II Domenica dopo Natale
Prima lettura: Sir 24,1-4.12-16
Seconda lettura: Ef 1,3-6.15-18
Vangelo: Gv 1,1-18
Il tempo di Natale scorre in un modo che ben conosciamo. Le feste vanno organizzate, radunare una famiglia non è cosa dappoco, anzi, spesso è un vero e proprio “santo trambusto”, che comporta tempi di organizzazione e spostamento.
E’ una motivazione assai concreta, che la liturgia ci propone oggi, per ritornare sul terzo tema delle tre messe di Natale, precisamente quella del Giorno. Il tema della Messa della Vigilia è la risposta della fede dei pastori alla rivelazione di Betlemme. E’ caratterizzata dal movimento di questi verso Betlemme e dal passo lungo, disteso e nient’affatto tentennante con cui costoro ritornano ai loro greggi, con la chiarezza dell’amore, visto, constatato, indiscutibile, trasmesso dalla Sacra Famiglia. E’ un fatto al presente, verso cui non si dà legge possibile. Tornano al loro quotidiano, ricchi del principio e fondamento incarnato nella maschilità e nella femminilità di Maria, appassionati di coerenza cristiana.
La Verità rivelata diviene “passione lavorativa e famigliare”. E’ ciò in cui si riassume tutta la Bibbia. Essa, cogliendo il “da farsi”, termina nel lavoro cattolico e nella sacra famiglia cattolica.
La celebrazione della Notte riprende la risposta di Maria all’evento di Betlemme. E’ sempre presentata in ginocchio, con gli occhi bene aperti, come di chi osserva qualcosa di cui non riesce a esprimere nulla con le parole. Osserva la culla di suo Figlio in stato di altissima adorazione senza proferire una parola: il suo è un silenzio contemplativo, non è un semplice tacere; è meraviglia, stupore, adorazione, è un religioso silenzio come di chi è sopraffatto dalla magnificenza della realtà. Maria è il modello insuperabile di contemplativa nell’azione. Il suo atteggiamento è assai differente da quello dei pastori.
La terza Messa, quella del giorno, risponde al quesito: Chi è Colui che ci è nato a Betlemme? Nulla di più indicato, per dare una risposta esaustiva, di quella grande pagina poetica che è il Prologo di san Giovanni (Gv 1, 1 – 18).
Il Vangelo di Giovanni non ha un suo “anno di lettura” (cicli A,B,C del Lezionario) come i tre Vangeli sinottici di Matteo, Marco e Luca, ma viene letto tutti gli anni, nei tempi forti di Avvento e Quaresima, quando si parla dei grandi misteri della fede. Non a caso il simbolo di questo evangelista è l’aquila, condiviso nell’ambiente associativo di Alleanza Cattolica, perché è l’animale che vola sopra gli altri uccelli, quindi svetta per acutezza di vedute e ardimento sopra ogni altra cosa sulla Terra. Pur così elevata, coglie particolari minimi e interviene con grande precisione, puntualità e rapidità, nella concretezza del suolo. Così Giovanni, pur così elevato, è il più preciso nel descrivere le scene del Vangelo, citando orari e particolari.
Si esprime non in brevi parabole, ma in discorsi più articolati. Si rivolge non a tutti, ma a persone che desiderano conoscere il Verbo e condividerlo. Scrive dopo gli altri evangelisti, non ripete quanto riportato da loro, ma lo approfondisce, cogliendo i segreti del Sacro Cuore di Gesù.
Giovanni, in questo prologo, non parla della nascita di Cristo da Maria nella carne. Parla della nascita divina, cioè da Dio Padre, del Signore Gesù. Il suo scopo è condurci alla fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, in modo che chiunque legga possa avere la vita nel suo nome (Gv 20, 31).
Nella prima lettura è evidente come la Sapienza sia descritta nell’Antico Testamento con attribuzioni personali, veramente profetiche, di quell’uomo-Dio con cui l’Onnipotente ha deciso di comunicarsi, non per interposta persona, come nei profeti, ma direttamente, rivelandosi nel Figlio.
Nella preghiera “centrale” della Messa (centrale perché segue il Vangelo e precede l’offertorio, collocandosi esattamente a metà del rito), cioè il Credo, c’è una frase che recitiamo in ginocchio: «Per noi uomini e per la nostra salvezza , discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». E’ la fondamentale motivazione per cui Dio ha compiuto la storia della salvezza ed è la risposta al grande quesito: perché Signore, hai fatto tutto quello che osserviamo da duemila anni nella Chiesa cattolica? Lo hai fatto solo per la nostra salvezza, cioè a causa dei nostri peccati? La risposta attraversa i secoli, ed ha tutto un suo dinamismo culturale, in crescendo verso il cuore di Dio, come è riportato nella Sacra Scrittura.
Sant’Anselmo d’Aosta (XI sec.) sposta l’attenzione dal peccato alla gloria di Dio e sottolinea che la restaurazione della natura umana non poteva realizzarsi senza che l’uomo pagasse il debito a Dio.
Il tributo era però così alto da richiedere l’opera di un uomo-Dio, come è Gesù, l’unico in grado di farlo e di combattere e vincere contro Satana.
Il francescano e beato Duns Scoto (XIII° sec) stacca completamente l’Incarnazione dal peccato e la unisce alla gloria di Dio: l’Onnipotente avrebbe voluto l’Incarnazione per se stessa, affinché qualcuno al di fuori della Trinità potesse amarlo di amore degno e sommo. Da quanto esposto, ne consegue quella bellissima ipotesi secondo la quale l’Incarnazione sarebbe avvenuta egualmente anche senza il peccato originale, come coronamento della creazione. Gesù mostra il volto di Dio Padre. La nostra conoscenza di una persona è sempre incompleta senza il volto del prossimo, che dice sempre immensamente più di ogni curriculum vitae. Ogni nostra scelta importante dipende da un volto. Se sei ingegnere è perché hai visto il volto di un ingegnere che ti ha convinto nel suo esito vitale.
La teologia odierna ha riscoperto il volto del Dio della Bibbia, si stacca dal Dio dei filosofi, spiega le posizioni medievali e poi le supera. Sant’Anselmo parte dal Dio dell’antica Grecia, che è somma giustizia, a cui un povero peccatore non può rivolgere una preghiera. Duns Scoto considera l’esigenza di amare Dio, ed è un residuo dell‘idea di Aristotele, con la sua esigenza assoluta di amare Dio, condizione ultima e sufficiente per l’esistenza del cosmo. Questa non è la cosa più importante nella Bibbia, dove anzitutto “Dio ama”, Lui è anzitutto amante, iniziativa d’amore. Anche in riferimento alla giustizia, e in san Paolo è molto evidente, Dio da amante generoso non ti condanna ma ti cerca, per comunicarti la sua giustizia, ti rende giusto. Da cui consegue la tua umile richiesta di perdono, riparazione ed espiazione. Prima del Dio da amare, c’è Dio stesso, il quale ama prima di tutti e tutto. Lui è amore (1Gv 4, 10 – 19).
Il Signore ha desiderato che il Figlio si incarnasse per avere qualcuno, al di fuori di Sé, da amare oltre ogni misura, qualcuno che potesse degnamente accoglierlo con amore infinito. E’ questo il motivo del Natale! A Betlemme, Dio può amare sulla terra in modo sommo e infinito, come è l’amore della Trinità, quella perfetta “compagnia” a cui tutti tendiamo per realizzare l’opposto di quel «Guai ai soli» del Vangelo.
Noi siamo totalmente inclusi in questo amore, essendo diventati «figli nel Figlio» secondo quanto
affermato nel Prologo di Giovanni: «A quanti l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio».
Che Dio sia Padre amante lo vediamo in quell’incredibile rovesciamento che è l’Incarnazione. Generalmente pensiamo a Dio come il sommo vertice di una piramide, la cui base è la Terra, poi via via gli esseri microbici, i vegetali, gli animali, l’uomo, gli angeli e, da ultimo, Dio Creatore. Essa viene incredibilmente rovesciata dal Dio Figlio, e spesso non ce ne accorgiamo. Dio si è messo alla base della piramide, per caricare su di sé tutto il cosmo.
Si è fatto embrione nel silenzio di un grembo di donna. Mater, cioè madre, che in latino significa materia, ma anche concretezza, misura. Il Dio che nasce a Betlemme nel grembo di Maria è lo stesso che sarà per tutto il tempo materia del mondo, cioè pane e vino eucaristici.
Sant’Ireneo, padre della chiesa del II sec, affermava che è impossibile accettare l’Eucarestia senza comprendere la nascita di Gesù da Maria a Betlemme. L’amore si ripaga con l’amore, come recita l’inno Adeste Fideles che intoniamo ogni anno a Natale, la cui Santa Messa termina, giustamente, con il bacio di devozione alla statua del Bambin Gesù.
Non è il luogo per esporre tutti i particolari di un testo così ricco come è il Prologo, ma va detto in sintesi che Giovanni, a partire dal prologo e poi in tutto il suo Vangelo, ha riassunto tutto quanto di religioso fosse presente nel mondo ebraico e greco, cioè ha appreso il linguaggio degli uomini del suo tempo e lo ha posto al servizio dell’unica persona che è verità salvifica: Gesù Cristo. Quanto Giovanni ha fatto è quello che serve oggi e che papa Francesco persegue con tenacia. Giovanni ha composto uno scritto tutto rivolto al dialogo, è pervaso di dialoghi con tanti diversi personaggi. Ciò per dire a noi ora che lo strumento della nuova evangelizzazione deve essere il dialogo, fondato sulla comune ricerca della Verità.
Concludo con un pensiero su Giovanni. Ha attinto conoscenza profonda e unica del Salvatore perché ne era amico intimo, perché posò il capo sul petto di Lui nell’Ultima Cena, perché scrisse mentre custodiva Maria dopo l’Ascensione di Cristo, ma soprattutto perché si definisce: «l’apostolo che Gesù amava». Si sentiva profondamente amato dal Signore e così Lo ha ricambiato. E’ ciò che tutt’ora invita noi stessi a compiere, nel Prologo.
Domenica, 3 gennaio 2021