Marco Invernizzi, Cristianità n. 394 (2018)
L’amore e la civiltà
Uno dei segni distintivi dell’identità cristiana nasce da queste parole di Gesù: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv. 13,34-35).
Lo sviluppo dell’idea di amore dall’Antico al Nuovo Testamento risulta evidente dalla semplice lettura del testo biblico: dopo la chiamata di Abramo, le battaglie del popolo di Israele, quelle dei Re e di Davide in particolare, le guerre di sterminio permesse dal Signore perché Israele non contaminasse la propria fede nell’unico Dio, e invece, dopo l’Incarnazione, la proposta pacifica di Gesù, che pure suscita un odio anche peggiore di quello che colpì Israele. Sebbene vi sia una evidente continuità, la storia della salvezza conosce con Cristo una esplicita, enorme novità.
Le cristianità nella storia
Certamente le cristianità storiche non sono nate solo dall’amore dei santi evangelizzatori e dalla conversione di tante famiglie, fra cui quelle regnanti, che contribuirono alla nascita di quella europea, ma anche da guerre, accordi diplomatici, compromessi, intrighi. Ciò era inevitabile, sia perché la prima evangelizzazione è stata opera di uomini peccatori come tutti gli altri, sia perché nessuno pensasse che la Gerusalemme celeste potesse scendere sulla terra prima del tempo previsto.
Quindi nessuno può credere che l’Europa sia nata soltanto grazie alle vicende edificanti di alcuni santi cristiani: sarebbe come contrapporre una leggenda «rosa» a quella «nera» che avvolge il Medioevo cristiano dal tempo dell’Illuminismo. Il Medioevo è stato anch’esso una «valle di lacrime», ma fu un’epoca della storia caratterizzata dal fatto di essere cristiana. Come in ogni altra, non mancarono le nefandezze, ma in essa vi fu la consapevolezza — insita nella cultura, nel costume e nelle stesse istituzioni — del bene e del male, della santità e del peccato. L’epoca moderna, invece è stata giustamente definita da san Giovanni Paolo II (1978-2005) come quella dell’assenza del senso della differenza fra bene e male, dove si assiste a una sorta di perdita collettiva del senso del peccato: «Il dramma della situazione contemporanea, che sembra abbandonare alcuni valori morali fondamentali, dipende in gran parte dalla perdita del senso del peccato» (1).
Nello stesso discorso il santo Pontefice invita a combattere le «strutture di peccato», cioè le istituzioni, le prassi consolidate o semplicemente le regole non scritte del costume sociale, che nascono dal moltiplicarsi dei peccati personali e ne diventano in modo esplicito — come nel caso delle leggi — o implicito — come nel caso dei costumi — il «consolidamento», la «legittimazione».
Ogni «struttura di peccato» è peggiore dei singoli peccati, anche nel loro complesso, perché questi lasciano sempre spazio alla distinzione fra male e bene, mentre la «struttura di peccato» nella percezione diffusa trasforma quanto è malvagio in comportamento buono, quindi ne favorisce, quando non ne obbliga, la reiterazione da parte di tutti.
San Giovanni Paolo II aggiunge, sullo stesso tema: «È tuttavia un fatto incontrovertibile, come più volte ho avuto modo di ribadire, che l’interdipendenza dei sistemi sociali, economici e politici, crea nel mondo di oggi molteplici strutture di peccato. Esiste una spaventosa forza di attrazione del male che fa giudicare “normali” e “inevitabili” molti atteggiamenti. Il male si accresce e preme con effetti devastanti sulle coscienze, che rimangono disorientate e non sono neppure in grado di discernere. Se si pensa poi alle strutture di peccato che frenano lo sviluppo dei popoli più svantaggiati sotto il profilo economico e politico, verrebbe quasi da arrendersi di fronte a un male morale che sembra ineluttabile. Tante persone avvertono l’impotenza e lo smarrimento di fronte a una situazione schiacciante che appare senza via d’uscita. Ma l’annuncio della vittoria di Cristo sul male ci dà la certezza che anche le strutture più consolidate dal male possono essere vinte e sostituite da “strutture di bene”» (2).
Il Pontefice invita a non arrendersi e indica alla nuova evangelizzazione del nostro tempo il compito di aiutare i singoli a recuperare il senso del peccato e a contribuire a sostituire le «strutture di peccato» con strutture di bene, cioè a costruire ambienti che possano preludere a una società nella quale la professione di fede non comporti necessariamente l’eroismo: «La “nuova evangelizzazione” affronta questa sfida. Essa deve impegnarsi perché tutti gli uomini recuperino la consapevolezza che in Cristo è possibile vincere il male con il bene. Occorre formare al senso della responsabilità personale, intimamente connessa agli imperativi morali e alla coscienza del peccato. Il cammino di conversione implica l’esclusione di ogni connivenza con quelle strutture di peccato che oggi particolarmente condizionano le persone nei diversi contesti di vita.
«[…] Si tratta così di promuovere un’autentica “metánoia”, ossia un cambiamento di mentalità, che contribuisca alla creazione di strutture più giuste e più umane, a vantaggio del bene comune» (3).
Le cristianità sorte nel corso dei secoli, non solo le maggiori, ma anche altre, minori ma significative, sono state il frutto di questo desiderio di promuovere il cambiamento della mentalità pagana o di quella «barbara», con la conseguente nascita di «strutture più giuste e più umane».
Leggendo la storia medioevale, accanto alle cattedrali appaiono bassezze indicibili, gli omicidi avvengono contemporaneamente alla nascita degli ospedali e delle università, i cattivi si trovano di fianco ai santi.
Dall’evangelizzazione nasce una nuova civiltà
Ma ciò che forse più colpisce è come l’evangelizzazione si sia accompagnata alla civilizzazione, come i civili cittadini romani si siano innamorati di Cristo, unendo la civiltà antica alla novità del Vangelo, mentre i popoli barbari abbiano lasciato un po’ alla volta la violenza per abbracciare la Croce e scoprire i benefici della civiltà. La penetrazione del Vangelo è andata di pari passo con la scoperta della buona educazione, con il cambiamento della mentalità di cui parlava san Giovanni Paolo II. Ciò è avvenuto grazie all’educazione al lavoro, così importante in san Benedetto (480 ca.-547 ca.) che vi dedica un capitolo della sua Regola (4). I suoi monaci dovevano lavorare oltre che pregare, e così contribuivano alla trasformazione del mondo, anche se la loro prima e autentica consapevolezza era quella di cercare Dio: «Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa» (5). Cercando Dio trovarono le tante «cose» materiali che ci hanno lasciato in eredità, dalla birra al formaggio.
Il legame con gli esercizi di sant’Ignazio
Tutto ciò ha un legame anche con gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), il cui capolavoro consiste nella proposta di un pellegrinaggio di conversione dell’anima dal peccato all’amore per Cristo e per i fratelli e che, appunto, si conclude con la contemplazione «per ottenere l’amore». Amore a Dio anzitutto e naturalmente, che però si riversa sulle persone e su sé stessi — «amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt. 22,39) — e quindi entra nella storia cambiandola, secondo la stessa logica dell’Incarnazione. Non a caso gli Esercizi nascono nel 1548 — quando la cristianità europea conosce le prime fratture in seguito alla Riforma protestante, iniziata nel 1517, e le devastazioni provocate dalle guerre di religione che la sconvolsero nei secoli XVI e XVII — e si concludono con un’intenzione e una professione missionaria per portare l’«amore contemplato» all’interno di un’epoca in cui la società si stava allontanando dalla Chiesa cattolica.
Questa logica ha spinto uomini di ogni tempo e stato, di ogni etnia ed età, a dare la propria vita, in maniera cruenta e incruenta, per la gloria di Dio, servendo il bene comune e i poveri, predicando il Vangelo e curando gli ammalati, insegnando agl’ignoranti, facendo queste cose insieme o separatamente, ma tutti e sempre animati dalla stessa fede in Cristo, Salvatore di tutti.
L’ingresso di questo amore nella storia ha ridimensionato i diversi mali sociali, fino a debellarne alcuni, come, per esempio, lo schiavismo, il disprezzo per la donna, per il debole e per il disabile, la soppressione del non nato. Certo, ci sono voluti secoli per arrivarci, perché lo scopo della Chiesa non era quello di fomentare rivolte politiche — come per esempio la rivolta dei gladiatori di Spartaco (109 ca.-71 a.C.) —, ma quello di trasformare progressivamente la società. Perciò san Paolo, con la Lettera a Filemone, rimanderà lo schiavo che era fuggito dal suo padrone e contemporaneamente inviterà quest’ultimo a liberarlo. Non era una contraddizione, ma l’unico modo per risolvere un’ingiustizia senza violenza, così come la Chiesa farà molti secoli dopo davanti alla questione operaia con le sue opere sociali e con l’enciclica Rerum novarum di Papa Leone XIII (1878-1903), nel 1891, richiamando imprenditori e operai a una unità sociale di fondo per superare la dialettica marxista ricchi-poveri, che fomentava la lotta di classe e auspicava la «dittatura del proletariato».
Contemporaneamente il processo di crescita della civiltà ha favorito l’emergere del bello, del bene e del vero in tanti aspetti della vita sociale, ancora presenti nei documenti, nei monumenti, nelle opere d’arte oltre che nella mentalità e nei costumi. Questa civiltà ha impiegato circa un millennio per nascere — dalla cosiddetta svolta costantiniana del 313 —, per consolidarsi e per dissolversi, sebbene morendo di una morte lenta, durata secoli durante i quali vi è stata un’aspra contrapposizione fra la Chiesa, che di quella civiltà era l’anima, e le forze ideologiche moderne che hanno voluto distruggerla.
Il tema della cristianità oggi
È evidente che il tema della cristianità non è di stretta attualità per la Chiesa e per il suo magistero universale. Non lo è in Occidente, dove la cristianità fa parte della memoria storica da difendere dalle falsità ma non può essere una priorità rispetto agli innumerevoli problemi che affliggono il mondo contemporaneo. Tanto meno lo è nei continenti dove la fede è alle prese con una prima evangelizzazione, da difendere e da incrementare, come in Africa e in Asia.
Il problema principale dell’Occidente, come insegna il Magistero da decenni, è un nuovo annuncio della fede in un mondo disperato, rivolto a persone che hanno perduto la fede, oppure non l’hanno mai conosciuta o l’hanno conosciuta male. È quanto la Chiesa ricorda costantemente dal tempo del venerabile Pio XII (1939-1958) (6) e che san Giovanni Paolo II chiama «nuova evangelizzazione», per la quale esiste uno specifico Pontificio Consiglio, istituito da Benedetto XVI il 21 settembre 2010 con la lettera apostolica Ubicumque et semper.
È bene sottolineare, tuttavia, che tale priorità non significa l’abbandono di una prospettiva, ma semplicemente porsi, con molto buon senso, nella linea della riflessione svolta da Benedetto XVI all’inizio dell’Anno della fede, nel 2011: «Fin dall’inizio del mio ministero come Successore di Pietro ho ricordato l’esigenza di riscoprire il cammino della fede per mettere in luce con sempre maggiore evidenza la gioia ed il rinnovato entusiasmo dell’incontro con Cristo. Nell’Omelia della santa Messa per l’inizio del pontificato dicevo: “La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza”. Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone» (7). Qualcosa di analogo afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Non ci sono strutture giuste senza uomini che vogliono essere giusti» (8).
Quindi la domanda, per evidenti esigenze pedagogiche, viene rimandata a un secondo tempo, ma non viene per nulla eliminata: quale potrà essere l’esito, dopo l’epoca della scristianizzazione, di questo necessario e prioritario annuncio della fede da fare per la seconda volta dopo l’epoca della scristianizzazione? Perché non desiderare che dall’impegno pubblico dei cattolici, continuamente richiesto dal Magistero, nasca «una società a misura d’uomo e secondo il piano di Dio» (9)? Una società che favorisca la salvezza eterna dei suoi componenti, nella consapevolezza che la salvezza è un dono di Dio ma anche che l’uomo può e deve nella misura delle sue possibilità costruire un habitat umano che aiuti chiunque ad avvicinarsi a Dio. Una società che combatta le ingiustizie, aiuti i poveri, favorisca le famiglie e protegga sempre la vita, in ogni momento dell’esistenza: «nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini. […] Una fede autentica — che non è mai comoda e individualista — implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra» (10). Inoltre, una società che non dimentichi l’esistenza del peccato originale, che storicamente si manifesta nell’opera di colui che disse «non serviam» in cielo e continua a operare nella storia per allontanare gli uomini dal loro Signore.
Sembrerebbe semplice buon senso, sottinteso agli appelli rivolti dai pastori a un impegno pubblico che non riduca la fede a un fatto solo privato e personale. Tuttavia, che ciò avvenga non è scontato perché da tempo è diffuso anche fra cattolici un atteggiamento di ostilità nei confronti della cosiddetta «Chiesa costantiniana», cioè della Chiesa latina che a partire dal 313, con l’Editto di Milano voluto dall’imperatore Costantino (272-337), ha iniziato un lungo periodo di inculturazione della fede segnato da una collaborazione alterna e difficile ma reale con l’autorità politica, durato sostanzialmente un millennio, fino alla fine della cristianità medioevale (11).
Vale la pena ricordare che, contrariamente alla vulgata, l’Editto di Milano ha solo sancito la libertà per la Chiesa: sarà quello di Tessalonica, Cunctos populos, promulgato nel 380 dagli imperatori Graziano (359-383), Teodosio I (347-395) e Valentiniano II (371-392), a dichiarare il cattolicesimo religione di Stato. Ai mille anni di cristianità sono seguiti circa cinque secoli di sradicamento della fede dai popoli europei attraverso l’aggressione prima contro le sue istituzioni portanti — la Chiesa, l’autorità politica e l’assetto economico-sociale — e poi, quando la rivoluzione culturale del 1968 prese di mira la persona umana e distrusse definitivamente ogni sistema legislativo che facesse riferimento al diritto naturale, contro il singolo individuo. Già san Paolo VI (1963-1978), cinquant’anni fa, all’indomani del Sessantotto, denunciava questo astio contro la «Chiesa costantiniana»: «Uno non può inventare una nuova Chiesa secondo il proprio giudizio, o il proprio gusto personale. Oggi non è raro il caso di persone, anche buone e religiose, giovani specialmente, che si credono in grado di denunciare tutto il passato storico della Chiesa, quello Post-tridentino in modo particolare, come inautentico, superato e ormai invalido per il nostro tempo; e così, con qualche termine ormai convenzionale, ma estremamente superficiale ed inesatto, dichiarano senz’altro chiusa un’epoca (costantiniana, preconciliare, giuridica, autoritaria…), e iniziata un’altra (libera, adulta, profetica…) da inaugurarsi subito, secondo criteri e schemi inventati da questi nuovi e spesso improvvisati maestri. Per essere oggi veramente fedeli alla Chiesa dovremo guardarci dai pericoli che derivano dal proposito, tentazione forse, di innovare la Chiesa, con intenzioni radicali o con metodi drastici, sovvertendola» (12). Oggi questo atteggiamento persiste in molti ambienti, ecclesiali e non, anche di una qualche rilevanza (13).
Esso parte da una premessa non condivisibile, che l’epoca costantiniana si sia definitivamente conclusa. Nell’attuale contesto post moderno l’atteggiamento missionario, indicato dal magistero della Chiesa da Pio XII in poi e che successivamente ha assunto il nome di «nuova evangelizzazione», è lo strumento più adeguato per permettere a chi è diventato una minoranza di annunciare e di testimoniare il Vangelo. Ma ciò non significa rinunciare alla costruzione di un ambiente cristiano che possa, un domani, diventare una società cristiana e soprattutto non implica un giudizio radicalmente negativo sull’epoca della cristianità, come denunciava Paolo VI.
La «Chiesa costantiniana» viene accusata di compromissione con il potere politico e contrapposta a quella dei primi tre secoli, libera e lontana da ogni potere. Ma voler cancellare diciassette secoli di storia della Chiesa contraddice profondamente la logica della «riforma nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa» evocata e apprezzata da Benedetto XVI il 22 dicembre 2005. Sarebbe bene che chi, all’interno della Chiesa, avanza queste proposte facesse un serio esame sulla bontà delle proprie aspirazioni. Il rimedio ai problemi della Chiesa del Terzo Millennio cristiano non consiste certamente nel riproporre un modello che non c’è più nei fatti: non c’è più un impero universale che si possa convertire a Cristo come l’antico impero romano, mentre esistono realtà sovranazionali, come per esempio l’Unione Europea, e Stati nazionali che sono apertamente ostili alla Chiesa o presentano nelle loro leggi un numero sempre maggiore di norme contrarie al diritto naturale. Con queste realtà la Chiesa può collaborare su alcuni aspetti particolari in nome del bene comune possibile in una data circostanza, ma non può condividere alcunché di generale. È probabilmente finito anche il tempo dei concordati con gli Stati, con i quali per la Chiesa è sempre più difficile trovare temi su cui concordare, almeno dal punto di vista legislativo.
La memoria della prima evangelizzazione
Il problema è salvaguardare o no la memoria di quanto la Chiesa fece nel corso della prima evangelizzazione, riconoscendo come un valore e un modello la cristianità che ne nacque, seppure con aspetti storici discutibili. Il tema della memoria del modello non è secondario, perché incide inevitabilmente sulle scelte di oggi: «La memoria è ciò che fa forte un popolo, perché si sente radicato in un cammino, radicato in una storia, radicato in un popolo. La memoria ci fa capire che non siamo soli, siamo un popolo: un popolo che ha storia, che ha passato, che ha vita» (14).
Come è avvenuto a proposito della ricezione del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), si tratta di recepirne le riforme in continuità con la storia della Chiesa, come invita a fare il Magistero degli ultimi cinquant’anni, deprecando l’atteggiamento sia di chi lo interpreta come una rivoluzione in rottura radicale con il passato, sia di chi più o meno tacitamente lo rigetta, magari sottolineando solo la continuità e dimenticando le riforme. Lo stesso atteggiamento vale per quei diciassette secoli in cui in seguito alla prima evangelizzazione sono sorte una cristianità in Occidente e altre società cristiane altrove. Il problema è rispondere alla domanda se la fede cambi o no la vita delle persone che l’abbracciano, non soltanto la vita dei singoli bensì anche la vita pubblica delle nazioni, nella misura in cui la fede riesce a penetrare nella cultura e nel costume dei popoli, modificandoli. In fondo, la prima evangelizzazione è riuscita così, anche se il suo esito istituzionale avrebbe potuto essere diverso.
Proviamo a chiederci: se la fede penetrasse di nuovo, nei prossimi secoli, nel cuore dei popoli dell’antica cristianità occidentale, sarebbe auspicabile che nella legislazione venissero maggiormente aiutati gli «scartati» di oggi, i non nati, i poveri, gli handicappati, e venisse rimessa al centro la famiglia fondata sul matrimonio per sempre di un uomo e di una donna? È scandaloso auspicare che ciò avvenga?
La purificazione della memoria
San Giovanni Paolo ha risposto concretamente a questa domanda dando l’impulso a una nuova evangelizzazione, ma ha anche introdotto nella concezione della storia propria del cristianesimo una novità importante: la purificazione della memoria. Con il Giubileo dell’Anno 2000 egli sembra aver indicato ai cattolici una nuova meta, un qualcosa che si pone certamente nella scia della nuova evangelizzazione nella fase successiva alla fine dell’epoca delle ideologie, ma che forse rappresenta qualcosa di più.
Il mondo occidentale non è più cristiano nella cultura e nei costumi da tempo e i cristiani sono diventati una minoranza. Che cosa devono fare? La scuola contro-rivoluzionaria aveva proposto una testimonianza eroica e apostolica affinché l’Europa potesse rinascere cristiana e la sua influenza sul mondo cattolico aveva animato la lunga lotta intrapresa da esso prima per contenere l’espandersi della Rivoluzione del 1789, attraverso la resistenza dei governi europei contro Napoleone Bonaparte (1769-1821), e poi, dopo il 1848 — in Italia dopo il 1861 — per opporsi alla scristianizzazione imposta dai nuovi governi liberali e nazionalisti instaurati attraverso rivoluzioni in quasi tutto il Vecchio Continente. Il processo continuerà fino alla Prima Guerra Mondiale, alla fine della quale nasceranno i partiti ideologici di massa e si assisterà in particolare all’avvento al potere in Russia nel 1917 di un partito comunista. Dalla guerra mondiale nascerà una lunga «guerra civile europea» che vedrà protagonisti i regimi espressione delle ideologie principali — il liberalismo e il social-comunismo — e quelli di tipo autoritario, i cosiddetti regimi «fascisti», manifestazione di un blocco storico composto da più anime, alcune in qualche caso riconducibili di fatto all’ideologia liberale o social-comunista. Il conflitto, che sfocerà nella Seconda Guerra Mondiale e durerà fino alla rimozione del Muro di Berlino nel 1989, sostanzialmente lascerà sulla scena storica solo due contendenti, gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica, e segnerà la fine di gran parte dei regimi autoritari degli anni 1930 e 1940 e di quello nazionalsocialista in Germania (1933-1945). Soltanto dopo il 1945 la presenza pubblica dei cattolici ricupererà un ruolo significativo, sebbene segnato da incertezze e da confusioni dottrinali e operative.
San Giovanni Paolo II certamente vorrà che i movimenti cattolici siano protagonisti della vita pubblica nelle rispettive nazioni, ma sembrerà voler fare precedere a qualsiasi scelta di apostolato la «purificazione della memoria», cioè una sorta di esame di coscienza dei fedeli, senza pretese di reciprocità, che metta in luce, laddove gli storici mostreranno realmente delle responsabilità, le colpe commesso da cattolici nella lunga storia della Chiesa nei suoi rapporti con il mondo.
Come dire: se e dove abbiamo sbagliato, chiediamo perdono a tutti coloro che possiamo aver scandalizzato o ferito. La Chiesa è certamente santa nel suo Fondatore, il quale è tuttora e sempre presente attraverso il mistero dell’Eucarestia, ma la stessa Chiesa è composta da uomini e donne peccatori, che ne hanno macchiato e macchiano con i loro peccati l’azione salvifica di Cristo nella storia. Noi cristiani abbiamo sì usato la violenza, abbiamo mentito, abbiamo offuscato il Vangelo e la purezza di Cristo, ma abbiamo anche trasformato una società violenta e pagana in un altro mondo, dove ha cominciato a risuonare il principio che ogni uomo è sacro e inviolabile, dal concepimento alla morte naturale, sano o ammalato, ricco o povero, uomo o donna che sia.
Abbiamo insanguinato l’Europa con le guerre di religione, abbiamo permesso alle chiese dell’assolutismo di servirsi degli Stati e viceversa, e alle chiese europee di apparire ricche e lontane dai popoli, ma non sono mai mancati i santi, le congregazioni religiose, i preti che hanno portato il Vangelo sulle strade dove vivono i poveri, così come la lunga storia degli uomini e delle donne diventati santi potrebbe documentare. Consapevoli di aver costruito molto, purtroppo anche sbagliando, ci sottraiamo a una pessima apologetica che vorrebbe tutto giustificare a vantaggio di una che sia invece capace di ammettere i propri errori e di chiedere perdono.
Accanto alla purificazione della memoria, nella bolla d’indizione del Giubileo del 2000, il Papa indicava nei martiri la testimonianza preziosa del nostro tempo, soprattutto di quel Novecento che si era chiuso appunto nel segno dei martiri cristiani, mai così numerosi nella storia come durante questo secolo tormentato. E a tutti i cristiani il Pontefice sembrava indicare la strada della semina del Vangelo in un mondo nuovo, post moderno e post cristiano, ancora tutto da decifrare, in preda a una profonda crisi a sfondo nichilistico, dominata da quella che il suo successore Benedetto XVI indicherà con il termine di «dittatura del relativismo».
È la strada di una Chiesa che mette al centro l’umiltà, una caratteristica essenziale del missionario, che deve essere capace di ascoltare prima di proporre, di valorizzare il poco o il tanto bene che trova negli interlocutori, che deve apprezzare l’umanità che incontra e da lì partire per condurre a Cristo: «Oggi non basta più affermare; bisogna prima saper ascoltare, per capire a che punto si trova l’altro nel suo cammino di ricerca o nel suo dramma di sconfitta e di fuga, bisogna spiegare e rendersi attenti all’altrui esigenza. Oggi bisogna aver pazienza, e ricominciare tutto da capo, dai “preamboli della fede” fino ai “novissimi”, con esposizione chiara, documentata, soddisfacente. È necessario formare le intelligenze, con ferme ed illuminate convinzioni, perché solo così si possono formare le coscienze. Soprattutto oggi bisogna far sentire ed inculcare il “senso del Mistero”, la necessità della umiltà della ragione di fronte all’Infinito e all’Assoluto, la logica della confidenza e della fiducia in Cristo e nella Chiesa da lui appositamente voluta e fondata per donare per sempre agli uomini la pace della verità e la gioia della grazia» (15).
Papa Wojtyła sembrava volere dire: non pensiamo a che cosa possa uscire da questa nuova evangelizzazione ma crediamo con certezza che Cristo ci vuole adesso, interamente per Lui, disposti a proporlo a un mondo reso disperato dai suoi sogni ideologici e fallimentari.
Perché in un mondo che muore vi è sempre un piccolo mondo che nasce.
Marco Invernizzi
Note:
(1) Giovanni Paolo II, Udienza generale del 25-8-1999; cfr. anche Pio XII (1939-1958), Radiomessaggio di chiusura del Congresso Catechistico Nazionale degli Stati Uniti, del 26-10-1946.
(2) Giovanni Paolo II, Udienza generale, cit. Gli stessi temi sono trattati in Idem, Lettera enciclica «Sollicitudo rei socialis», del 30-12-1987, nn. 36, 37 e 39, nonché al n. 1869 del Catechismo della Chiesa Cattolica.
(3) Ibidem.
(4) «L’ozio è nemico dell’anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio» (Benedetto da Norcia, Regola, cap. XLVIII, trad. it. disponibile sul sito web <http://ora-et-labora.net/RSB_it.html#Cap48>, consultato il 10-12-2018).
(5) Benedetto XVI (2005-2013), Discorso al mondo della cultura durante l’incontro al Collège des Bernardins a Parigi, del 12-9-2008.
(6) «È tutto un mondo, che occorre rifare dalle fondamenta» (Pio XII, Esortazione ai fedeli di Roma, del 10-2-1952).
(7) Benedetto XVI, Lettera apostolica «Porta Fidei», dell’11-10-2011. La citazione interna è tratta dall’Omelia per l’inizio del ministero petrino del Vescovo di Roma, del 24-4-2005.
(8) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2832.
(9) Giovanni Paolo II, Discorso al Convegno della Chiesa italiana, dell’11-4-1985.
(10) Francesco, Esortazione apostolica «Evangelii gaudium», del 24-11-2013, n. 183.
(11) «Vi fu un tempo in cui la filosofia del Vangelo governava la società: allora la forza della sapienza cristiana e lo spirito divino erano penetrati nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in ogni ordine e settore dello Stato, quando la religione fondata da Gesù Cristo, collocata stabilmente a livello di dignità che le competeva, ovunque prosperava, col favore dei Principi e sotto la legittima tutela dei magistrati; quando sacerdozio e impero procedevano concordi e li univa un fausto vincolo di amichevoli e scambievoli servigi. La società trasse da tale ordinamento frutti inimmaginabili, la memoria dei quali dura e durerà, consegnata ad innumerevoli monumenti storici, che nessuna mala arte di nemici può contraffare od oscurare. Il fatto che l’Europa cristiana abbia domato i popoli barbari e li abbia tratti dalla ferocia alla mansuetudine, dalla superstizione alla verità; che abbia vittoriosamente respinto le invasioni dei Maomettani; che abbia tenuto il primato della civiltà; che abbia sempre saputo offrirsi agli altri popoli come guida e maestra per ogni onorevole impresa; che abbia donato veri e molteplici esempi di libertà ai popoli; che abbia con grande sapienza creato numerose istituzioni a sollievo delle umane miserie; per tutto ciò deve senza dubbio molta gratitudine alla religione, che ebbe auspice in tante imprese e che l’aiutò nel portarle a termine. E certamente tutti quei benefìci sarebbero durati, se fosse durata la concordia tra i due poteri: e a ragione se ne sarebbero potuti aspettare altri maggiori, se con maggiore fede e perseveranza ci si fosse inchinati all’autorità, al magistero, ai disegni della Chiesa» (Leone XIII, Lettera enciclica «Immortale Dei» sulla costituzione cristiana degli Stati, del 1°-11-1885).
(12) Paolo VI, Udienza generale, del 24-9-1969.
(13) La letteratura ostile sul tema è vasta e variegata. Comincia con un breve scritto del teologo domenicano progressista Marie-Dominique Chenu (1895-1990), che nel 1961 pubblica La fine dell’era costantiniana, e arriva fino ai giorni nostri con La Civiltà Cattolica e il testo di padre Antonio Spadaro e di Marcelo Figueroa, Fondamentalismo evangelicale e integralismo cattolico. Un sorprendente ecumenismo (cfr. n. 4010, vol. III, 15 luglio 2017, pp. 105-113). In questi scritti, dai quali certamente emerge una certa antipatia per la civiltà costruita dalla prima evangelizzazione, quella dell’epoca romana, tuttavia si rileva un’ambiguità di fondo perché si fatica a distinguere quando si riferiscono al fatto che l’era costantiniana è finita e la Chiesa deve assumere un atteggiamento missionario da quando invece auspicano che la fede non si incarni in una cultura che dia vita a una nuova civiltà cristiana.
(14) Francesco, Omelia nella Messa al Cimitero Laurentino a Roma, del 2-11-2018.
(15) San Giovanni Paolo II, Discorso al Convegno nazionale «Missione al popolo per gli anni 80», del 6-2-1981.