Quest’anno ricorre il 130esimo anniversario della lettera enciclica Rerum Novarum di S.S. Papa Leone XIII, dedicata al tema della “questione operaia” in un frangente storico caratterizzato da tensioni crescenti tra capitale e lavoro, sia in conseguenza dell’abolizione delle corporazioni di arti e mestieri nel secolo precedente, sia per le contraddizioni della Rivoluzione industriale, su cui soffiavano gli agitatori socialisti per spingere alla lotta di classe. Un insegnamento sempre valido, anche nelle nostre società post-industriali
di Maurizio Milano
«Rerum novarum cupiditas», cioè «l’ardente brama di novità»: è l’incipit della celebre enciclica di S.S. Papa Leone XIII (1878-1903), con la quale si inaugura la “dottrina sociale della Chiesa” nell’era moderna. Non si tratta, come talvolta si scrive, di un inizio ex-nihilo: essendo l’uomo un essere sociale per natura, l’insegnamento teologico morale della Chiesa si è interessato, fin dagli esordi, alla vita relazionale delle persone, dal contesto della famiglia alla dimensione sociale, culturale, economica e politica. La dottrina sociale della Chiesa si è sviluppata organicamente nel corso dei secoli, e non soltanto a livello di dottrina, ma anche di vita vissuta che ha costituito la civiltà cristiana, con le sue molteplici istituzioni: ospedali, università, società di mutuo soccorso, corporazioni di arti e mestieri, monti dei pegni, opere varie di assistenza e promozione del lavoro realizzate dai santi. Un sapere teorico-pratico, coerente con la luce soprannaturale della fede nel Logos incarnato e quindi conforme anche al lume naturale della ragione.
È tuttavia corretto affermare che l’enciclica Rerum Novarum (di seguito “RN”) rappresenti l’inizio della fase moderna della dottrina sociale della Chiesa, intesa come sollecitudine pastorale a fronte delle nuove sfide portate dalla Rivoluzione industriale: i cambiamenti profondi non solo a livello economico, ma anche sociale, con l’inurbamento, le nuove fabbriche e il passaggio, a volte traumatico, da una società contadina a una società proto-industriale. Tutto questo, se da un lato ha aperto nuove opportunità, dall’altro ha anche fatto emergere nuove forme di povertà e sfruttamento. A fronte della cosiddetta “questione operaia” si prospettava la “soluzione” del socialismo scientifico, il cui punto centrale era l’abolizione della proprietà privata con la collettivizzazione dei mezzi di produzione e la lotta di classe. Il messaggio centrale della RN è che la pretesa “soluzione” proposta dal pensiero socialista è in realtà un’illusione, che pretendendo di alleviare dei mali, reali, rischia in realtà di aggravarli. Scrive Papa Pecci: «A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l’eguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono che il male sia radicalmente riparato. Ma questa via, non che risolvere le contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale» (RN,3).
«Per la sterminata ampiezza del suo conoscimento, che abbraccia, oltre il presente, anche l’avvenire, e per la sua libertà, l’uomo sotto la legge eterna e la provvidenza universale di Dio, è provvidenza a sé stesso. Egli deve dunque poter scegliere i mezzi che giudica più propri al mantenimento della sua vita, non solo per il momento che passa, ma per il tempo futuro. Ciò vale quanto dire che, oltre il dominio dei frutti che dà la terra, spetta all’uomo la proprietà della terra stessa, dal cui seno fecondo deve essergli somministrato il necessario ai suoi bisogni futuri. Giacché i bisogni dell’uomo hanno, per così dire, una vicenda di perpetui ritorni e, soddisfatti oggi, rinascono domani. Pertanto la natura deve aver dato all’uomo il diritto a beni stabili e perenni, proporzionati alla perennità del soccorso di cui egli abbisogna, beni che può somministrargli solamente la terra, con la sua inesauribile fecondità. Non v’è ragione di ricorrere alla provvidenza dello Stato perché l’uomo è anteriore alto Stato: quindi prima che si formasse il civile consorzio egli dovette aver da natura il diritto di provvedere a sé stesso» (RN,6). E ancora: «essendo il consorzio domestico logicamente e storicamente anteriore al civile, anteriori altresì e più naturali ne debbono essere i diritti e i doveri. Che se l’uomo, se la famiglia, entrando a far parte della società civile, trovassero nello Stato non aiuto, ma offesa, non tutela, ma diminuzione dei propri diritti, la civile convivenza sarebbe piuttosto da fuggire che da desiderare» (RN,10).
«Ed oltre l’ingiustizia, troppo chiaro appare quale confusione e scompiglio ne seguirebbe in tutti gli ordini della cittadinanza, e quale dura e odiosa schiavitù nei cittadini. Si aprirebbe la via agli asti, alle recriminazioni, alle discordie: le fonti stesse della ricchezza, inaridirebbero, tolto ogni stimolo all’ingegno e all’industria individuale: e la sognata uguaglianza non sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria. Tutte queste ragioni danno diritto a concludere che la comunanza dei beni proposta dal socialismo va del tutto rigettata, perché nuoce a quei medesimi a cui si deve recar soccorso, offende i diritti naturali di ciascuno, altera gli uffici dello Stato e turba la pace comune. Resti fermo adunque, che nell’opera di migliorare le sorti delle classi operaie, deve porsi come fondamento inconcusso il diritto di proprietà privata» (RN,12). Leone XIII prosegue: «l’inviolabilità del diritto di proprietà è indispensabile per la soluzione pratica ed efficace della questione operaia. Pertanto le leggi devono favorire questo diritto, e fare in modo che cresca il più possibile il numero dei proprietari. Da qui risulterebbero grandi vantaggi, e in primo luogo una più equa ripartizione della ricchezza nazionale» (RN,35). Con riferimento al diritto naturale di associazione, funzionale alla crescita di una società articolata e solida, Papa Pecci rivolge un severo monito ai governi: «non fare il male sotto pretesto del pubblico bene. Poiché le leggi non obbligano se non in quanto sono conformi alla retta ragione, e perciò stesso alla legge eterna di Dio (Cfr. S. Th. I-II, q. 13, a. 3)» (RN,38).
Un’enciclica rivelatasi indubbiamente profetica se pensiamo alla catastrofe antropologica del “socialismo reale” in tutti i Paesi in cui tale nefasta dottrina è stata applicata. Un monito ancora attuale, tuttavia, anche nelle “democrazie liberali” post-industriali, alla luce dei crescenti attacchi alla proprietà privata, non tanto sul piano teorico o giuridico, ma a livello concreto: pensiamo all’elevata e crescente pressione fiscale degli Stati moderni, a cui si sono aggiunte, nell’ultimo quarto di secolo, le politiche monetarie sempre più espansive delle Banche centrali, con la repressione finanziaria dei rendimenti obbligazionari verso/sotto lo zero e il conseguente rialzo dei prezzi del carrello della spesa. Tasse e imposte eccessive, congiuntamente a rendimenti reali negativi, producono trasferimenti opachi e iniqui di ricchezza, compromettono il risparmio e indeboliscono il potere d’acquisto dei redditi fissi. Tutto ciò diminuisce l’indipendenza, l’autonomia e la sovranità della famiglia e compromette la tenuta stessa della società civile, schiacciata dall’invadenza del settore pubblico, che accentra tutte le risorse e decide tutti i fini, facendo contrarre anno dopo anno la classe media, spina dorsale di una società articolata e vitale: una sorta di «socialismo finanziario», subdolo e quindi ancora più pericoloso, nella prospettiva di quel “Great Reset” del sistema sociale, economico e politico perseguito dall’agenda del World Economic Forum di Davos.
Come ammonisce Papa Leone XIII, «se ai mali del mondo v’è un rimedio, questi non può essere altro che il ritorno alla vita e ai costumi cristiani. È un solenne principio questo, che per riformare una società in decadenza, è necessario riportarla ai principi che le hanno dato l’essere, la perfezione di ogni società è riposta nello sforzo di arrivare al suo scopo: in modo che il principio generatore dei moti e delle azioni sociali sia il medesimo che ha generato l’associazione. Quindi deviare dallo scopo primitivo è corruzione; tornare ad esso è salvezza» (RN, 22). Nella prospettiva di creare le condizioni di un rinnovamento futuro all’interno di un mondo che muore, tale insegnamento rimane prezioso; nella consapevolezza fiduciosa, ricordata dallo scrittore inglese J.R.R. Tolkien (1892-1973) nel Signore degli Anelli, che «c’è del buono in questo mondo…è giusto combattere per questo».
Martedì, 5 ottobre 2021