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LE COLPE DELLA CRISI E LA “STRATEGIA UNIFICATA”

24 Dicembre 1975 - Autore: Alleanza Cattolica

Giovanni Cantoni, Cristianità n. 14 (1975)

Uno dei caratteri dominanti dello stato psico-sociale dell’Italia degli anni Settanta – sarebbe possibile una analisi anche più estesa nel tempo, ma mi limito per ragioni ovvie – può essere riassunto nella tesi secondo cui la classe politica che ha governato e governa il nostro paese è responsabile della crisi in cui esso versa e deve essere punita passando il potere al Partito Comunista. Su questo stato psico-sociale ha giocato ampiamente – e gioca ancora – lo stesso Partito Comunista, di cui tutti ricordano l’invito elettorale a far “pagare la crisi alla DC“.

Non ho i titoli né l’intenzione di fare il difensore d’ufficio della Democrazia Cristiana, ma, fatta salva la veridicità della prima parte dell’affermazione corrente – quella cioè relativa alla crisi e alla necessità di “punirne” i colpevoli -, mi pare doveroso intervenire sulla seconda parte – quella cioè relativa alla cessione del potere al Partito Comunista – anzitutto per una ragione di fatto, che contraddice la ipotizzata non responsabilità dei comunisti.

A questo scopo mi pare necessario fare alcune premesse che diano modo di mettere nella giusta luce e di valutare adeguatamente fatti o ignorati o ingiustamente trascurati e sottovalutati.

Il quesito al quale mi sembra si debba preventivamente rispondere suona così: chi governa in Italia? Chi ha il potere?

Non intendo, in questo momento e in questa sede, avviare non facili indagini su quanto succede “dietro le quinte” della vita politica della nostra nazione, ma voglio limitarmi a quanto succede ufficialmente e legalmente.

Il nostro ordinamento costituzionale attribuisce potere legislativo al parlamento bicamerale, su iniziativa del governo, di uno o più membri delle camere, delle amministrazioni regionali e di cinquantamila elettori, per il caso cosiddetto di “iniziativa popolare”.

L’iniziativa legislativa richiede l’approvazione maggioritaria dei due rami del parlamento, in seduta pubblica o in commissione parlamentare, e si attribuisce anche valore di legge a quanto preventivamente decretato dal governo, purché posteriormente e tempestivamente ratificato da parte del parlamento.

I dettati legislativi – della cui legittimità costituzionale è giudice la Corte costituzionale – entrano a fare parte integrante dell’ordinamento giuridico e quindi a costituire le condizioni di vita del corpo sociale, dopo la loro promulgazione da parte del presidente della Repubblica.

La legge, quindi, esprime la volontà del legislatore, ma anche quella di chi l’ha approvata e l’ha sostenuta con il suo suffragio, affinché passasse da proposta a testo impegnativo e imperativo.

La legge è atto di governo e manifestazione di potere dello Stato sulla società, oggetto dell’ordine. La legge, ancora, impegna formalmente chi ha la titolarità del governo, ma sostanzialmente anche chi, eventualmente senza titolarità, partecipa alla sua confezione, o almeno ne approva la introduzione come regola di vita della società, a impedire manifestazioni dannose di suoi membri o a consigliare, a legittimare comportamenti.

Chi ha la titolarità del governo ha poi responsabilità esecutive, anche in questo caso condivise da chi ha responsabilità di governo regionali e locali.

Rievocate queste elementari nozioni di base, chi deve eventualmente rispondere della crisi in cui versa la società? Soltanto chi ha la titolarità del governo o anche chi ha sostenuto le leggi che via via sono andate a integrare l’ordinamento giuridico?

In concreto, se la società è in crisi – e l’Italia è in crisi -, a chi far “pagare la crisi“? Una risposta realistica dice: a chi governa. Ma chi governa, se non chi fa le leggi, sia proponendole, sia sostenendole?

Vengo ai giudizi di fatto. “Tra il 1974 e il 1975 sono state approvate 311 leggi, delle quali 46 soltanto con il voto contrario del Pci, 53 con l’astensione e le altre con il voto favorevole. In pratica, i comunisti hanno esercitato l’opposizione nel 14,5 per cento dei casi. Nelle commissioni parlamentari, i cui lavori sono meno pubblici di quelli in aula, il fenomeno è ancora più vistoso: 211 leggi approvate, delle quali solo 18 (cioè l’8,5 per cento) con il voto contrario del Pci, 37 con l’astensione, le altre con il voto favorevole” (1).

Come è possibile, in queste condizioni, immaginare di poter demonizzare il governo, senza comprendere nel governo il PCI?

Se poi si ricorda che, ai classici tre poteri – quello legislativo, esecutivo e giudiziario – se ne sono aggiunti, negli ultimi decenni, altri due – i mass media e quello sindacale -; e se si tiene anche presente da chi sono guidati e manovrati, come escludere, semplicemente escludere, le responsabilità del PCI?

Sovvenendosi quindi che la crisi italiana si inserisce in una crisi mondiale, in cui ha una parte di rilievo tutt’altro che trascurabile la spinta inflazionistica derivante dagli insuccessi nella produzione del grano da parte dell’unione Sovietica, a chi far “pagare la crisi“?

Se qualcuno poi pensasse che le leggi introdotte nel nostro ordinamento giuridico con l’apporto dei voti comunisti sono secondarie, si può chiedere se è qualificabile come secondaria, per esempio, la riforma del diritto di famiglia.

Stando così le cose, chi volesse veramente impedire o almeno ostacolare l’avvento al governo dei comunisti dovrebbe denunciarne la passata connivenza e cominciare a spartire la crisi, isolando con la massima precisione le responsabilità dei comunisti stessi, soprattutto dove sono al potere, nelle cosiddette regioni rosse.

Si tratterebbe, tutto sommato, tanto di una mossa politica quanto di un suum cuique tribuere, di un dare a ciascuno il suo, di un’opera di giustizia.

Ma evidentemente l’ipotesi che esista qualcuno che voglia veramente impedire o almeno ostacolare la lunga marcia del PCI attraverso le istituzioni e verso il potere è una pura ipotesi.

Lo conferma una nota giornalistica dal titolo La regione Emilia lancia la “strategia unificata”. Si tratta della “partecipazione comune della giunta socialcomunista e delle altre forze presenti in consiglio regionale alla costruzione di un piano a medio termine che sia in grado di arrestare o almeno contenere gli effetti della disastrosa evoluzione della situazione economica, politica e istituzionale che hanno ormai raggiunto anche l’Emilia-Romagna ecc. ecc.” (2).

Dunque, il PCI è fattore di crisi in tutto il paese nelle percentuali indicate. Opera inoltre sul piano sindacale e internazionale a causare o a peggiorare la situazione esistente. In qualche zona d’Italia potrebbe apparire visivamente, a occhio nudo, come colpevole di una crisi che produce e vuol far pagare ad altri. In queste zone trova chi è pubblicamente disposto a condividerne le difficoltà e a pagarne le colpe.

Questi comportamenti cadono sotto il nome di “strategia unificata“, ma l’osservatore non può fare a meno di pensare che sia stata unificata la follia.

O qualcuno ha già pronta l’esortazione ai cattolici alla collaborazione con gli “uomini di buona volontà” in vista del bene comune?

GIOVANNI CANTONI

 

Note:

(1) il Giornale nuovo, 23-10-1975.

(2) il Resto del Carlino, 17-10-1975.

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