Di Michele Brambilla
«L’odierna pagina evangelica (cfr Lc 20,27-38)», premette Papa Francesco alla recita dell’Angelus del 10 novembre, «ci offre uno stupendo insegnamento di Gesù sulla risurrezione dei morti. Gesù viene» infatti «interpellato da alcuni sadducei», corrente a cui appartenevano i sommi sacerdoti del Tempio di Gerusalemme in carica in quel momento, «i quali non credevano nella risurrezione e perciò lo provocano con un quesito insidioso: di chi sarà moglie, nella risurrezione, una donna che ha avuto sette mariti successivi, tutti fratelli tra loro, i quali uno dopo l’altro sono morti?».
La domanda aveva lo stile delle contese rabbiniche dell’epoca, in cui si ponevano al sapiente delle domande insidiose per vedere come se la sarebbe cavata e ricavarne un insegnamento. Ma «Gesù non cade nel tranello e replica che i risorti nell’al di là “non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio” (Lc 20,35-36)».
Gesù ha certamente presente il valore trascendente del matrimonio, che eleva alla dignità di sacramento, ma con questa risposta ricorda che di fronte all’Eternità anch’esso si rivela solo una figura. L’uomo e la donna sono chiamati ad amarsi come li ama Dio, ma rispetto a Lui rimangono delle creature. «Con questa risposta», dice il Pontefice, «Gesù anzitutto invita i suoi interlocutori – e anche noi – a pensare che questa dimensione terrena in cui viviamo adesso non è l’unica dimensione, ma ce n’è un’altra, non più soggetta alla morte», ovvero piena della perfezione di cui solo il Signore è capace. «Questa limpida certezza di Gesù sulla risurrezione si basa», quindi, «interamente sulla fedeltà di Dio, che è il Dio della vita. In effetti, dietro l’interrogativo dei sadducei se ne nasconde uno più profondo: non solo di chi sarà moglie la donna vedova di sette mariti, ma di chi sarà la sua vita».
Come riconosce il Santo Padre, «si tratta di un dubbio che tocca l’uomo di tutti i tempi e anche noi» uomini postmoderni, ossessionati dall’autodeterminazione: «dopo questo pellegrinaggio terreno, che ne sarà della nostra vita? Apparterrà al nulla, alla morte?». L’ateismo postmoderno non è in grado di prospettare altro che la dissoluzione dell’identità individuale, attorno alla quale sono ruotate tutte le fatiche della vita terrena. «Gesù risponde», invece, «che la vita appartiene a Dio, il quale ci ama e si preoccupa tanto di noi, al punto di legare il suo nome al nostro: è “il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui” (Lc 20,37-38)». In questo modo dimostra anche che sulla Terra «la vita sussiste dove c’è legame, comunione, fratellanza; ed è una vita più forte della morte quando è costruita su relazioni vere e legami di fedeltà. Al contrario, non c’è vita dove si ha la pretesa di appartenere solo a sé stessi e di vivere come isole: in questi atteggiamenti prevale la morte». L’amore umano è quindi il modo, sempre perfettibile, con il quale ci si prepara a gustare l’amore stesso di Dio.
Lunedì, 11 novembre 2019