XXVIII domenica del Tempo ordinario
(2Re 5,14-17; Sal 97; 2Tim 2,8-13; Lc 17,11-19)
Gesù non mira a rovesciare governi, ma a cambiare il cuore
Nel suo viaggio verso Gerusalemme, dove avrebbe incontrato la morte e consumato il sacrificio che ci avrebbe salvato, Gesù attraversa un territorio che è posto al confine tra la Galilea e la Samaria, due regioni ostili fra loro, discordi su tutto, anche sul modo di pregare l’unico Dio. In quei luoghi si imbatte in un gruppo di uomini colpiti dalla lebbra, che per sostenersi vivevano insieme e insieme si aggiravano nella campagna, alla ricerca di qualcosa o di qualcuno che li aiutasse a sopravvivere: una comunità umana terrificante, compaginata dalla sventura e dalla stessa segregazione emarginante che ad essi era imposta dalla Legge mosaica. Nel gruppo vi sono samaritani e giudei, perché la sofferenza è un crogiuolo nel quale i rancori e le divergenze si fondono, nel quale le inimicizie si annullano e diventano irrilevanti tutte le liti e le beghe che pure sembrano così importanti a chi non ha maggiori fastidi e non deve sopportare disgrazie più grandi.
«Fermatisi a distanza», ci ha detto il Vangelo: dimostra che questi infelici conoscono i regolamenti, che vietavano loro il contatto coi sani, e non si avvicinano. Ma da lontano si fanno sentire, con la forza che viene dalla disperazione: «Alzarono la voce dicendo: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”» E’abbastanza curioso che lo chiamino “maestro”, proprio loro che hanno fame di guarigione e non di insegnamenti e non potrebbero prendere parte ad una eventuale scuola. Sembra quasi che con questa parola vogliano insinuare che Gesù è soprattutto venuto a curare i mali dello spirito e a illuminare le tenebre dei cuori; sembra quasi che vogliano ricordarci che, di tutti i mali dell’uomo, la mancanza della verità, l’ignoranza del significato delle cose e del mondo, l’assenza di certezze esistenziali siano quelli più pericolosi e sconvolgenti. Gesù risponde meravigliandoli e deludendoli, ma in tal modo mette alla prova la loro fede e li invia presso i sacerdoti del Tempio per attestare la guarigione, come imponeva sempre la Legge. Durante il cammino i lebbrosi scoprirono di essere stati guariti. Certo, Gesù rispetta la legge, anzi proprio mediante l’obbedienza alla Legge e l’ossequio all’autorità opera la salvezza e compie un miracolo. Piuttosto che la disobbedienza civile, Gesù comunica lo Spirito di Dio, che trasforma il nostro mondo interiore, dà un senso nuovo alle leggi e alle istituzioni e propone di avere verso di esse una motivazione più alta e vera.
Dio si compiace di chi ha l’attitudine a ringraziare
L’episodio evangelico ha una seconda parte sorprendente: dei dieci beneficiati, uno soltanto sente il dovere di tornare a manifestare la sua gratitudine. Ed è un samaritano!
Nessuno dei compatrioti o correligionari di Cristo, ovvero i lebbrosi giudei, viene ad esprimere un pensiero di riconoscenza: probabilmente pensano che ad essi tutto sia dovuto. Nove sono guariti solo dal punto di vista del corpo; il samaritano, oltre a questo, viene sanato in modo completo e radicale nell’intimo del cuore e ottiene la Salvezza.
La Salvezza è ben più della salute. Per il grande dono ricevuto, il samaritano loda e ringrazia il Salvatore. Proclamare la grandezza del Signore e ringraziarlo fa parte, dunque, dell’essenza della Chiesa e dell’essere cristiani. L’esperienza, però, ci dice che anche noi, come quegli altri nove lebbrosi, difficilmente Gli siamo riconoscenti. Afferriamo il dono e scappiamo per esser soli con noi stessi e godercelo, quasi temendo che possa venirci sottratto. La difficoltà di essere grati a Dio nasce dal fatto che non sappiamo essere grati nemmeno agli uomini. E’ sorprendente quante poche persone abbiano il gusto della riconoscenza: sanno dire grazie solo quando occorre, ma lo dicono sul serio, dal profondo del cuore. Alcuni hanno, sì, un «grazie» sempre sulla bocca, ma si capisce che è soltanto sulla bocca, non nel cuore. Alle volte ci hanno educato in modo forse troppo forzoso: l’adulto domanda «Come si dice?» e il bambino ringrazia solo per non sembrare maleducato! Un «grazie» ipocrita è peggio del silenzio.
Educare alla riconoscenza è il fiore stesso dell’educazione, ma bisogna educare ad essere grati e liberi, grati nella libertà. Allora sì che il grazie diventa spontaneo, frutto di umiltà e di magnanimità, perché ci fa riconoscere il bisogno nostro e la generosità degli altri. Quando finalmente, come il figliol prodigo, rientriamo in noi, innanzi al mistero della esistenza, smettiamo di vedere il creato come dovuto e scontato,o come Maria – il suo sguardo è sacro, abbacinato dalla bellezza delle creature offerte gratuitamente a noi – ringraziamo riconoscenti il Creatore del suo continuo lavoro, del dono della vita, e della quotidiana provvidenzache elargisce ai suoi figli. Nella vita e nel volto dei santi, abbonda sempre la lode e il ringraziamento.
Domenica, 9 ottobre 2022