Oscar Sanguinetti, Cristianità n. 267-268 (1997)
Due opere di Aleksandr Isaevic Solzenicyn pubblicate in italiano nel 1996 offrono importanti elementi per conoscere una Vandea russa degli anni 1920, la rivolta popolare anticomunista di Tambov e delle zone limitrofe — nella regione agricola compresa fra i fiumi Don e Volga —, un’insorgenza guidata da Aleksandr Stepanovic Antonov, e da lui chiamata «Antonovscina».
L’«Antonovscina», la rivolta anticomunista di Tambov nella Russia degli anni 1920
1. Premessa
Dalla Vandea francese del secolo XVIII alla rivolta dei contadini messicani — i cristeros — negli anni 1920, a misura che la modernità politica si afferma e inizia a rimodellare le nazioni secondo la propria ideologia — prima illuminista e giacobina, quindi liberale, infine socialista e comunista — pressoché ovunque e quasi automaticamente si manifestano resistenze e moti di reazione delle quali sono protagonisti soprattutto i ceti popolari. Sconfitti storicamente, di questi movimenti si perde la memoria — la storia è perlopiù scritta dai vincitori — e i tentativi per ricuperarla si infrangono ancor oggi contro la mancanza di fonti — spesso distrutte — e contro il pervicace ostruzionismo del potere, del quale l’ideologia costituisce tuttora elemento primario di legittimazione.
2. L’insorgenza russa
Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda la resistenza popolare che si manifesta nel quadro della Rivoluzione comunista russa già all’indomani dell’Ottobre 1917. Su di essa non solo l’interpretazione, ma anche la semplice informazione storica — almeno al di fuori dell’ex Unione Sovietica — è assai carente (1).
La fisionomia di questa vicenda si può però ricostruire per sommi capi avvalendosi dei cenni, non episodici, che al tema fa Aleksandr Isaevic Solzenicyn — il grande scrittore russo, indomito oppositore del comunismo sovietico — nelle sue opere storico-letterarie.
Un iniziale squarcio di luce sulla vicenda si trova nel primo volume della trilogia Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa (2), allorché l’ autore, nel tentativo di ricostruire le fonti dell’ininterrotto flusso di uomini — comunità, gruppi religiosi, categorie sociali, etnie intere — che, mentre il socialismo reale si afferma, va a popolare lo sterminato universo concentrazionario del regime, si imbatte — fra l’altro — nel fenomeno delle sommosse popolari contro la collettivizzazione forzata delle campagne negli anni dal 1918 al 1922.
«Se oggi riflettiamo sugli anni 1918-20 ci troviamo imbarazzati: dobbiamo includere — si domanda Solzenicyn, sottolineando la durezza dello scontro e della repressione, nonché la cortina di silenzio calata sui fatti — nelle fiumane dei carcerati tutti coloro che furono fatti fuori senza che avessero raggiunto la cella? […] Facevano in tempo a porre piede sulla terra dell’Arcipelago i cospiratori che prendevano parte ai complotti, scoperti a grappoli, in ogni governatorato il suo (due a Rjazan, a Kostroma, Vysnevolock, Veliz, diversi a Kiev, diversi a Mosca, a Saratov, Cernigov , Astrachan, Seliger, Smolensk, Bobrujsk, quello della cavalleria a Tambov, a Cembar, Velikie Luki, Mstislavl, e altri), o non ne avevano il tempo e quindi non possono fare oggetto della nostra ricerca? A parte la repressione di alcune sommosse famose (di Jaroslavl, Murom, Rybinsk, Arzamas), noi conosciamo certi eventi solo di nome» (3).
Il movente che spingeva i contadini a ribellarsi era triplice: la leva obbligatoria, le requisizioni forzate a vantaggio dell’Armata Rossa e l’ammasso coatto del raccolto nei depositi statali. «Da quell’estate [1920] la campagna, sforzandosi al di là delle proprie possibilità, consegnò il raccolto gratuitamente anno dopo anno. Questo provocò rivolte contadine e conseguenti loro repressioni e arresti. […] Alla fine dello stesso anno avviene lo sgominamento preventivo della rivolta contadina di Tambov (in questo caso non vi fu processo)» (4).
Né mancavano motivazioni di difesa della libertà e delle tradizioni religiose. «Nel 1918, per accelerare anche la vittoria culturale della rivoluzione, si cominciò a sventrare e buttare via le spoglie mummificate dei santi e a confiscare gli arredi sacri. Sommosse popolari divamparono a difesa delle chiese e dei monasteri saccheggiati. Qua e là le campane suonavano a stormo e i credenti accorrevano, qualcuno munito di bastone. Naturalmente fu necessario liquidare qualcuno sul posto, arrestare altri» (5).
Solzenicyn è tornato sul tema dell’insorgenza contadina russa durante la sua visita in Francia nel 1993 per partecipare alle celebrazioni dell’insurrezione vandeana. «Numerosi procedimenti crudeli della Rivoluzione francese — ha affermato in quella sede lo scrittore russo — sono stati docilmente applicati di nuovo sul corpo della Russia dai comunisti leniniani e dagli specialisti internazionalisti, soltanto il loro grado di organizzazione e il loro carattere sistematico hanno ampiamente superato quelli dei giacobini.
«Non abbiamo avuto un Termidoro, ma — e ne possiamo esser fieri nella nostra anima e nella nostra coscienza — abbiamo avuto la nostra Vandea, e più d’ una. Sono le grandi rivolte contadine, quella di Tambov nel 1920-1921, della Siberia occidentale nel 1921. Un episodio ben noto: folle di contadini con calzature di tiglio, armate di bastoni e di forche hanno marciato su Tambov, al suono delle campane delle chiese del circondario, per essere falciati dalle mitragliatrici. L’insurrezione di Tambov è durata undici mesi, benché i comunisti per reprimerla abbiano usato carri armati, treni blindati, aerei, benché abbiano preso in ostaggio le famiglie dei rivoltosi e benché fossero sul punto di usare gas tossici. Abbiamo avuto anche una resistenza feroce al bolscevismo da parte dei cosacchi dell’Ural, del Don, del Kuban, del Terek, soffocata in torrenti di sangue, un autentico genocidio» (6).
3. Un nuovo contributo di Aleksandr I. Solzenicyn
Nel 1995 lo scrittore russo, ormai quasi ottantenne — è nato nel 1918 — fornisce un ulteriore contributo con due brevi racconti — Ego e Per linee interne, tradotti in italiano sotto l’unico titolo di Ego (7) —, nei quali l’insorgenza contadina fa da sfondo, ma uno sfondo che balza spesso in primo piano. È la narrazione della vicenda umana di due figure, quella di un vinto della Contro-Rivoluzione — il personaggio di fantasia Pavel Vasilevic Ektov, detto, per un malinteso mai volontariamente sciolto, «Ego» —, e, invece, di quella di un vincitore, un personaggio vero: il futuro conquistatore di Berlino, maresciallo ed eroe dell’URSS, Georgij Konstantinovic Zukov (1896-1974).
4. «Ego»
La rivolta evocata in entrambi i racconti è quella di Tambov e delle zone limitrofe — circa quattrocento chilometri a sud-est di Mosca, nella ricca regione agricola compresa fra i fiumi Don e Volga. Di essa, dopo esordi autocefali, prende la guida il socialrivoluzionario Aleksandr Stepanovic Antonov (1885-1922), già oppositore del regime zarista e già in armi contro il governo sovietico. Alla rivolta — ricordata come l’Antonovscina — nel primo racconto (8) finisce per aderire, spinto da ragioni di giustizia, anche il mite intellettuale democratico ed esperto di problemi agrari Ektov. Nelle campagne le requisizioni forzate venivano condotte da reparti speciali dell’Armata Rossa — i cosiddetti «reparti alimentari» — e si traducevano spesso in razzie nei villaggi e in violenze di ogni tipo, talora concluse con la fucilazione di qualche contadino riottoso, per dare l’esempio. «I contadini li chiama- vano “i Neri” (Cernye), forse pensando al diavolo (cërt), o forse perché tra loro c’erano molti non-russi» (9). La rivolta nel dipartimento di Tambov scoppia così nell’agosto del 1919, senza alcun impulso o sostegno — come sottolinea lo scrittore — da parte del «[…] clero ortodosso, che “non è di questo mondo”, che non si univa ai ribelli, non era il loro ispiratore, come era accaduto [in Vandea] per il combattivo clero cattolico; i preti se ne restavano prudentemente chiusi nelle loro parrocchie, nelle loro case, pur sapendo che i Rossi, se arrivavano, sarebbero stati comunque capacissimi di fracassare loro la testa. (Così, a Kamenka, il prete Michail Molcanov fu ammazzato senza nessun motivo)» (10). «Non è facile, no davvero — osserva Solzenicyn —, smuovere i contadini russi, ma quando la pasta fermenta e si gonfia, niente può più contenerla nei limiti della ragione» (11). Quindi, «muovendo da Knjaze-Bogorodickoe, sempre nel distretto di Tambov, una folla di contadini in calzari di tiglio, pervasa dal sacro fuoco della giustizia, si mosse per “prendere Tambov” con accette, forche da fieno e forchettoni da cucina: così, con le stesse forche, marciavano i loro avi al tempo dei tatari. Accompagnata dal suono delle campane dei villaggi che attraversava e crescendo lungo il cammino, la folla avanzò verso il capoluogo fino al villaggio di Kuzmina Gat, dove i malcapitati vennero falciati, senza potersi difendere, dalle mitragliatrici, e i sopravvissuti dispersi.
«Allora, come un incendio che corre da un tetto di paglia all’altro, l’insurrezione si propagò di colpo in tutto il distretto, estendendosi anche a quelli di Kirsanov e Borisoglebsk: dappertutto furono massacrati i comunisti locali (ci si misero anche le donne, coi falcetti), le sedi dei Soviet saccheggiate, le comuni e i sovchoz sciolti. I comunisti e gli attivisti scampati si rifugiarono a Tambov» (12).«Quanto a Pavel Vasilevic, lasciò la città e partì alla ricerca del presunto centro dell’insurrezione.
«E lo trovò sotto una forma mobile — quella di un pugno di uomini raggruppati attorno ad Aleksandr Stepanovic Antonov» (13). Benché privo di armi e di ufficiali adeguati, il movimento di Antonov conduce una vivace guerriglia partigiana, basata su rapidi e incisivi attacchi condotti dalla cavalleria — l’unica tattica in un terreno del tutto pianeggiante come le campagne di Tambov —, contro i bolscevichi. Al culmine del successo, la rivolta potrà schierare oltre dieci reggimenti di millecinquecento-duemila uomini ciascuno. I quadri sono costituiti da ex graduati della guerra mondiale, mentre nei ranghi figurano «[…] anche semplici contadini che fino al giorno prima conoscevano solo l’aratro di legno» (14). «In novembre Antonov marciò su Tambov col grosso delle forze creando grande scompiglio tra le autorità locali (le quali abbatterono querce centenarie per sbarrare le strade di accesso, installarono mitragliatrici sui campanili)» (15). Ma, «a venti verste da Tambov, a Podosklej-Rozdestvenskoe, gli insorti, dopo una grossa battaglia, dovettero battere in ritirata» (16). Nonostante la battuta d’arresto, l’afflusso di nuovi, più massicci rinforzi «rossi» e la tattica di occupazione militare del territorio utilizzata dai bolscevichi — inclusa la sistematica presa di ostaggi fra i familiari dei combattenti contro-rivoluzionari —, «[…] l’ insurrezione non si placava. Benché, con l’avanzare dell’autunno e poi l’arrivo dell’inverno, per i partigiani diventasse sempre più difficile nascondersi e bivaccare, il numero dei loro reggimenti aumentava. Le requisizioni messe in atto dai reparti rossi e il puro e semplice saccheggio al quale si abbandonavano quando si spartivano sul posto, sotto gli occhi dei contadini, quello che avevano appena finito di requisire, percuotendo gli anziani o anche bruciando da cima a fondo il villaggio — come fecero ad Afanasevka, a Babino, dove cacciarono vecchi e bambini nella neve, e si era all’inizio dell’inverno — tutto questo dava nuovo impulso al movimento insurrezionale» (17). Il racconto prosegue narrando come Pavel Vasilevic Ektov, infermatosi e ricoverato in una capanna di un villaggio, viene denunciato da una vicina e arrestato dalla Ceka, la «Commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio», cioè la polizia politica comunista. Condotto a Mosca e sottoposto per quattro mesi a duri interrogatori e alla tortura, con la moglie e la figlioletta presi in ostaggio dai «rossi», «Ego», entrato nella rivolta per ragioni ideali, preso nell’ingranaggio, deve alla fine rinunciare alle sue convinzioni morali più profonde e accettare di fare il doppio gioco, collaborando a far infiltrare reparti «rossi» — «[…] uno squadrone: cavalieri che invece delle uniformi dell’Armata Rossa vestivano abiti contadini, però tutti con gli stivali. Berretti di montone, alti colbacchi. Alcuni, non tutti, sfoggiavano le bande rosse cosacche sui pantaloni» (18) — nelle file degli insorti di Antonov, per sbaragliare una delle ultime colonne ancora attive — la durezza della repressione bolscevica stava avendo ragione dell’Antonovscina —, quella comandata dai fratelli Miska e Ivan Sergeevic Matjuchin. A dispetto dei tentennamenti e dell’orrore per la violenza di Ektov l’impresa riesce e si conclude con il massacro dei capi e con la liquidazione dell’intero reparto di insorti anticomunisti — circa cinquecento uomini — mentre riposano in un dopocena nelle isbe di un villaggio. Antonov morirà in combattimento nel giugno del 1922.
5. «Per linee interne»
Nel secondo racconto, Per linee interne (19), nel quale il tema dell’insorgenza è meno centrale, Solzenicyn rievoca invece la «prodigiosa ascesa» — e la successiva caduta in disgrazia — dell’eroe della «guerra patriottica» 1941- 1945 ed eroe dell’Unione Sovietica, maresciallo Zukov. Nativo di Kaluga, a sud-est di Mosca, in una zona di insurrezioni contadine, cadetto destinato ai quadri superiori dell’esercito sovietico, egli costruisce la sua carriera proprio nella repressione dei movimenti popolari anticomunisti. Si era messo in luce dapprima nell’estate del 1920, quando ormai la guerra civile volgeva al termine — i generali «bianchi» erano stati sconfitti: l’ultimo era stato Anton Ivanovic Denikin (1872-1947), mentre restava in armi il solo Petr Nikolaevic Vrangel (1878-1928) —, contro i cosacchi del Kuban, nel nord del Caucaso, all’altezza della Crimea. Poi, nel dicembre dello stesso anno, aveva combattuto nella provincia di Voronez, a sud-ovest di Tambov, contro la «banda» Kolesnikov. Nel febbraio del 1921 passa infine nella zona di Tambov — dove gli insorti, «[…] secondo il commissario del reggimento, alla fine di febbraio avevano messo insieme trentatremila baionette, ottomila sciabole, quattrocentosessanta mitragliatrici e sessanta cannoni» (20) — e partecipa con il suo squadrone di cavalleria all’offensiva contro gli ultimi fuochi dell’Antonovscina. Le operazioni militari sono condotte dai «rossi» con grande dispiegamento di mezzi moderni che vedono anche l’impiego dell’aviazione. Massacri sono commessi da entrambe le parti durante le rapide incursioni nei villaggi. La Ceka, dal canto suo, non sta con le mani in mano: a Zerdevka «avevano scavato una grande fossa, facevano sedere i condannati sul bordo, con la faccia rivolta allo scavo, le braccia legate. Subin [il capo dei cekisti] e i suoi aiutanti andavano avanti e indietro, sparando alla nuca» (21). «In maggio, a reprimere i banditi di Tambov venne da Mosca, con pieni poteri, una commissione del Comitato centrale esecutivo panrusso, capeggiata anch’essa da un Antonov, però Antonov-Ovseenko. A capo dell’Armata Speciale di Tambov arrivò il comandante d’armata Tuchacevskij, in precedenza comandante del fronte occidentale e reduce dalla resa dei conti con la Polonia» (22). Il famoso generale bolscevico Mihail Nikolaevic Tuchacevskij (1893-1937) — più prestigioso nella lotta contro i suoi compatrioti che contro il nemico esterno, essendo stato sconfitto pochi mesi prima sulla Vistola dai polacchi del maresciallo Jozef Pilsudski (1867-1935) — riorganizza e potenzia la repressione, e compie una mossa vincente dotando i reparti di apparecchi radiotrasmittenti, che accrescevano enormemente le possibilità di coordinamento fra le unità e vanificavano i movimenti di sganciamento della cavalleria antonoviana dopo ogni assalto. I «rossi» non esitano neppure davanti all’impiego dei gas tossici. Un’ordinanza segreta — la n. 0116 — del comandante d’armata nell’estate del 1921 recitava: «Ripulire le foreste dove si nascondono i banditi mediante gas tossici. Calcolare con esattezza che la nube di gas asfissianti arrivi ad espandersi in tutta la foresta, annientando tutto ciò che vi si nasconde. Il comandante Tuchacevskij» (23).
Nella restante parte del racconto è descritta con fine ironia la carriera di Zukov all’interno dell’esercito e del partito comunista, sulla scia dell’impulso datogli dal prestigioso condottiero bolscevico. L’ascesa nei gradi, la sopravvivenza alle purghe staliniane della fine degli anni 1930, la guerra in Manciuria e poi contro la Finlandia nel 1939, l’ingresso nel comitato centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e, soprattutto, la guerra contro la Germania hitleriana — in particolare, il successo nella difesa di Mosca nel 1941, il vittorioso assedio sostenuto a Leningrado, la prima controffensiva del dicembre 1942, la gigantesca battaglia di carri armati di Kursk nel 1943, infine, la travolgente avanzata prima nei Balcani e poi, attraverso la Polonia, verso la capitale del Reich e, da ultima, la conquista di Berlino, che costò all’Armata Rossa circa trecentomila caduti — ne sono le tappe fondamentali. Quest’ultimo successo segna l’apoteosi del piccolo comandante di cavalleria, vicino alla cinquantina, resosi famoso da giovane nella repressione dei suoi compatrioti anticomunisti. Tornata la pace e superata l’inimicizia del potente capo dell’NKVD — «Commissariato del Popolo degli Affari Interni» — staliniana Lavrenti Pavlovic Berija (1899-1953), la carriera di Zukov proseguirà ancora fino al ruolo di ministro della Difesa dell’URSS sotto Nikita Sergeevic Chruscev (1894-1971). Poi, all’inizio del 1958, improvvisa, avviene la caduta: la destituzione da ministro — durante un viaggio in Jugoslavia —, poi, a Mosca, l’espulsione dal Politbjuro e dal comitato centrale del PCUS, infine il pensionamento, a opera di Chruscev. La folgorante parabola del maresciallo — mette in luce Solzenicyn— non è stata scevra di costi morali, nei quali egli non ha esitato per ambizione a incorrere, ma che alla fine, preso anch’egli nel meccanismo della storia e del potere ideologico, non gli varranno altro che un ozioso oblio, nel quale redigerà un libro di memorie (24), che verrà edito dieci anni più tardi, dopo mille vicissitudini dovute alle lotte di potere in URSS.
6. Conclusioni
Questo frammento di storia russa degli anni 1910-1920, ricuperabile grazie alla ricerca e alla pregevole narrativa di Solzenicyn, aiuta senza dubbio a capire meglio come mai, quando le armate tedesche nel 1941 invaderanno l’URSS, gli eredi dei cosacchi e dei contadini, stanchi dell’ateismo e del collettivismo, le accoglieranno a braccia aperte, anzi si schiereranno al loro fianco contro il comune nemico bolscevico e solo a causa della cecità ideologica dei nazionalsocialisti non riusciranno a rovesciare il regime comunista, andando invece incontro all’autentico martirio del rimpatrio forzato al momento della sconfitta tedesca. Sotto un altro aspetto, questi sprazzi di luce fanno intravedere meglio i contorni di una realtà di gigantesche proporzioni, che merita di essere studiata e conosciuta non solo per amore di verità storica, ma anche per onorare la memoria dei protagonisti e delle vittime di una grande guerra pro aris et focis. «Non abbiamo avuto un Termidoro» — ha acutamente osservato nel 1993 lo scrittore russo nel discorso francese sopra citato —: quest’opera di ricerca e di pietà storiche è quindi tutta da compiere.
Sotto il profilo letterario — detto da semplice lettore e senza pretese «critiche» — noto che la ricchezza e la vivacità delle immagini, la straordinaria capacità di trasmettere al lettore atmosfere e sensazioni del paesaggio naturale e umano della vecchia Russia, l’acuta ricostruzione della psicologia dei personaggi, l’intenso ritmo narrativo rendono questi due schizzi letterari un pregevole esempio di letteratura storica, che non va mai a discapito della serietà della ricerca. Esempio che, anzi, dovrebbe essere valutato con grande cura da tanti che scrivono e di storia e di letteratura. A mio avviso rievocare una pagina dell’insorgenza russa, anche nei termini descritti, costituisce già un degno, se pur minimo, monumento alla memoria di quanti hanno speso la loro vita nella resistenza contro il comunismo.
Oscar Sanguinetti
Note:
(1) Cfr. WILLIAM H. CHAMBERLIN, Storia della rivoluzione russa, trad. it., Einaudi, Torino 1942, vol. I, La rivolta contadina, pp. 329-352, e vol. II, Denikìn e la Vandea cosacca, pp. 183-204; PAOLO VITA-FINZI, Terra e libertà in Russia ieri e oggi, Pan Editrice, Milano 1972; MIHAIL GELLER e ALEKSANDR NEKRIC, Storia dell’URSS dal 1917 a oggi. L’utopia al potere, trad. it., Rizzoli, Milano 1984, pp. 107-119; W. BRUCE LINCOLN, I Bianchi e i Rossi. Storia della guerra civile russa, trad. it., Mondadori, Milano 1994; ALAIN BESANÇON, La guerra dei bolscevichi contro i contadini, in AA. VV., La Vandea, trad. it., Corbaccio, Milano 1995, pp. 205-210; M. HELLER [GELLER], La Rivoluzione russa nello specchio della Vandea, ibid., pp. 219-233; e RENATO CIRELLI, La guerra civile russa (1917- 1920), in IDIS. ISTITUTO PER LA DOTTRINA E L’INFORMAZIONE SOCIALE, Voci per un «Dizionario del Pensiero Forte», a cura di Giovanni Cantoni, con una presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 209- 214. Maggiormente focalizzato sul massacro dei contadini detti kulaki degli anni 1930, cfr. ROBERT CONQUEST, The Harvest of Sorrow, Oxford University Press, New Y ork 1986.
(2) Cfr. ALEKSANDR ISAEVIC SOLZENICYN, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, trad. it., 2a ed., 3 voll. in 6 tomi, Mondadori, Milano 1995.
(3) Ibid., vol. I, pp. 44-45.
(4) Ibid., p. 49.
(5) Ibid., p. 44.
(6) IDEM, Discorso di Les Lucs-sur-Boulogne, del 25-9-1993, trad. it., Onore alla memoria della resistenza e del sacrificio degl’insorti vandeani del 1793 contro la Rivoluzione, in Cristianità, anno XXI, ottobre 1993, n. 222, pp. 13-14, trascritto — rivedendo il testo sulla base dell’originale in russo — come Discorso sulla Vandea, in IDEM, La verità è amara. Scritti, discorsi e interviste (1974-1995), con un saggio intro- duttivo di Aldo Ferrari, Minchella, Milano 1995, pp. 159-162 (pp. 161-162).
Con «Termidoro» lo scrittore russo intende il 9 termidoro dell’anno II, ovvero il 27 luglio 1794, data in cui Maximilien de Robespierre (1758-1794) cade in disgrazia, nonché il periodo di governo rivoluzionario successivo al Terrore, retto dal Comitato di Salute Pubblica. Spesso si ritiene che il Termidoro sia stata un sorta di «reazione» radicalmente opposta al Terrore giacobino. In realtà, anche se le misure terroristiche vengono in parte attenuate e ritirate dai membri della Convenzione Nazionale — l’organo legislativo e costituente —, si tratta piuttosto di un rallentamento della marcia rivoluzionaria che non di un suo vero mutamento, a fronte di un paese esaurito dalla furia omicida e distruttrice del Comitato di Salute Pubblica, nonché di un capitolo di una feroce lotta di potere ai vertici. Ciò nonostante, il Termidoro permise di far luce su certi crimini robespierriani e di fermare il genocidio della Vandea Militare. Come una sorta di destalinizzazione chrusceviana ante litteram, anche la cosiddetta «reazione termidoriana» ha le sue «invasioni d’ Ungheria».
Sul punto, sono illuminanti le considerazioni di REYNALD SECHER, Dal genocidio vandeano al «memoricidio», intervista a cura di Marco Respinti, in Cristianità, anno XXI, n. 224, dicembre 1993, pp. 5-16 (p.12). Cfr. anche la voce Reazione termidoriana in JEAN TULARD, JEAN-FRANÇOIS FAYARD e ALBERT FIERRO, Dizionario storico della Rivoluzione francese, trad. it., Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 841: «Questa denominazione è del tutto aberrante ed è stata inventata dagli storici favorevoli al TERRORE. Alla caduta di ROBESPIERRE non vi fu nessuna “reazione”. Il potere restò nelle mani di regicidi, repubblicani, ex terroristi che si limitarono a porre fine alle esecuzioni in massa del Gran Terrore. La ghigliottina continuò a funzionare, solo con minore frequenza, le teste dei sostenitori di Robespierre caddero, ma continuarono a cadere anche quelle dei preti refrattari e dei fautori della monarchia. La linea politica dei Termidoriani corrisponde al sogno di [Georges-Jacques] DANTON [1759- 1794]: una repubblica rigorosa ma moderatamente repressiva. La presenza della GIOVENTÙ DORATA, chiassosa ma priva di potere politico, non è sufficiente per trasformare i Termidoriani in reazionari che volevano restaurare la monarchia».
(7) Cfr. IDEM, Ego, trad. it. di Sergio Rapetti, Einaudi, Torino 1996, con Note del Traduttore.
(8) Cfr. IDEM, Ego, ibid., pp. 1-42.
(9) Ibid., p. 7.
(10) Ibid., p. 18.
(11) Ibid., p. 10.
(12) Ibid., pp. 10-11.
(13) Ibid., p.12.
(14) Ibid., p.17.
(15) Ibidem.
(16) Ibid., p. 18.
(17) Ibid., p. 23.
(18) Ibid., p. 35.
(19) Cfr. IDEM, Per linee interne, ibid., pp. 43-102
(20) Ibid., p. 47.
(21 ) Ibid., p. 53.
(22) Ibidem.
(23) Ibid., p. 60.
(24) Cfr. GEORGIJ KONSTANTINOVIC ZUKOV, Memorie e battaglie, trad. it., Rizzoli, Milano 1970.