, anno X, n. 85, maggio 1982.
(7) Mt. 5, 37.
(8) Cfr. i miei «Rifondazione democristiana», rinnovamento del l’egemonia dei «cattolici democratici» e rinascita del movimento cattolico, in Cristianità, anno XXI, n. 215-216, marzo-aprile 1993; e Il «problema politico italiano» e il «problema politico dei cattolici italiani»: no al «fronte popolare» versione anni 1990, ibid., anno XXI, n. 223, novembre 1993.
(9) Cfr. la mia intervista cit.