XXVI domenica del Tempo ordinario
(Am 6,1a.4-7; Sal 145; 1Tim 6,11-16; Lc 16,19-31)
Anzitutto consideriamo che l’episodio del “ricco Epulone” e del mendicante Lazzaro non è un momento di vita vissuta, ma una parabola, quindi di una storia immaginaria, ma fondata su situazioni concrete. Quello che cadeva dalla mensa del ricco indica probabilmente non le briciole, ma quei pezzetti di focaccia che venivano usati per intingere la salsa dalla ciotola comune e per detergersi le dita, che venivano poi gettati a terra. Qualcosa di più misero delle briciole. Il povero Lazzaro non riusciva nemmeno ad allontanare i cani randagi dalle sue piaghe. Il primo atto terreno di questa parabola mostra la sperequazione enorme tra il ricco gaudente e il povero affamato. Il secondo momento descritto è ultraterreno, e ci dice che la storia dell’uomo non finisce quaggiù, ma ha un esito nel mondo invisibile, il mondo definitivo e più vero. Sono tre i punti forti di questa pagina del vangelo.
La tristezza di una vita senza Dio
Non dobbiamo comportarci come il ricco gaudente, non tanto perché si godeva la vita, quanto perché nei godimenti terreni aveva posto tutte le sue aspirazioni e speranze. E’ un uomo senza ideali, senza una tensione che non sia la ricerca dei suoi agi e dei suoi piaceri. E’ un uomo che si appaga di ciò che riesce ad assaporare giorno per giorno, che confida solo nella potenza delle sue ricchezze, non si dà nessun pensiero del suo destino, né della moralità del suo comportamento, né del rapporto personale con la realtà eterna di Dio.
Un uomo così – che per molti aspetti può essere considerato la raffigurazione dell’umanità dei nostri tempi – è avviato, secondo Gesù, a una tragica sorte. Come ci ha detto il profeta nella prima lettura, guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulle montagne di Samaria!
Non basta evitare il male, occorre anche fare il bene
Il ricco è condannato non tanto per i suoi vestiti e i suoi banchetti, quanto perché il suo lusso e la sua avidità hanno così rattrappito la sua anima e inaridito il suo cuore che neppure si accorge di avere sulla porta un essere umano – e quindi suo fratello – nella miseria e nella sofferenza. E’ dunque condannato non tanto per quello che fa, ma per quello che non gli viene neanche in mente di fare.
La vita cristiana non si regge su fatti straordinari
Il fondamento della fede cristiana non va ricercato nei fenomeni insoliti e prodigiosi – come le apparizioni, le rivelazioni private, i miracoli – ma nella verità divina che ci è presentata dalla Chiesa. Per capire le cose che contano e vivere bene non servono tanto i fatti straordinari: basta – se il cuore è ben disposto – la forza della parola di Dio: Hanno Mosè e i profeti; ascoltino loro.
Senza la fede nell’aldilà manca lo stimolo per fare il bene
Qui è preso di mira direttamente quello scetticismo relativista che il mondo senza fede insinua dovunque. Oggi non si parla molto né del Paradiso, né dell’Inferno; sembra quasi che si considerino residui di una visione fiabesca ormai improponibile. E’ un’insipienza foriera di guai assai pericolosi! Gesù ci ricorda vigorosamente che la nostra vita si concluderà o con un premio o con una condanna. E proprio perché esiste questo duplice destino, ha un significato essere onesti, essere generosi, vivere. Le dottrine sociali e politiche, le proposte di comportamento, le abitudini di vita che non riconoscono un aldilà – quali che siano le loro etichette ed aspirazioni – approdano tutte a costruire un mondo più violento, più disumano, più disperato, dove non ci si difende più dai prevaricatori, dove leggi e castighi non bastano più per fronteggiare la malvagità e il disordine. Alla fine è solo la verità di Dio che resta, e solo affidandoci alla verità di Dio noi ci possiamo salvare.
Domenica, 25 settembre 2022