di Mauro Ronco
1. Il retroterra: la cultura «alternativa» degli anni 1970
Nel linguaggio massmediatico, accolto anche a livello politico e giuridico, si designa come antiproibizionista quella corrente di pensiero che stigmatizza come illiberale e inopportuna la proibizione dell’uso e della circolazione delle droghe, in particolare di quelle cosiddette leggere – la canapa indiana e i suoi derivati -, nonché di quelle aventi effetti psicodislettici, dispercettivi. Una siffatta tendenza ha il suo retroterra nella cultura alternativa, diffusa con vertiginosa – e sospetta – rapidità nella prima metà degli anni 1970 in tutto il mondo occidentale. Il comune buon senso riprovava all’epoca l’uso delle droghe. La cultura alternativa intendeva rovesciare tale giudizio e sosteneva che le droghe, in specie la canapa indiana e i suoi derivati, nonché gli psicodislettici, meritavano un apprezzamento positivo, in quanto idonei a produrre la dilatazione e l’arricchimento dell’esperienza individuale, sì da consentire all’individuo di sgusciare fuori dalla «camicia di forza» della ragione. Timothy Leary (1920-1996), autoproclamatosi gran sacerdote dell’LSD, dichiarava nel 1969 che tale sostanza non soltanto «cambia il modo di pensare», ma è addirittura in grado di «cambiare la natura umana». Nello stesso 1969 i teorici della Marijuana Review proclamavano che «il problema della marijuana è una guerra civile culturale in cui il modo di pensare tradizionale, conformista e conservatore – morale, etico e religioso – urta contro la nuova coscienza, planetaria, dinamica, globale, espansa». Leary aggiungeva che la droga sarebbe stata l’unica via per far assimilare all’uomo occidentale, schiavo di secoli di pensiero logico, il modo di pensare afro-asiatico: «le droghe psichedeliche – scriveva – anneriscono l’uomo bianco». Il sociologo Guido Blumir intitolava un’opera del 1973 La marijuana fa bene; e il filosofo del diritto Giovanni Cosi distingueva fra droghe utilizzabili come mezzi per la dilatazione della coscienza e droghe dannose, sì che la valutazione giuridica si sarebbe dovuta spostare dalla semplice accettazione o negazione in toto della droga al modo in cui usarla come mezzo di espansione della conoscenza: «Droga come mezzo di conoscenza – scriveva in La liberazione artificiale. L’uomo e il diritto di fronte alla droga, del 1979 -: questo è il presupposto, o l’ipotesi, di partenza del nostro tentativo di valutazione filosofica». Fra il 1970 e il 1975, in molti settori della cultura giovanile, la canapa indiana diventa costume di gruppo ed è considerata sinonimo di libertà. La campagna per la sua liberalizzazione viene condotta sul filo della distinzione fra droghe innocue, creative – marijuana e haschisch -, e droghe pesanti o dannose, trascurando che l’uso della canapa e dei suoi derivati rappresenta comunque un pericolo inaccettabile per la salute e svolge la funzione di droga ponte per l’accostamento alle sostanze pesanti.
Gli effetti sociali di una tale cultura sono devastanti. Già negli anni 1974 e 1975 l’eroina, droga dura per antonomasia, comincia a diventare oggetto di consumo di massa. La cultura alternativa, invece di prendere atto del fallimento del modello antropologico cui si ispira – dell’uomo totalmente anomico e libero dai vincoli della legge morale e della solidarietà sociale -, rovescia la responsabilità degli accadimenti sul sistema politico, per aver mantenuto il regime giuridico proibizionistico tanto delle droghe leggere che pesanti, e per aver costretto così il proletariato giovanile all’uso distruttivo di queste ultime. Blumir, nel saggio Eroina, del 1976, sostiene che il sistema proibizionistico delle droghe ha avuto il duplice effetto di criminalizzare il dissenso di massa e di favorire la diffusione dell’eroina a scapito delle droghe creative.
2. Il discorso antiproibizionistico
Al di là delle fumisterie sociologico-politiche, il nucleo concettuale del discorso antiproibizionistico, ben esposto dallo psichiatra di origine ungherese, naturalizzato americano, Thomas S. Szasz, sta nel rovesciamento della motivazione consueta in ordine al rapporto fra il diritto e le droghe: queste non sarebbero proibite perché cagionano un danno, bensì cagionerebbero un danno perché sono proibite. Si vorrebbe liberalizzare la droga per combattere la criminalità: le sostanze definite come leggere dovrebbero essere poste in libera vendita dal monopolio dello Stato e l’eroina, come il metadone e la morfina, dovrebbero essere prescrivibili dai medici e acquisibili con ricetta in farmacia. Si ammetterebbe con ciò, sul piano sociale e giuridico, la «libertà» dell’individuo di provocare a sé stesso, mediante il consumo degli stupefacenti, la distruzione delle strutture portanti della personalità. Il comportamento drogastico dovrebbe essere socialmente giustificato perché espressione di una libertà assoluta, intesa come possibilità di fare quello che si vuole, indipendentemente da ogni vincolo e legame esterno a sé.
Sennonché una siffatta idea di libertà, come possibilità dell’uomo di fare quello che gli aggrada, indipendentemente dalla finalità dell’atto compiuto, è intimamente contraddittoria e porta a conseguenze socialmente devastanti. Gli effetti del preteso atto di «libertà», con cui l’individuo soddisfa il suo piacere tossicomanico, gli tolgono via via la stessa possibilità di compiere altri atti espressivi del suo arbitrio, fino a renderlo totalmente vittima della droga. Se gli effetti dell’uso delle droghe consistono principalmente nello strappare all’uomo la struttura portante degli atti di libera decisione, allora non è estraneo ai compiti dello Stato impedire che si diffonda una tale condizione. Abbandonare gli individui alla propria autodistruzione significherebbe misconoscere il fondamentale principio di solidarietà, che esprime la stessa essenza metafisica della società. La naturale socialità della persona umana manifesta che il destino dell’uomo si compie nella realizzazione dei valori nella società, in unione con le altre persone. La correlazione fra la persona e la società ha carattere non soltanto ontologico, perché esprime il vincolo essenziale che sussiste fra i membri e la società, ma anche etico e normativo, perché esprime ciò che deve essere nella concretezza storica della vita sociale. In questo senso i singoli uomini hanno doveri nei confronti della società, così come quest’ultima ha doveri verso di loro. Ma strappare da sé stessi la struttura portante degli atti che attuano le varie forme di collaborazione con gli altri uomini e consegnarsi all’autodistruzione, significa sottrarsi, in modo radicale e tendenzialmente irrimediabile, ai fondamentali doveri di solidarietà che sono imposti dalla socialità della persona, dall’essenza della vita in comune e dal profilo costituzionale concernente la realizzazione delle potenzialità della persona nella dimensione della solidarietà.
3. Il profilo giuridico costituzionale
L’antiproibizionismo, alla luce di quanto esposto, si presenta socialmente devastante e va, pertanto, respinto. L’ordinamento giuridico della Repubblica Italiana si fa latore, negli articoli 2 e 3 della Costituzione, di un messaggio fondamentale di solidarietà, chiaramente espresso in una direzione biunivoca. Non soltanto, infatti, l’organismo sociale, rappresentato dallo Stato, deve farsi carico, in un’ottica di solidarietà, di rimuovere gli ostacoli, ricollegabili alle ragioni più diverse, che, limitando in concreto l’esercizio della libertà dei cittadini e le disuguaglianze di fatto delle loro condizioni economiche e sociali, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (articolo 3, comma 2 Cost.), ma anche il cittadino deve realizzare le aspirazioni della sua personalità nel quadro dell’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale (articolo 2 Cost.).
Ora, se lo Stato trascurasse di orientare i cittadini, grazie all’opera di promozione esercitata attraverso la funzione legislativa, verso il rispetto di tali doveri e non si preoccupasse del loro adempimento, violerebbe il suo compito inteso a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Se i singoli si mettessero nella condizione, acquisendo modalità di vita tossicomanica, di non adempiere, in via permanente, ai propri doveri di solidarietà sociale, e se lo Stato tollerasse, con tale indifferenza, che ciò accadesse, i doveri previsti dagli articoli 2 e 3 della Costituzione sarebbero parole vane. Le esigenze della solidarietà postulano non soltanto la fornitura di prestazioni della collettività a favore dei singoli, bensì anche la disponibilità di essi, isolatamente considerati o riuniti nelle varie formazioni sociali, a contribuire alle necessità della società. La socialità della persona, invero, più che di debolezza o di limitazione, è rivelativa dell’interiore ricchezza e abbondanza dell’uomo. Strappare da sé stessi la struttura portante degli atti di libera decisione; consegnarsi, mediante l’uso delle droghe, a strutture di mero divenire; progettarsi in una dimensione di vita totalmente estranea rispetto alle esigenze che derivano dal patto sociale significativo, equivale a rifiutarsi in radice a quell’apertura agli altri e a quell’ordinazione di sé stessi alla società, che è condizione fondamentale di vita dell’ordinamento giuridico.
Quanto, poi, all’altro argomento, che vuole giustificare la liberalizzazione degli stupefacenti, secondo cui tale misura comporterebbe l’eliminazione del mercato nero e dei profitti dei trafficanti, è facile coglierne la natura sofistica. Se è naturale che la proibizione degli stupefacenti comporti costi sociali – fra cui il costo di tenere in vita l’apparato di polizia e giudiziario necessario per arrestare e punire i trafficanti -, ancora più ingenti sarebbero i costi sociali – che gli antiproibizionisti sogliono occultare nelle loro discussioni – discendenti dalla libera circolazione degli stupefacenti. A fronte del costo sociale costituito dalla repressione delle droghe, sta il costo umano e sociale recato dal loro uso, che si accrescerebbe inevitabilmente ove esse fossero in libera vendita. Danno umano consistente nella messa in pericolo, per opera dello Stato medesimo, della salute dei cittadini; danno sociale, consistente nell’aumento delle risorse da devolversi per la cura e la riabilitazione dei tossicodipendenti; danno sociale, consistente nell’estraniazione al patto sociale significativo di fasce sempre più vaste di energie personali, soprattutto giovanili.
Per tutti questi motivi, raccogliendo con coraggio la sfida lanciata dagli antiproibizionisti, va detto che la cifra dell’atteggiamento che vuole la proibizione degli stupefacenti è costituita dal valore della solidarietà, in virtù del quale ciascuno deve mantenere, nella misura delle sue capacità, l’essenziale apertura di sé stesso alle esigenze sociali. La libertà nella solidarietà è libertà creativa e costruttiva per il singolo e per la società, a differenza della «libertà» di autodistruzione, che annichila il singolo e intossica la società.
Per approfondire: vedi le radici dell’antiproibizionismo, in Thomas S. Szasz, Il mito della droga. La persecuzione rituale delle droghe, dei drogati e degli spacciatori, trad. it., 2a ed., Feltrinelli, Milano 1980; una critica dell’antiproibizionismo, nel mio Il controllo penale degli stupefacenti. Verso la riforma della L. 685/1975, Jovene, Napoli 1990; l’approfondimento del problema etico connesso all’uso delle droghe, in padre Lino Ciccone C.M., Salute & Malattia. Questioni di morale della vita fisica, Ares, Milano 1986, pp. 323-436; l’antropologia dei comportamenti drogastici, in Max Beluffi, Antropologia sociale dei comportamenti drogastici, in Droga e società italiana. Indagine del Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale e dell’Amministrazione Provinciale di Milano, Giuffrè, Milano 1974, pp. 539-584; una completa informazione sul piano giuridico, in Giuseppe Amato e Giorgio Fidelbo, La disciplina penale degli stupefacenti, Giuffrè, Milano 1994; un punto sulla situazione italiana, in Alfredo Mantovano, Aggiornamento dal fronte della lotta contro la droga, in Cristianità, anno XXV, n. 264, aprile 1997, pp. 3-12; e due documenti di diversa autorevolezza: Il punto di vista della Società Italiana di Farmacologia (SIF) sulla proposta di liberalizzazione delle «droghe leggere», del 3-6-1995, ibid., anno XXIII, n. 247-248, novembre-dicembre 1995, pp. 16-20; e Pontificio Consiglio per la Famiglia, Liberalizzazione della droga? «La droga non si vince con la droga», del 22-1-1997, ibid., anno XXV, n. 261-262, gennaio-febbraio 1997, pp. 3-6.