Daniele Fazio, Cristianità n. 392 (2018)
Le opere di misericordia spirituale
1. Opere di misericordia. Cenni storici
Con la celebrazione del Giubileo della Misericordia Papa Francesco, fra le altre cose, ha richiamato l’attenzione sull’importanza della pratica delle opere di misericordia corporali e spirituali. Nella Bolla di indizione, Misercordiae vultus, così si esprime: «È mio vivo desiderio che il popolo cristiano rifletta durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale. Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina. […]. Riscopriamo le opere di misericordia corporale […]. E non dimentichiamo le opere di misericordia spirituale» (1). Con tale richiamo — che in riferimento alla misericordia come categoria teologica e pastorale è una costante del suo pontificato — Papa Francesco ha messo nuovamente al centro ciò che la Chiesa, fin dal suo nascere, alla sequela della predicazione del Divin Maestro, ha cercato d’incarnare sia nell’azione dei singoli cristiani, sia quale azione del corpo ecclesiale, con evidenti ricadute sulla costruzione di un contesto temporale migliore, che sicuramente ha avuto il suo apice nella edificazione di una società cristiana in Europa.
Fin dagli albori, la preoccupazione della Chiesa — a partire dalla predicazione degli apostoli — fu quella di rendere concrete le esigenze del Comandamento dell’Amore (cfr. Mt. 22,37-40) sia come indicazioni dottrinali, sia come prassi pastorali. Se, da un lato, l’emergenza è quella del soccorso materiale del povero, dell’indigente, della vedova, dell’orfano — categorie particolarmente tutelate nella vita comunitaria del popolo ebraico, così come si evince sovente dall’Antico Testamento — dall’altro lato si fa sempre più chiara l’idea che il prossimo vada sostenuto e aiutato anche nei suoi bisogni spirituali. Secondo gli autori del Dictionnaire de Spiritualité, il primo a usare gli ammonimenti di Gesù, presenti in Mt. 25, in senso allegorico, fu Origene (185-254): «Oltre al pane e al vestiario, che servono ai corpi, bisogna rifocillare le anime con nutrimento spirituale, rivestirle della saggezza di Dio, il vestiario delle diverse virtù con l’insegnamento della dottrina affinché si accolga il prossimo in un cuore rivestito di virtù, chinarsi verso i deboli per confortarli, insegnare loro, consolarli e riprenderli» (2). A questo si aggiungono san Giovanni Crisostomo (344/354-407), san Cipriano (210 ca.-258), sant’Ambrogio (337-397) e soprattutto sant’Agostino d’Ippona (354-430) che «[…] ha introdotto il parallelismo tra le due forme di misericordia: si può anche constatare un’evoluzione del suo linguaggio e a proposito di questo soggetto. Verso il 388, in De moribus ecclesiae catholicae, ricorda, oltre alla realizzazione della misericordia verso i corpi, la possibilità di aiutare le anime con i consigli e l’insegnamento, la condotta dello spirito; ma la sua lista in questo campo è molto più chiara e non è annessa all’idea di misericordia» (3).
Ma in epoca patristica si focalizza soprattutto l’attenzione sulle motivazioni per cui bisogna compiere le opere di misericordia, che inizialmente potevano essere comprese da un punto di vista terminologico sotto il termine «elemosina», il che non indicava affatto riferimento specifico a questioni di natura pecuniaria, così come avvenne successivamente con l’esplicitazione delle opere di misericordia. Nel De opere et eleemosynis (4) san Cipriano elenca dei motivi tratti soprattutto dalla Sacra Scrittura, su cui sostanzialmente altri teologi e scrittori spirituali successivi concordano, fornendo e ampliando spiegazioni originali.
Innanzitutto, le opere di misericordia si compiono per ottenere la remissione dei peccati. Si pensi a questo proposito all’episodio evangelico di Zaccheo o alla chiamata di Levi: in entrambi i casi i neo-convertiti riparano il maltolto con un’abbondanza di elemosina. I Padri, in questo senso, sottolineano il carattere penitenziale dell’opera di misericordia, in modo tale che l’opera appaia come frutto di una penitenza che si situa nel percorso di conversione e nell’ottica di raggiungere la salvezza. «Questa dottrina non è rimasta senza echi sociali e culturali ma ha dato luogo a innumerevoli donazioni fatte “per la salvezza dell’anima”. Le prime forme conservate sono datate nel 575 circa ad Angers e poi a Ravenna; molto diffusi e in una forma nettamente definita a partire dal 720, questi atti comportano un’esposizione dei motivi, nella quale erano ricordati i princìpi sul valore redentore del dono, la convinzione e il dispiacere dei peccati del donatore, l’applicazione dei suoi meriti a sé stesso, al suo prossimo, vivente o defunto, o ancora alla Chiesa universale; la fede nella comunione dei santi si affermava anche in occasione di doni e di fondazioni di ogni genere (somme di denaro, terre per la creazione di cappelle, presbiteri, ospedali, monasteri, ecc.). I testamenti esprimeranno a lungo la stessa motivazione delle elemosine e delle liberalità» (5).
Il secondo motivo richiama il nesso fra l’opera di misericordia e il valore della preghiera del credente presso Dio. Il motivo è già esplicito nell’Antico Testamento (Tb 12,8-9). I cristiani, soprattutto durante la preghiera solenne, ovvero l’Eucaristia, presentano le offerte quale segno chiaro che la preghiera viene accompagnata dalle opere perché «bisogna che esse vadano insieme: l’una supplica, l’altra ottiene; l’una chiede in qualche modo l’ascolto del giudice, l’altra merita la sua grazia; l’una bussa alla porta, l’altra la apre; l’una esprime un desiderio, l’altra procura l’effetto desiderato; l’una supplica, l’altra fa accettare le suppliche» (6).
Il terzo motivo lega le opere di misericordia alla ricompensa attesa. Esse sicuramente non sono un merito da vantare davanti al Creatore, ma predispongono l’anima, nel cammino della conversione e nel pellegrinaggio verso Dio, ad essere accolta in Paradiso e a godere così della visione beatifica. Le opere di misericordia, allora, non sono dei meriti davanti a Dio, ma in qualche modo fanno diventare degli «avvocati» i beneficiari, i poveri e gli indigenti, i malati e i diseredati, perché un giorno davanti al giudizio di Dio i donatori possano essere da questi stessi difesi (7). Tuttavia, già nell’immediato, sottolineano diversi Padri, si ottiene un bene spirituale. «Donando dei soldi, aumenti la tua giustizia […]. Tu hai l’oro ma non hai Cristo, dai ciò che hai, per ricevere ciò che non hai» (8).
Il quarto motivo scaturisce dal terzo ed è esplicito nella predicazione di Cristo stesso. Ogni opera compiuta nei confronti del prossimo, infatti, è come se fosse fatta a Cristo stesso. Per tal ragione la ricompensa sarà grande. Gesù stesso dice: «È a me che lo avete fatto» (Mt. 25, 40). Al di là del fondamento dottrinale, può essere esemplificativo l’episodio della vita di san Martino di Tours (316 ca.-397), ricorrente in molte predicazioni: «Il Cristo si rende presente nelle vesti di un disgraziato. Il celebre episodio dove il catecumeno Martino vede in sogno Cristo proclamare che egli stesso ha ricevuto il mantello condiviso con un mendicante, ha profondamente segnato — grazie alle rappresentazioni plastiche spesso così semplici e popolari che si sono diffuse ispirandosi ai primi affreschi di Tours — la fede in Cristo presente nei poveri e ha potuto suscitare altri racconti analoghi» (9).
Il quinto motivo si apre alla dimensione della fraternità umana. La misericordia, in virtù della comune origine del genere umano, è dovuta a tutti, senza distinzioni. Così come già i filosofi dell’antichità in relazione alla beneficenza, anche i cristiani, riconoscendo — a maggior ragione per via della fede in Dio creatore — la comune essenza degli uomini, estendono nei confronti di tutti il dovere di effettuare opere di misericordia, proprio per il fatto stesso che sono uomini.
Infine, il sesto motivo lega la misericordia alla perfezione, trovando come esplicita fonte quanto l’evangelista Luca afferma: «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» (Lc. 6,36). La somiglianza con Dio e il tendere alla perfezione, così come indicato dal Maestro, si esplicita in questo senso proprio nel campo della misericordia quale applicazione concreta della carità. Tutto ciò naturalmente è suscitato e sostenuto dallo Spirito Santo. Tali gesti, allora, si segnalano quali veri e propri frutti della santità e devono costellare il pellegrinaggio del credente verso Dio.
Durante il Medioevo si è assistito da un lato allo sforzo di sistemazione teologica di tutto l’insegnamento cristiano ereditato dall’età patristica, quindi a una comprensione approfondita delle opere di misericordia sia spirituale sia corporale; e dall’altro lato, concretamente, a una proliferazione di queste opere, che non rimasero semplicemente azioni del singolo cristiano o della comunità ecclesiale, ma diventarono vere e proprie attività sociali e culturali. Non poteva essere altrimenti per una società che — nonostante limiti e manchevolezze che sempre segnano la storia degli uomini — si sforzava d’ispirarsi ai princìpi del Vangelo e di applicare la morale naturale e cristiana anche alla dimensione sociale: «La fede conduceva a prendere comunitariamente in carico i più sfortunati, che abitualmente si designavano come “i poveri di Cristo”» (10). Il centro delle attività caritative e, quindi, del servizio delle opere di misericordia si riscontra nella costruzione di ospizi, ospedali, monasteri, opere che avevano come precipuo obiettivo l’assistenza delle categorie sociali più deboli. Soprattutto la confraternita, costituita principalmente da laici, appare quale gruppo organizzato per seguire in ogni frangente della vita non solo i propri aderenti, ma quanti ne avessero bisogno, in modo tale che la carità potesse trovare un’organizzazione ben definita, ovviamente senza mai soffocare l’iniziativa personale. Davanti alle nuove necessità, come quelle di alloggiare e sostenere i pellegrini nei loro viaggi religiosi, o davanti al dovere di liberare gli schiavi, nascono nuove strutture e nuove congregazioni, il cui modus operandi diviene un modo di esprimere l’amore verso Dio e verso il prossimo, dinnanzi a una necessità apparsa nella storia. D’altro canto, le opere di misericordia spirituale venivano più specificamente consigliate al clero.
Un tale scenario culturale e sociale fa sì che la nozione di opera di misericordia divenisse molto diffusa nel Medioevo cristiano e si trovasse anche al centro delle predicazioni e delle prassi religioso-didattiche a beneficio del popolo. Così, sia nelle prediche, sia nelle rappresentazioni scultoree e pittoriche, appaiono le attestazioni di una serie conosciuta di opere di misericordia: ora sei, ora sette, ora dodici o tredici attestazioni di concrete opere caritative. A partire dal secolo XIII, finalmente, sembrano assestate le liste delle opere di misericordia corporale e delle opere di misericordia spirituale. Ciò è chiaro soprattutto ormai nella teologia di san Tommaso d’Aquino (1225-1274), che si avvia verso una normalizzazione in settenario sia delle opere corporali sia di quelle spirituali: «Il passaggio del commentario delle Sentenze di San Tommaso (prima del 1256), che lo cita, tratta anche delle “sette opere di misericordia spirituale” espresse con un verso: “Consule, castiga, solare, remitte, fer, ora”, dove i sei verbi potrebbero provenire dall’epoca in cui le opere corporali erano ancora sei. Tommaso deve spiegare che la prima parola contiene insieme i consigli e gli insegnamenti che ristabiliscono il parallelismo in sette termini. Altrove, il settenario riprende i suoi diritti esplicitando l’opera degli insegnamenti: “Consule, carpe, doce,/Solare, remitte, fer, ora”» (11). Comunque, senari o settenari delle opere di misericordia sono ricorrenti, a testimonianza di una visione ampia dell’azione caritativa che va a situarsi —da un punto di vista sia materiale, sia spirituale — in un’ottica di servizio al prossimo perché questi possa vivere un’esistenza dignitosa, mai disgiunta dal vero fine della vita umana, cioè la salvezza dell’anima.
La riflessione teologica compiuta fra i secoli XII e XIII permette di approfondire la nozione di elemosina, sotto cui sta tutto il bene, sia spirituale sia materiale, compiuto nei confronti del prossimo. «Per san Tommaso ogni opera di misericordia viene a rimediare a una mancanza del prossimo. Nel suo corpo l’uomo può mancare di soccorsi costantemente necessari sia interni (cibo, bevande), sia esterni (vestiti, un tetto), o soffrire di carenze momentanee interne (malattia) o esterne (privazione della libertà o della sepoltura) a cui rispondono le sette opere di misericordia tradizionali. L’uomo soffre anche di carenze spirituali alle quali si provvede implorando il soccorso di Dio (preghiera) o intervenendo verso il prossimo istruendolo, consigliandolo […], consolandolo […] o reagendo alla sregolatezza delle sue azioni […]. Tutti gli altri bisogni sono inclusi in questi. Le misericordie spirituali hanno più valore in sé dei soccorsi materiali, ma ci sono casi in cui questi ultimi sono più urgenti. Tommaso d’Aquino tratta poi del precetto dell’elemosina e della sua ampiezza, e delle condizioni della correzione fraterna, al tempo stesso dal punto di vista della carità e del bene comune, dunque della giustizia. […] Altri autori hanno sottolineato che queste [opere] abbracciano tutta la vita umana, dalla nascita del bambino, nudo e affamato, fino alla sepoltura del corpo, perché non ci si può sottrarre al dominio della carità» (12).
La ricchezza dell’insegnamento teologico, nonché l’organizzazione di strutture caritative, ma ancora di più la tangibilità della vita dei santi hanno costituito un patrimonio all’interno della società cristiana occidentale che a mano a mano subiva il declino provocato dalla scristianizzazione. Una tale vitalità, tuttavia, ha permesso un attento discernimento dei nuovi bisogni nascenti, anche a causa dei guasti provocati dalle ideologie moderne e su cui il Magistero — anche sociale — dei pontefici è intervenuto sovente, almeno a partire dall’enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1878-1903), del 1891, in modo tale che le opere di misericordia potessero trovare una rinnovata applicazione in un contesto ormai sempre più secolarizzato. In un contesto quale quello odierno, in cui è in atto una «catastrofe antropologica» (13), le opere di misericordia corporali e spirituali diventano il grande richiamo a «farsi samaritani» dell’uomo che è incappato nei ladroni, non solo nella sua dimensione personale, ma anche per ciò che riguarda la dimensione sociale. Infatti, le opere di misericordia — come, fra l’altro, i Comandamenti — hanno la possibilità di essere lette non solo nella dimensione personale, quale esercizio concreto della carità del cristiano, ma anche in quella sociale, ovvero in ciò che riguarda la vita in comune degli uomini, in cui l’esercizio della virtù si rivela il cammino verso il bene comune non semplicemente in un’ottica materiale, ma a partire da una visione trascendente del fine che l’uomo è chiamato a raggiungere. Davanti al male diffuso dalla scristianizzazione, san Giovanni Paolo II (1978-2005), fin dagli albori del suo pontificato, ha orientato la Chiesa e il mondo verso un rinnovato incontro con la misericordia di Dio, per esempio nella sua seconda enciclica, Dives in Misericordia, del 1980, e nell’esortazione apostolica Reconciliatio et poenitentia, del 1984, senza cessare di denunciare le «strutture di peccato» che caratterizzano un mondo che ha deciso di vivere come se Dio non esistesse. La pregnanza delle opere di misericordia, fra l’altro, viene ricordata e ribadita anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica: «Le opere di misericordia sono azioni caritatevoli con le quali soccorriamo il nostro prossimo nelle sue necessità corporali e spirituali. Istruire, consigliare, consolare, confortare sono opere di misericordia spirituale, come pure perdonare e sopportare con pazienza. Le opere di misericordia corporale consistono segnatamente nel dare da mangiare a chi ha fame, nell’ospitare i senza tetto, nel vestire chi ha bisogno di indumenti, nel visitare gli ammalati e i prigionieri, nel seppellire i morti. Tra queste opere, fare l’elemosina ai poveri è una delle principali testimonianze della carità fraterna: è pure una pratica di giustizia che piace a Dio» (n. 2447).
Anche Papa Francesco, nella lettera apostolica Misericordia et misera, con cui ha concluso il Giubileo della Misericordia, ha fatto notare il doppio livello, personale e sociale, in cui si esplicita la misericordia: «È il momento di dare spazio alla fantasia della misericordia per dare vita a tante nuove opere, frutto della grazia. La Chiesa ha bisogno di raccontare oggi quei “molti altri segni” che Gesù ha compiuto e che “non sono stati scritti” (Gv 20,30), affinché siano espressione eloquente della fecondità dell’amore di Cristo e della comunità che vive di Lui. Sono passati più di duemila anni, eppure le opere di misericordia continuano a rendere visibile la bontà di Dio. Ancora oggi intere popolazioni soffrono la fame e la sete, e quanta preoccupazione suscitano le immagini di bambini che nulla hanno per cibarsi. Masse di persone continuano a migrare da un Paese all’altro in cerca di cibo, lavoro, casa e pace. La malattia, nelle sue varie forme, è un motivo permanente di sofferenza che richiede aiuto, consolazione e sostegno. Le carceri sono luoghi in cui spesso, alla pena restrittiva, si aggiungono disagi a volte gravi, dovuti a condizioni di vita disumane. L’analfabetismo è ancora molto diffuso e impedisce ai bambini e alle bambine di formarsi e li espone a nuove forme di schiavitù. La cultura dell’individualismo esasperato, soprattutto in occidente, porta a smarrire il senso di solidarietà e di responsabilità verso gli altri. Dio stesso rimane oggi uno sconosciuto per molti; ciò rappresenta la più grande povertà e il maggior ostacolo al riconoscimento della dignità inviolabile della vita umana. Insomma, le opere di misericordia corporale e spirituale costituiscono fino ai nostri giorni la verifica della grande e positiva incidenza della misericordia come valore sociale. Essa infatti spinge a rimboccarsi le maniche per restituire dignità a milioni di persone che sono nostri fratelli e sorelle, chiamati con noi a costruire una “città affidabile”» (14).
In questo scenario, la dottrina sociale della Chiesa diventa una grande opera di misericordia che rende concrete, in un contesto pubblico, le esigenze della morale sociale naturale e cristiana; e dunque risulta, in particolare per Alleanza Cattolica, un compito pienamente rispondente non solo al proprio carisma, ma anche alle esigenze attuali indicate dal Magistero pontificio.
2. Opere di misericordia spirituale. Un commento
Papa Francesco, nella Bolla d’indizione del Giubileo della Misericordia Misericordiae vultus, ha sottolineato — come sopra ricordato — che non dobbiamo dimenticare le opere di misericordia spirituale. L’uomo — che sappiamo essere non solo cellule innervate — ha non solo bisogni esistenziali primari, che riguardano la propria sussistenza fisica, ma ha anche la necessità di essere aiutato nella sua dimensione spirituale.
Per san Tommaso d’Aquino, infatti, queste «elemosine spirituali» hanno un primato su quelle corporali, in quanto lo spirito dell’uomo ha una dignità superiore al proprio corpo o, per meglio dire, è l’essere spirituale dell’uomo che conferisce dignità a tutta la sua vita (15).
Da questo punto di vista, l’opera di misericordia spirituale è connessa direttamente alla salvezza eterna dell’uomo perché lo aiuta a superare quegli ostacoli che possono oscurargli il cammino verso la meta finale. Afferma l’Aquinate: «Il confronto di due tipi di elemosine si può fare in due modi. Primo in senso assoluto: e allora le elemosine spirituali valgono di più per tre ragioni. Innanzitutto perché ciò che si offre è di maggior valore: si tratta, cioè di un bene spirituale, che è superiore al bene materiale […]. In secondo luogo per la superiorità di ciò che si soccorre: poiché lo spirito è più nobile del corpo. Perciò un uomo, come deve provvedere a se stesso più nello spirituale che nel materiale, così deve fare col prossimo, che egli è tenuto ad amare come se stesso. In terzo luogo per la superiorità degli atti con i quali si soccorre il prossimo: poiché le azioni spirituali sono più nobili di quelle corporali, che in qualche modo sono servili. Secondo, queste elemosine si possono confrontare in rapporto a casi particolari, nei quali certe elemosine materiali per alcuni sono da preferirsi. Per chi muore di fame, p. es., il cibo è da preferirsi all’insegnamento: “per l’indigente”, a detta del Filosofo, “è meglio guadagnare che filosofare” sebbene in senso assoluto questo sia una cosa migliore» (16).
Se l’uomo, dunque, a causa del peccato, può accusare delle ferite a livello spirituale, l’amore del prossimo incita a soccorrerlo nell’ordine spirituale, in funzione della facoltà che si rivela debole o manchevole. Ed è così che ogni opera di misericordia spirituale va a soccorrere l’uomo ora nella sua parte intellettiva, ora nella sua parte passionale, ora nella sua parte volitiva. Ancora è illuminante, da questo punto di vita, il Doctor angelicus, che scrive: «Ai bisogni spirituali si soccorre con atti spirituali in due maniere. Primo, chiedendo l’aiuto a Dio: e per questo abbiamo la preghiera, con la quale si prega per gli altri. Secondo, offrendo l’aiuto fraterno: e questo in tre modi. Primo, contro le deficienze dell’intelletto speculativo, offrendo il rimedio dell’insegnamento; e contro quelle dell’intelletto pratico offrendo il rimedio del consiglio. Secondo, abbiamo le deficienze dovute alle passioni delle potenze appetitive, la più grave delle quali è l’afflizione o tristezza; e ad essa si rimedia con la consolazione. Terzo, ci sono le deficienze dovute al disordine di certi atti; e queste si possono considerare sotto tre aspetti. In primo luogo dal lato di chi pecca, cioè in quanto dipendono dal suo volere disordinato: e allora abbiamo un rimedio nella correzione. In secondo luogo dal lato di chi subisce la colpa: e allora, se gli offesi siamo noi, possiamo rimediare perdonando l’offesa; se invece gli offesi sono Dio e il prossimo, allora “non dipende da noi perdonare” come dice san Girolamo. In terzo luogo ci sono le tristi conseguenze dell’atto disordinato, che gravano su quelli che convivono con il peccatore, anche contro la sua volontà: ad esse si rimedia sopportando; specialmente nei riguardi di coloro che peccano per fragilità» (17).
In questo quadro, si offre di seguito un sintetico, e non esauriente commento, alle opere di misericordia spirituale.
2.1 «Consigliare i dubbiosi»
L’essere umano, come già Aristotele (384-322 a.C.) aveva dichiarato, è un animale dotato di ragione (18), ciò vuol dire che è capace di porsi domande esistenziali e di senso. La sua dimensione naturale, oltre all’istinto dell’auto-conservazione e a quello della procreazione, rivela pienamente in sé la spinta alla ricerca e alla conoscenza della verità sulla sua esistenza, sul mondo che lo circonda, sul rapporto con i suoi simili e con il creato e sul destino che lo attende oltre la morte.
Da sempre i saggi dell’umanità hanno cercato con la forza della ragione di approntare delle risposte non del tutto errate, ma sicuramente a volte deboli e imprecise. La stessa filosofia antica, che per molti versi è stata interpretata quasi come una praeparatio evangelica, si poneva sempre su un piano semplicemente umano, ricadendo spesso — al di là delle sue espressioni più importanti — nello scetticismo, ovvero nell’impossibilità di dare risposte davanti alla grandezza della vita e del mondo. Tuttavia, se si rimane semplicemente su un piano di ragione naturale, il dubbio non può che far potentemente il suo ingresso, diventando a volte dominante.
La Rivelazione cristiana, che ha il suo culmine nell’incarnazione di Gesù Cristo, ha portato la luce su nodi importanti quali la creazione del mondo e dell’uomo, il cammino verso la piena felicità — in cui si inserisce il discorso morale — e la vita oltre la morte. Da ciò il pensiero umano ha tratto e può trarre una significativa fecondità nell’ottica del superamento dei dubbi che attanagliano l’esistenza, accedendo alla dimensione della fiducia non più in qualche uomo di pensiero, per quanto saggio sia, o nelle sue teorie, ma direttamente in Dio, che ci ha parlato e si è fatto uomo. La Sacra Scrittura così ammonisce: «Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio […]. Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un’onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là» (Gc. 1,5-6).
Il dubbio è di per sé una possibilità che ogni uomo attraversa e, se viene incanalato quale inizio del cammino verso la verità, riveste un aspetto positivo, diventa uno stimolo e si costituisce come una domanda chiarificatrice e senza preconcetti; se invece — come dall’Età Moderna in poi è accaduto — il dubbio diventa metodico, fino a diventare sospetto della stessa esistenza fisica dell’uomo e del mondo circostante, ostacola l’uomo nel suo cammino di pieno incontro con la verità sia sul piano filosofico, sia su quello religioso, in quanto si pone come rifiuto del reale, ipotizzando l’esistenza di un inganno universale, rappresentato da ciò che è tangibile. Il filosofo italiano Noberto Bobbio (1909-2004) — espressione di una modernità giunta al capolinea — nel 1955 scriveva: «Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze» (19).
Vi è da dire, però, che l’uomo che vive nel dubbio è un essere tormentato, disorientato, pieno di angosce e di paure. Rinuncia alla verità naturale e di fede per diventare credulone e superstizioso. È l’uomo del nostro tempo che, vivendo in contesti secolarizzati, non trova, pur ricercandole, risposte adeguate alla sua sete di verità.
Consigliare i dubbiosi, allora, emerge come un’opera di misericordia, perché, esercitandola, si ama il prossimo, dal momento che lo si aiuta a compiere un cammino di liberazione dal tormento, dal dubbio e dall’angoscia a essi connessa. Si esorta così l’uomo del nostro tempo a esercitare la propria libertà nell’ottica della ricerca della verità.
Le grandi stagioni della fede hanno fatto maturare un impegno apologetico, spesso sconosciuto e denigrato, che si muoveva proprio nell’ottica misericordiosa di rendere ragione della speranza del cristiano e quindi di offrire, davanti agli errori e ai dubbi, una via di riflessione diversa, che potesse incoraggiare tutti alla sequela della verità e all’incontro con Cristo.
Superare il dubbio è un fatto non semplicemente razionale, ma anche di adesione personale e fiduciosa a Dio che è buono e alla realtà del mondo creata, che va rispettata e migliorata, ma non contraffatta o stravolta.
I cristiani, nel nostro contesto dominato dall’esito ultimo del dubbio metodico che è il relativismo, hanno un grande e urgente compito da portare a termine: la nuova evangelizzazione, che evidentemente si scompone in tante dimensioni e si esprime in molteplici azioni.
Davanti all’incertezza il cristiano deve offrire la certezza di Dio. Davanti alle negazioni della conoscenza della verità da parte della ragione umana il cristiano deve far tornare questa fiducia nelle potenzialità della ragione stessa. Davanti alla confusione antropologica deve presentare la bellezza e la ricchezza della differenza fra l’uomo e la donna. Davanti allo smarrimento del senso della storia deve poter innalzare la lucerna che conduca il prossimo fuori dal buio dell’incertezza. Davanti allo smarrimento del senso del peccato deve richiamare con forza la realtà del male, che va allontanata e combattuta. Davanti alla chiusura verso le realtà eterne il cristiano deve sempre più far innamorare l’uomo del nostro tempo delle realtà future che ci aspettano oltre questa vita.
2.2 «Insegnare agli ignoranti»
Il filosofo greco Socrate (470/469-399 a.C.) faceva coincidere la virtù con il sapere. Che cosa qualificava l’uomo come virtuoso? Proprio la conoscenza del bene, che egli poteva raggiungere attraverso la propria ragione. Per Socrate conoscere il bene era già, dunque, una garanzia di vita buona ad ogni livello. La vita dell’uomo, dunque, era una continua ricerca non dell’utile, ma della verità. Ciò, per il filosofo, risponde alla natura stessa degli uomini, caratterizzata dal fatto di possedere un’anima. Tale anima, addirittura, è immortale e ha dunque un netto primato sul corpo. Essa coincide con la ragione. Seguire la ragione significa perciò realizzare pienamente l’umano. Per Socrate tutto ciò non è immediato, ma occorre che si compia in un cammino verso la conoscenza che egli stesso esperiva con i suoi interlocutori attraverso un metodo, che doveva condurli dall’ignoranza alla conoscenza, ossia alla scienza, garanzia di ogni virtù.
Da ciò impariamo tre cose: 1) l’uomo risponde alla sua natura se asseconda la ricerca della verità verso cui è spinto, in quanto possiede una parte spirituale che è l’anima; 2) questo cammino di ricerca ha bisogno di maestri: nessun bambino nasce in una condizione di sapienza e nessun uomo può dire di aver conosciuto la maggior parte delle cose che sa senza l’aiuto di altri; 3) la conoscenza non è semplicemente un fatto intellettuale, ma ha un valore etico fondamentale.
La seconda opera di misericordia spirituale, allora, risponde al dovere di insegnare al prossimo ciò che non sa, ma soprattutto di insegnargli la verità, quale via della salvezza. L’insegnamento porta a un incontro che cambia la vita.
Prima di salire al cielo, Gesù — che tante volte aveva insegnato e che veniva chiamato Maestro — raccomanda agli apostoli di andare e «ammaestrare», ovvero insegnare a tutte le nazioni ciò che Egli stesso aveva comandato loro (cfr. Mt. 28,18-20). Negli Atti degli apostoli si narra che l’apostolo Filippo sulla strada che scende da Gerusalemme a Gaza s’imbatta in un eunuco etiope. Il dialogo è interessante: «Filippo […] gli disse: “Capisci quello che stai leggendo?”. Quegli rispose: “E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?”. E invitò Filippo a salire e a sedere accanto a lui. Il passo della Scrittura che stava leggendo era questo: “Come una pecora fu condotto al macello e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre bocca. Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato, ma la sua posterità chi potrà mai descriverla? Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita”. E rivoltosi a Filippo l’eunuco disse: “Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?”. Allora Filippo prendendo a parlare e partendo da quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona novella di Gesù. Proseguendo lungo la strada, giunsero a un luogo dove c’era acqua e l’eunuco disse: “Ecco qui c’è acqua: che cosa mi impedisce di essere battezzato?”. Fece fermare il carro e discesero tutti e due nell’acqua, Filippo e l’Eunuco, ed egli lo battezzò» (At. 8,3-38).
Applicando tale opera di misericordia spirituale i cristiani nella storia hanno fatto dell’insegnamento un’opera di carità, coltivando la migliore cultura del loro tempo e trasmettendola agli altri: le università sono l’invenzione più importante che la cristianità medioevale ha realizzato per istruire gli uomini e per aprire loro il sentiero della verità, nonché per preparare la loro anima a una conoscenza superiore, che non può essere esperita solamente con le facoltà intellettive, ma che va ugualmente annunciata anche con le parole e con gli insegnamenti. È questa la via della salvezza che oggi più che mai, in questi tempi bui di negazione della verità e di sfiducia nelle stesse facoltà razionali umane, va indicata e annunciata attraverso l’evangelizzazione.
Sono numerosissimi i santi che hanno vissuto la loro vita nel campo della trasmissione del sapere, tanto che la stessa liturgia prevede dei formulari propri per le memorie e per le feste dei santi dottori della Chiesa ed educatori.
Dopo che la ragione ha divorziato dalla fede con l’Illuminismo, smarrendo il proprio senso e giungendo alla frantumazione, oggi la fede deve sostenere la ragione, in modo che possa tornare ad avere fiducia nelle sue importanti qualità e così sollevare l’uomo da selvaggio a umano e permettere alla fede di trasformarlo da umano in cristiano.
Insegnare agli ignoranti non significa semplicemente pensare alle zone ad alta densità di analfabetismo, ma pensare alle periferie esistenziali delle nostre città, in cui si trovano — come più volte ha testimoniato Papa Francesco — bambini che non sanno neanche fare il segno della croce.
Il Magistero della Chiesa fin dagli inizi del Novecento con san Pio X (1903-1914) ha lamentato lo stato di ignoranza religiosa in cui vivono gli stessi cristiani (20). Insegnare i fondamenti della fede, approfondire la dottrina cristiana, essere all’altezza delle sfide del nostro tempo per essere luce per il nostro prossimo è un’opera di misericordia importante in quanto ha a che fare con la conoscenza della via della salvezza e quindi con la garanzia della felicità eterna per noi stessi e per il nostro prossimo. Così insegna la Sacra Scrittura: «Senza frode imparai la sapienza e senza invidia la dono, non nascondo le sue ricchezze. Essa è un tesoro inesauribile per gli uomini; quanti se la procurano si attirano l’amicizia di Dio, sono a lui raccomandati per i doni del suo insegnamento» (Sap. 7,13-14). Da questo punto di vista, strumenti fondamentali sono il Catechismo della Chiesa Cattolica e il suo Compendio, offerti quali bussole sicure per la conoscenza e l’annuncio della fede cristiana.
Dare il pane e l’acqua significa non far morire il nostro prossimo fisicamente, insegnargli la via della salvezza significa non farlo morire spiritualmente e per l’eternità: «Animam salvasti, animam tuam predestinasti», secondo la massima attribuita a sant’Agostino.
2.3 «Ammonire i peccatori»
Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che il peccato «[…] è un’offesa a Dio, nella disobbedienza al suo amore. Esso ferisce la natura dell’uomo e attenta alla solidarietà umana. Cristo nella sua Passione svela pienamente la gravità del peccato e lo vince con la sua misericordia» (n. 392). In altri termini, il peccato è la cosa peggiore che può capitare all’uomo, in quanto lo separa dal suo rapporto vitale con Dio e quindi lo conduce, per sua stessa scelta, alla morte spirituale e alla condanna eterna.
Proprio per salvarlo da questo male il Signore è venuto nel mondo e ha effuso il suo sangue perché la Sua misericordia vincesse il dominio del male sull’uomo — conseguenza del peccato originale — e riaprisse il sentiero dell’umanità verso il cielo. Tuttavia, la debolezza insita nelle conseguenze del peccato originale fa sì che, nel corso della sua vita terrena, l’uomo non sia esente dal peccare: la vita si configura come un combattimento spirituale contro l’azione tentatrice di Satana, dell’«io», della carne e del mondo, che sono zavorre che non ci permettono di librarci verso la meta che il Signore ci ha preparato con il suo sacrificio.
La risposta del Signore al peccatore che riconosce il suo errore, si pente e chiede perdono è la misericordia, ovvero la purificazione del cuore, l’abbraccio della sua amicizia, la grazia che è pronto da sempre a riversare nel suo cuore, per la sua bontà e non certamente per i meriti che l’uomo potrebbe vantare. Bisogna, dunque, guardarsi bene dal peccato e aiutare il prossimo — dopo averlo capito noi stessi — a capire la sua gravità e la rovina che esso prepara.
Ammonire i peccatori, dunque, è un’importante opera di misericordia spirituale da mettere in atto per amore del nostro prossimo, perché sia aiutato a capire il male che lo domina e possa intraprendere il cammino della liberazione, così come rammenta la Sacra Scrittura: «Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati» (Gc. 5,20).
Come ammonire il peccatore? Certamente con le parole. In un clima di confusione e di dittatura del relativismo, la cosa da mettere in chiaro è innanzitutto che esistono il bene e il male e che quest’ultimo conosce una serie di declinazioni pratiche che non vanno giustificate o comprese, ma semplicemente e chiaramente condannate. Bisogna far ricuperare quel senso del peccato che è stato smarrito, causando una enorme confusione nell’uomo di oggi fra ciò che lo esalta e ciò che lo distrugge, anche se in un primo momento lo alletta. L’ammonizione verbale certamente deve tener conto del cammino della singola persona e soprattutto dovrà svolgersi con un atteggiamento di fermezza, ma anche di amorevolezza, ricordando sempre quello che ci dice la Scrittura: «Fratelli, qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con dolcezza. E vigila su te stesso, per non cadere anche tu in tentazione» (Gal. 6,1).
Alle parole, dunque, nell’ammonire il peccatore, dev’essere unita una condotta di vita che possa mostrare che vivere in maniera militante contro le sollecitazioni a peccare è possibile, se ci affidiamo alla grazia di Dio e giammai solo alle nostre forze. Gesù diceva ai suoi discepoli: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt. 5,16).
Papa Francesco in una delle sue udienze del mercoledì ha sottolineato che «la conseguenza del peccato è uno stato di sofferenza, di cui subisce le conseguenze anche il paese, devastato e reso come un deserto, al punto che Sion — cioè Gerusalemme — diventa inabitabile. Dove c’è rifiuto di Dio, della sua paternità, non c’è più vita possibile, l’esistenza perde le sue radici, tutto appare pervertito e annientato. […] La sofferenza, conseguenza inevitabile di una decisione autodistruttiva, deve far riflettere il peccatore per aprirlo alla conversione e al perdono» (21).
Ciò apre anche alla considerazione di come oggi il peccato non sia semplicemente un fatto personale: esistono vere e proprie «strutture di peccato» — leggi, istituzioni, organizzazioni — che garantiscono il male e lo perpetuano attraverso il consenso, la propaganda e la protezione legale. Ci ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica che «i peccati sono all’origine di situazioni sociali e di istituzioni contrarie alla bontà divina. Le “strutture di peccato” sono espressione ed effetto dei peccati personali. Inducono le loro vittime a commettere, a loro volta, il male. In un senso analogico esse costituiscono un “peccato sociale”» (n. 1869).
Davanti a ciò il cristiano non può rimanere inerte, ma deve organizzarsi per eliminare le strutture di peccato. Deve chiamare il male con il suo nome senza ambiguità, incidere sulle leggi di una nazione, combattere contro le proposte contrarie alla legge morale naturale e cristiana e indicare un’alternativa che faccia sbocciare un mondo migliore.
Se questa voce sarà debole, confusa o assente, noi cristiani non avremo contribuito concretamente alla diffusione del bene e collaborato alla salvezza delle anime, che è la missione principale della Chiesa.
Nel corso della storia, nel suo corpus dottrinale, la Chiesa docente, ossia il magistero dei Papi e dei vescovi uniti alla Sede petrina, ha indicato gli errori da evitare e, di tempo in tempo, messo in guardia dalle insidie che i fedeli subiscono. I laici cattolici, dal canto loro, esplicitano la loro missione di salvezza delle anime nella cura delle realtà temporali, ordinandole secondo Dio: tocca proprio a loro incidere concretamente perché le strutture di peccato impiantatesi nel mondo vengano eliminate.
Ammonire i peccatori, dunque, assume — come le altre opere di misericordia — una dimensione non solo personale, ma anche sociale. Questa opera di misericordia ci spinge a curare la malattia spirituale del singolo e, non di meno, ci esorta a indicare e a curare la malattia del corpo sociale in cui viviamo, che si sintetizza nel rigetto di Dio e della sua legge, all’origine dellìimmane crisi che soprattutto l’Occidente sta vivendo.
2.4 «Consolare gli afflitti»
La vita dell’uomo è costellata da molta sofferenza, sia di natura spirituale, sia di natura corporale. La prima, per qualche verso, è la più penosa per l’esistenza. È quello stato di desolazione in cui l’aridità, le tentazioni, le angustie, la tristezza e ogni genere di afflizione dello spirito gettano la persona, cioè la sua anima, nel buio dello sconforto e premono perché ci si allontani da Dio, che in quel momento sembra non essere presente e non rispondere. Questa «notte oscura dell’anima», come la chiama san Giovanni della Croce (1542-1591) (22), è stata provata da tanti santi che hanno raccontato l’impressionante combattimento intrapreso per mantenersi fedeli.
La seconda afflizione deriva dalle malattie del corpo: certamente la vecchiaia mette davanti all’uomo la sua condizione di limite e di necessità, ma pure quando non si è anziani una malattia anche grave può insorgere improvvisamente e lasciare nella desolazione non solo il malato, ma anche la sua famiglia e i suoi amici.
L’uomo, quindi, è obbligato continuamente a confrontarsi con il grande mistero del male, non facile comprendere, ma che Dio stesso permette per trarne sicuramente un bene maggiore, che spesso su questa terra non riusciamo a intravedere, ma che comprenderemo appieno un giorno in Cielo. Gesù stesso ha assicurato: «Beati gli afflitti perché saranno consolati» (Mt. 5, 4).
Vi è, tuttavia, un’unica certezza: Dio stesso non abbandona al male della desolazione i suoi figli, ma si fa consolatore davanti alle disgrazie che spesso l’uomo stesso si infligge a causa della sua superbia, così come ci narra l’episodio biblico della Torre di Babele (cfr. Gn. 11,1-9) e così come troppo sovente nella storia è avvenuto quando l’uomo, con le ideologie moderne e contemporanee, si è voluto sostituire a Dio. Il percorso di oblio di Dio nella vita dell’uomo e delle società non ha certamente raggiunto le mete sperate, anzi ha prodotto un mondo di malati spirituali, ragion per cui Papa Francesco ci ricorda che l’umanità si trova oggi in una sorta di grande «ospedale da campo» (23), come dopo una battaglia.
La risposta di Dio e del cristiano alle desolazioni è la consolazione della misericordia e della verità, l’unica medicina capace di lenire le ferite, riabilitare lo spirito e confortare l’uomo, liberandolo dal potere del male. Nella storia della salvezza Dio si muove — sentendo il gemito dei suoi figli — nell’ottica della consolazione e non dell’abbandono. Egli consola il suo popolo come sovente ci narra l’Antico Testamento: «Io, io sono il tuo consolatore» (Is. 51,12), fino al punto da mandare suo Figlio, che ha provato la necessità della consolazione, soprattutto durante l’agonia nel Getsemani: «Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo» (Lc. 22,43).
Consolare gli afflitti — quarta opera di misericordia spirituale — significa, allora, accostare le sofferenze del prossimo, incoraggiandolo a liberarsi dal peccato che lo domina, ad avere fiducia in Dio che non vede e magari non sente, ma che lo attende. Dio solo, infatti, può donare le consolazioni sperate che si muovono sui binari della misericordia e della verità: «Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv. 14, 25-26).
È l’atteggiamento empatico di cui ci parla san Paolo, che esorta alla sopportazione perché il male non avrà l’ultima parola: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché anche noi possiamo consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio. Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra consolazione, la quale si dimostra nel sopportare con forza le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo. La nostra speranza nei vostri riguardi è ben salda, convinti che come siete partecipi delle sofferenze così lo siate anche della consolazione» (2 Cor. 1,3-7).
È caro alla tradizione cristiana il titolo di «consolatrice degli afflitti» assegnato alla Madonna. La Vergine, come vera Madre, donata dal Figlio dalla croce a tutti noi, ha conosciuto le amarezze della sofferenza spirituale. Perciò il suo Cuore continuamente si china a raddrizzare i percorsi sbagliati dell’umanità e, da vera Madre della Misericordia, vince con il bene il male, senza stancarsi d’indicare la vera consolazione che ha un nome, è una persona: Gesù Cristo. In lui, crocifisso, i cristiani vedono e mostrano al prossimo Dio che assume su di sé tutte le sofferenze. Proprio per questo diventa credibile e concreta la via da seguire per sopportare le grandi e le piccole desolazioni della vita, che non è la disperazione dell’incredulità e del nulla, bensì l’abbandono fiducioso davanti alle situazioni che l’uomo non può cambiare, ma che solo Dio potrà mutare, come e quando vorrà: «Hai mutato il mio lamento in danza, mi hai tolto l’abito di sacco, mi hai rivestito di gioia» (Sal. 30,12).
2.5 «Perdonare le offese»
Per riflettere sulla quinta opera di misericordia spirituale bisogna capire, innanzitutto, che cosa significa perdonare e quale sia, in qualche modo, una corretta «fenomenologia» del perdono.
Non vi sono dubbi che tutta la storia della salvezza è una storia di perdono da parte di Dio del peccato dell’uomo, tant’è che il nucleo del messaggio del Vangelo risiede proprio nell’affermazione concreta dell’infinita misericordia di Dio verso l’uomo che salva — al costo della vita del Figlio — dal male del peccato: «Dio perdona sempre! Non si stanca di perdonare. Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono. Ma Lui non si stanca di perdonare» (24).
Riceviamo offesa — letteralmente dal latino ob fendere — quando veniamo «colpiti» dall’altro, ovvero quando veniamo fatti oggetto di ingiurie, attacchi verbali e fisici, calunnie e atteggiamenti negativi che generano nel nostro animo sofferenza e dolore. Questi atteggiamenti, anche se in modo minimale, sono presenti giornalmente nella vita di ogni uomo che ha a che fare con altri uomini.
Che cosa fare, allora, davanti all’offesa? Perdonare significa certamente non condannare, continuare a guardare con benevolenza l’altro; significa, al tempo stesso, non accusare, ma neanche scusare il male subito. Il perdono può essere visto come un cammino a tappe, che va maturato, in qualche modo, anche in proporzione all’offesa ricevuta. È una elaborazione nella memoria del male ricevuto e, quindi, un graduale distacco da esso e una guarigione della ferita che esso ha generato. È, infine, un atto di libertà e magnanimità che fa bene, innanzitutto, a chi perdona in quanto, perdonando, riceve una sorta di liberazione dal potere di chi lo ha offeso, annullando nel proprio animo sentimenti di rabbia e di vendetta. Ma fa bene anche a chi viene perdonato, facendo sì che questi capisca che la natura dell’uomo creato da Dio e, quindi, la sua natura, non può e non deve essere fissata nel male che ha commesso ai danni del fratello.
Scrive il filosofo Robert Spaemann: «Il significato specificatamente umano del perdono appare insostituibile unicamente laddove l’ordine della reciprocità viene distrutto dall’abuso di uno o, che è lo stesso, dal suo mancato approdo all’esigibile realizzazione della realtà dell’altro, a una esigibile benevolenza. Che cosa avviene nel perdono? Colui che perdona percepisce la realtà dell’altro, il suo esser-sé, al di là dell’esser-così che questi ha mostrato nelle sue azioni od omissioni, permettendogli così di prendere le distanze da tutto ciò» (25).
Nessun uomo a causa del peccato originale è all’altezza di onorare perfettamente il suo statuto di creatura a immagine e somiglianza di Dio; quando ciò non avviene nel campo delle azioni umane, il perdono innesca questo appello che non relega nel campo del male chi lo ha commesso, ma lo spinge a liberarsi da esso e a tendere alla sua vera natura. L’importanza del perdono — come pratica morale — è, dunque, in qualche modo, fondata su un limite ontologico che l’uomo reca in sé.
In questo senso, perdonare non significa abolire la giustizia, ma, ferme restando le sue esigenze, è l’avvio di una rigenerazione interiore del peccatore che viene sciolto dal suo «esser così». Dio, nella storia della salvezza, ha instaurato con l’uomo un atteggiamento di giustizia e di perdono, compenetrati come Egli solo sa e può fare, in quanto assolutamente giusto e buono al tempo stesso. La giustizia riguarda gli aspetti intersoggettivi e sociali del male, mentre il perdono riguarda eminentemente quella cura dell’anima che mira alla riabilitazione interiore dell’uomo. Le ferite dell’animo vanno unte con la medicina della misericordia e del perdono.
Il discorso sul perdono da ricevere da Dio e da dare ai fratelli — da questo punto di vista — ha un centro sacramentale imprescindibile che è il sacramento della confessione. Con esso Dio estirpa il male dalla nostra anima e ci reintegra in uno stato di perfezione.
È evidente, a questo punto, che perdonare non significa minimizzare il male, ma guardare con benevolenza chi lo ha commesso, venendo meno all’altezza del proprio essere. L’antica formula teologica che torna sempre è la seguente: «condanna del peccato, amore per il peccatore». Dio non vuole mai la morte del peccatore, ma che si converta e viva.
D’altronde, chi può dire di essere senza peccato e, quindi, di non aver bisogno del perdono? L’episodio evangelico dell’adultera è emblematico. Gesù fa riflettere la folla che voleva lapidarla e, nel momento in cui cadono le pietre dalle mani dei presenti, perché ognuno di loro si è riconosciuto parimenti peccatore, Gesù stesso non condanna la peccatrice, ma al tempo stesso le ingiunge: «Va’ e d’ora in poi non peccare più!» (Gv. 8,11).
Bisogna, dunque, evitare l’errore in cui incorre ogni ideologia buonista, cioè confondere peccato e peccatore, assolvendo il primo senza fare un buon servizio al secondo. Giustizia e perdono, verità e misericordia non devono mai entrare in dialettica, in quanto all’interno dell’orizzonte cristiano sono coessenziali: separarle significa cadere in una forma deviata di cristianesimo e di amore del prossimo.
Meditare su questa opera di misericordia spirituale per prima cosa significa, allora, esaminarsi sul serio sulle offese che ciascuno di noi, in prima persona, ha arrecato con il proprio peccato a Dio, agli altri e a sé stesso. Solo successivamente, riconoscendosi peccatore e bisognosi di perdono da parte di Dio si potrà considerare l’offesa patita e imitare Dio che, nella sua paterna bontà, è pronto al perdono dei figli che errano: «[…] e perdona a noi i nostri peccati, anche noi, infatti, perdoniamo a ogni nostro debitore» (Lc. 11,4). Oggetto della misericordia di Dio, il cristiano diventa capace del perdono, il che non significa accondiscendere al male, all’errore, ma appunto guardare con amore anche il nostro nemico, perché sia illuminato sul suo errore e cambi strada.
Quante volte lo si deve fare? Risponde Gesù, che dalla croce ha perdonato gli aguzzini, fra i quali ci siamo pure noi: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette» (Mt. 18,22).
2.6 «Sopportare pazientemente le persone moleste»
Se dovessimo cercare nei Vangeli il tipo della «persona molesta», certamente lo si troverebbe nel tipo umano degli scribi e dei farisei che inseguivano Gesù per porgli problemi teologici a trabocchetto nella speranza di farlo cadere in errore. Costoro ponevano continuamente domande e richieste non con cuore sincero, ma con un fine obliquo. Tuttavia, l’atteggiamento di Gesù — pur usando a volte parole molto dure al fine di svegliarli dalla loro condotta legalista e al tempo stesso ipocrita — è quello della sopportazione paziente. Risponde sempre, allargando lo stretto circuito intellettuale di cui erano vittime, e consiglia al popolo: «Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno» (Mt. 23,3).
Sopportare significa non risentirsi e non adirarsi davanti ai difetti materiali, caratteriali e anche morali del nostro prossimo, ma al tempo stesso vuol dire compenetrare nelle relazioni umane sempre carità e verità. La sopportazione, su questa scia, si attua, dunque, esercitando la virtù della fortezza, che genera in noi la capacità di saper soffrire davanti agli atteggiamenti e alle condotte di vita, nonché alle situazioni che non possiamo mutare. La fortezza — secondo il filosofo tedesco Josef Pieper (1904-1997) — «[…] non è altro se non la disponibilità a mettere in conto, per amore della realizzazione del bene, la possibilità di riportare delle ferite» (26). In una sola parola, questa è la pazienza, che spesso ci porta a un travaglio e a una sofferenza interiore che vanno affrontati così come l’icona biblica di Giobbe ci propone. Proprio questo personaggio non solo si trovò davanti a un mutamento impressionante in negativo del proprio standard di vita, ma ebbe pure da sopportare i sofismi dei suoi amici che andavano alla ricerca di spiegazioni per quella triste condizione in cui era caduto e così, anziché aiutarlo, lo inducevano allo scoraggiamento.
La sopportazione paziente è legata anche alla durata temporale: non giunge, infatti, quasi mai immediatamente alla soluzione di un problema nato in relazione al nostro prossimo. Infatti, si presuppone che il «molestatore» — o la situazione che ci infastidisce — non si muti al nostro semplice desiderio, ma che, appunto, si prolunghi a volte nel tempo, come una spina nel fianco che duole per un tempo non determinato. Proprio per tale ragione la pazienza è un esercizio continuo, che il cristiano — praticando questa sesta opera di misericordia spirituale — deve sostenere, soprattutto in un mondo che non vuole essere più illuminato dalla fede e in cui gli uomini cercano realizzazione e salvezza, laddove possono trovare semplicemente noia e perdizione. Ci rammenta san Paolo: «Ma ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che l’afflizione produce pazienza, la pazienza esperienza, e l’esperienza speranza» (Rm. 5,3-4).
A volte le parole non risolvono nulla e allora la sopportazione paziente implica silenzio, preghiera, sacrifici. Il padre misericordioso ha pazientato anni prima di vedere tornare il figliol prodigo, ma alla fine ecco la gioia del ritorno.
Mentre esercitiamo la pazienza nei confronti del prossimo che ci irrita o delle situazioni spiacevoli in cui ci troviamo, pensiamo, però, anche che il Signore usa con noi la Sua infinita pazienza non stancandosi mai di perdonarci ogni volta che ci rendiamo a Lui molesti con i nostri peccati. Nonostante sappiamo che ciò ferisce il suo amore, noi ci allontaniamo da Lui, inseguendo i «fuochi fatui» delle tentazioni. Il Signore, tuttavia, è sempre lì ad aspettarci con pazienza nei nostri ritardi d’amore e a sopportarci senza rinunciare mai al richiamo chiaro della retta via.
Secondo Spaemann, l’atteggiamento ragionevole di fronte a ciò che non possiamo mutare — possiamo allargare il concetto alle persone e alle situazioni spiacevoli — è quello dell’abbandono fiducioso — o della Gelassenheit, come lo chiamano i mistici tedeschi —, cioè «[…] l’atteggiamento di colui che accoglie nel suo volere ciò che egli non può modificare come comprensibile limite del suo agire, l’atteggiamento di colui che accetta il limite. […] l’abbandono fiducioso non è perciò fatalismo. È la disponibilità di chi agisce ad accettare anche il fallimento come qualcosa che ha senso. […] l’abbandono fiducioso è la caratteristica dell’uomo felice» (27).
Tutto ciò può essere condensato in una preghiera attribuita a san Thomas More (1478-1535) — che soprattutto nelle situazioni in cui siamo chiamati a praticare la sesta opera di misericordia spirituale, «sopportare pazientemente le persone moleste», è bene ricordare —, per chiedere la grazia divina nel saper individuare ciò che è giusto fare davanti a quella persona o a quella situazione che ci è molesta.
«Signore dammi la forza di cambiare le cose che posso modificare e la pazienza di accettare quelle che non posso cambiare e la saggezza per distinguere la differenza tra le une e le altre. Dammi Signore, un’anima che abbia occhi per la bellezza e la purezza, che non si lasci impaurire dal peccato e che sappia raddrizzare le situazioni. Dammi un’anima che non conosca noie, fastidi, mormorazioni, sospiri, lamenti. Non permettere che mi preoccupi eccessivamente di quella cosa invadente che chiamo “io”. Dammi il dono di saper ridere di una facezia, di saper cavare qualche gioia dalla vita e anche di farne partecipi gli altri. Signore dammi il dono dell’umorismo».
2.7 «Pregare Dio per i vivi e per i morti»
La preghiera, o orazione, è un’attività dell’essere razionale con cui questi parla a Dio e in cui Dio gli parla. In questa comunicazione spirituale, innanzitutto, il credente loda e glorifica Dio per tutti i suoi doni, ma, allo stesso tempo, può chiedere a Lui grazie particolari. Fin dall’Antico Testamento conosciamo il valore profondo della preghiera in relazione non solo alle proprie necessità, ma anche al prossimo e a eventi della storia. Infatti, essendo Dio Provvidenza, Egli può mutare destini che agli occhi degli uomini sembrano semplicemente ineluttabili.
La preghiera è la testimonianza della nostra debolezza, della necessità di rivolgerci a Dio perché ci sostenga nella nostra indigenza e allo stesso tempo manifesta la profonda fiducia in Lui, che è capace di mutare situazioni umanamente insuperabili. Riconoscere ciò non significa annichilirci come uomini, anzi, come tanti santi e teologi hanno testimoniato, «l’uomo non è grande se non quando è in ginocchio davanti a Dio» (28).
La storia sacra — fra le sue tante vicende — ci presenta Mosè con le braccia alzate che intercede perché Giosuè, con il popolo d’Israele, possa sconfiggere le truppe di Amalec presso Refidim: «Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada» (Es. 17,11-13).
Gesù, richiesto in tal senso dai discepoli, c’insegna a pregare donandoci la preghiera del Padre nostro in cui sono inserite ben sette richieste a Dio (cfr. Mt. 6,9-13): secondo san Tommaso d’Aquino questa è la preghiera perfettissima e, quindi deve essere il modello di ogni preghiera personale.
L’ultima opera di misericordia spirituale ci invita, dunque, a guardare il nostro prossimo «adottandolo» nella nostra preghiera. Essendo, infatti, questa una pia elevazione dell’anima a Dio, non dobbiamo in essa dimenticare tutti gli altri uomini e, in qualche modo, dobbiamo chiedere qualcosa per loro. Gesù stesso tante volte ci ha invitato alla preghiera di richiesta — anche insistente (cfr. Lc. 11,5-13) — e alla preghiera per il prossimo, pure se nemico: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt. 5,44-45).
Il teologo e moralista spagnolo Antonio Royo Marin (1913-2005) scrive: «Possiamo e dobbiamo pregare non soltanto per noi stessi, ma anche per qualsiasi persona capace della gloria eterna» (29). Ma che cosa chiedere? Il teologo domenicano risponde che «è lecito chiedere anche cose temporali, non però in modo principale, ma unicamente come strumenti per meglio servire Dio e tendere alla nostra eterna felicità. Per sé, le petizioni si riferiscono alla vita soprannaturale. Le cose temporali si possono chiedere come per giunta e con una totale subordinazione agli interessi della gloria di Dio e alla salvezza della anima» (30). Un uomo, infatti, che vive nella fede, che si sforza di percorrere un cammino di conversione, affronta meglio le avversità della vita: la cosa più importante è non allontanare le piccole o grandi disavventure, ma riuscire sempre a mantenere la fiducia in Dio e viva la speranza. Per far ciò la prima cosa da chiedere a Dio, per noi e per gli altri, è che ci mantenga nella fede, ci faccia progredire nel cammino di conversione e successivamente ci liberi dal male morale, spirituale, fisico e temporale che ci assilla o che assilla il nostro prossimo.
Questa unione nella preghiera fra i credenti si chiama «comunione dei santi» e in essa rientrano anche le preghiere di suffragio per i defunti. Pure per loro dobbiamo costantemente pregare, per aiutarli — se sono in Purgatorio — ad accedere al più presto alla visione beatifica di Dio; allo stesso tempo essi dal Cielo pregano per noi, soprattutto se già sono in Paradiso, da dove ci ottengono, con la loro intercessione, le grazie divine.
Per usare un’immagine evangelica, la preghiera è come un grande sole che sorge sui buoni e sui cattivi. Sono necessarie e opportune le preghiere personali, quelle che ognuno di noi rivolge a Dio, ma non si deve però mai dimenticare l’infinito valore della preghiera del culto pubblico della Chiesa, che sono la Messa, l’Ufficio Divino e le altre forme di liturgia. Nella Messa non siamo noi gli attori della preghiera, ma è Cristo stesso che prega il Padre, e ci uniamo a Lui nella rinnovazione del sacrificio della croce fino alla fine del mondo. San Pio da Pietrelcina (1887-1968) amava dire che è più facile per la Terra reggersi senza il sole, anziché senza la Messa. Preghiera personale e culto pubblico della Chiesa, che ha il suo culmine nella Messa e nella Liturgia delle Ore, non sono dunque in contraddizione — come spesso maliziosamente vengono presentati —, ma intimamente uniti. Senza la preghiera del Mediatore per eccellenza noi non pregheremmo bene; allo stesso tempo, la preghiera personale ci porta alla partecipazione alla preghiera di incommensurabile valore, la Messa.
Pregare Dio per i vivi e per i morti, pertanto, è il giusto coronamento delle opere di misericordia spirituale. Noi sappiamo che da Dio veniamo e a Lui ritorneremo, ma in questo cammino Egli non è assente e noi stessi siamo chiamati a colloquiare con Lui, senza dimenticarci della carità, che ci spinge a ricordare il nostro prossimo, vivo o defunto, soprattutto nella preghiera.
Come tutte le opere di misericordia spirituale anche la preghiera di richiesta per i vivi e per i morti non è semplicemente un atto univoco, che farebbe del bene semplicemente alla persona per cui si prega. Pregare fa bene principalmente a chi prega, infatti, come ricorda sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787): «Chi prega certamente si salva, chi non prega certamente si danna» (31). La preghiera costante, fiduciosa e attenta ha, perciò, un’efficacia santificante veramente straordinaria ed è, se così possiamo esprimerci, una strada sicura verso la nostra salvezza, meta ultima del nostro cammino di conversione.
2.8 Verso un’ottava opera di misericordia spirituale?
L’ambientalismo, l’ecologismo, l’animalismo sono fenomeni ideologici che portano con sé la volontà di abolire l’uomo, perché vanno a nozze con la pianificazione delle nascite, con il neo-malthusianesimo, con la promozione planetaria dell’aborto e dei contraccettivi. Non è un caso che i movimenti radicali di sinistra abbiano da tempo indossato la battaglia ecologista. Tale ideologia, come tutte del resto, si nutre di menzogne e ha bisogno di nemici cui dare addosso, di realtà inventate e di mistificazioni.
La pubblicazione dell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco sulla «cura della casa comune» dimostra che la battaglia per la salvaguardia del creato è una tematica che cattolici non possono assolutamente farsi sottrarre dai movimenti ideologici e rivoluzionari. Sì, vi è modo e modo di prendersi cura dell’ambiente e quello tradizionale e cristiano sa benissimo coniugare ecologia umana ed ecologia dell’ambiente. L’ultimo esempio è proprio il documento pontificio in cui vi sono, per esempio, una chiara condanna dell’aborto (32) e delle pratiche di pianificazione della popolazione mondiale, nonché un appello a rispettare innanzitutto la natura dell’uomo: occorre salvare il creato senza manipolare l’uomo, nell’ottica di un ritorno alla realtà, che è opera del Creatore, ci parla quindi di Lui e ha da Lui una stretta dipendenza.
Non si può, altresì, non ricordare come vi sia una schiera di pensatori conservatori e cattolici che per primi hanno alzato la voce in difesa del creato. Sono stati sempre diffidenti nei confronti di facili entusiasmi verso il progresso, termine scritto un tempo con la lettera maiuscola, come fosse una divinità. Tali pensatori, come il «grillo parlante», hanno formulato, quasi sempre inascoltati, le loro critiche verso destini «magnifici» inaugurati con l’età delle macchine. Del resto, progressismo vuol dire anche tecnica, industria e manomissione di tutto ciò che è naturale. L’Età Moderna si apre con l’equazione di Francesco Bacone (1561-1626) «sapere = potere» e con l’aspirazione di Renato Cartesio (1596-1650) alla costruzione di una società delle macchine. Non è un caso che tale mentalità cammini insieme alla secolarizzazione e all’indiscriminato sfruttamento delle risorse naturali. Non si tratta tanto di rinunciare allo sviluppo materiale, ma di mettere in guardia da quella mentalità che sottrae all’ambito etico e religioso la tecnica, facendola divenire un assoluto nelle mani dell’uomo. Quella simbiosi fra l’uomo e la natura, propria dell’Età Antica e del Medioevo con l’Età Moderna viene spezzata e l’uomo, faber fortunae suae, si erge padrone assoluto. Inizia la distruzione della «casa comune» senza percepire che, distruggendola, si distruggono pure gli abitanti che vivono in essa. Le reazioni ecologistiche, che puntano all’abolizione dell’uomo, in questo quadro, sono non la soluzione, ma l’amplificazione del problema stesso.
Vi sono pensatori come Gustave Thibon (1903-2001), John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) e Spaemann che, senza essere degli ecologisti, hanno saputo correttamente impostare nelle loro riflessioni il discorso sulla salvaguardia del creato contro il potere tecnocratico, senza, ovviamente, proporre un ritorno all’età della pietra, come così chiaramente si evince dalle pagine dell’enciclica di Papa Francesco. Così, come non si può lasciare la causa dei poveri alle ideologie di sinistra, perché si tratta di una causa esclusivamente evangelica, altrettanto non si può svendere la tematica della salvaguardia del creato ai «verdi» di ogni risma, perché anch’essa è tipicamente cristiana e anche anti-progressista.
In questo quadro storico-sociale, ma ancora di più con una pregnanza spiccatamente teologica va considerata l’attenzione del Magistero pontificio a questa tematica, che, pur essendo prioritaria nell’azione pastorale di Papa Francesco, non è per niente assente negli insegnamenti dei suoi predecessori (33).
In occasione del Messaggio per la Giornata Mondiale di preghiera per la cura del creato Papa Francesco ha voluto legare, richiamando alcuni passaggi dell’enciclica Laudato si’, la tematica della cura della «casa comune» con la misericordia, proponendo l’aggiunta al settenario sia delle opere di misericordia corporale, sia delle opere di misericordia spirituale, un’ottava pratica: «Ovviamente la vita umana stessa nella sua totalità comprende la cura della casa comune. Quindi, mi permetto di proporre un complemento ai due tradizionali elenchi di sette opere di misericordia, aggiungendo a ciascuno la cura della casa comune» (34).
La novità non deve sembrare strana, in quanto — come abbiamo visto brevemente nell’itinerario storico di formazione dell’elenco delle opere di misericordia — vi sono state spesso modifiche e ciò è dipeso soprattutto dall’impegno caritativo della Chiesa e dei cristiani a fronte delle nuove problematiche che il mondo andava presentando, in uno sforzo di fede operosa, ovvero che declina praticamente il Comandamento dell’Amore, sovvenendo alle necessità che il contesto storico presenta. Viviamo in un tempo in cui la questione della custodia del creato è fraintesa, in quanto viene negato proprio il fondamento della creazione, che è Dio stesso. Non essendoci un autore della natura, l’uomo non solo può utilizzare i mezzi che essa mette a sua disposizione, ma si sente anche in grado di giungere — diremmo in senso gnostico — a mutare i connotati stessi dell’ordine naturale. E se ciò in altri tempi poteva essere impensabile, oggi la «tecnoscienza» è all’altezza di cambiare irreversibilmente i destini della natura, con la conseguente distruzione della vita sulla terra. Se viene disatteso il legame fra il creato e il Creatore, anche la possibilità contemplativa e riflessiva di giungere dagli enti all’Essere viene eliminata, rinchiudendo la stessa umanità in un orizzonte meramente materiale. L’appello di Papa Francesco non trae, dunque, motivazioni dalle tematiche ecologistiche, ma fonda la cura della «casa comune» in un orizzonte teologico e anche nella spiritualità ignaziana, che ci parla della necessità di rendere gloria a Dio, anche attraverso o a partire dalla contemplazione del creato. Ciò diventa, perciò, una responsabilità verso i nostri contemporanei e verso le generazioni future, in quanto anche loro hanno il diritto di godere delle bellezze di cui noi godiamo: «Come l’ecologia integrale mette in evidenza, gli esseri umani sono profondamente legati gli uni agli altri e al creato nella sua interezza. Quando maltrattiamo la natura, maltrattiamo anche gli esseri umani. Allo stesso tempo, ogni creatura ha il proprio valore intrinseco che deve essere rispettato. Ascoltiamo “tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri”, e cerchiamo di comprendere attentamente come poter assicurare una risposta adeguata e tempestiva» (35).
L’«ottava opera di Misericordia», allora, implica uno sguardo contemplativo verso la natura, che necessita di essere riconosciuta come creata e dipendente da Dio, nonché come manifesto della Sua gloria. Da questo punto di vista è un’opera di misericordia spirituale, in quanto ci aiuta a ricollocare nella giusta dimensione gerarchica e di comunione il Creatore e gli esseri creati. Allo stesso tempo, però, impegna praticamente i singoli e le comunità politiche — e di fatto diventa un punto non rinviabile della dottrina sociale della Chiesa — a nuovi stili di vita e pratiche socio-economiche che siano improntate alla salvaguardia della casa comune: «come opera di misericordia spirituale, la cura della casa comune richiede “la contemplazione riconoscente del mondo” (Enc. Laudato si’, 214) che “ci permette di scoprire attraverso ogni cosa qualche insegnamento che Dio ci vuole comunicare” (ibid., 85). Come opera di misericordia corporale, la cura della casa comune richiede i “semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo […] e si manifesta in tutte le azioni che cercano di costruire un mondo migliore” (ibid., 230–231)» (36).
Daniele Fazio
Note:
(1) Francesco, Misericordiae vultus. Bolla di indizione del Giubileo straordinario della Misericordia, dell’11-4-2015, n. 15.
(2) Irénée Noye, Voce Miséricorde (Oeuvre de), in Dictionnaire de spiritualité. Ascetique et mystique, doctrine et histoire, 17 voll. in 21 tomi, vol. X. Mabille-Mythe, Beauchesne, Parigi 1980, coll. 1328-1349 (col. 1332).
(3) Ibid., p. 1333.
(4) Cfr. Caecilius Thascius Cyprianus, La beneficenza e le elemosine, introduzione, testo critico, note e indice di Michel Poirier, San Clemente-ESD. Edizioni Studio Domenicano, Roma-Bologna 2009.
(5) I. Noye, voce cit., col. 1335.
(6) Ibid., col. 1336.
(7) «L’azione paterna di Dio precede con la sua ispirazione, mentre il libero agire dell’uomo viene dopo nella sua collaborazione, così che i meriti delle opere buone devono essere attribuiti innanzi tutto alla grazia di Dio, poi al fedele. Il merito dell’uomo torna, peraltro, anch’esso a Dio, dal momento che le sue buone azioni hanno la loro origine, in Cristo, dalle ispirazioni e dagli aiuti dello Spirito Santo» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2008).
(8) Sant’Agostino, Discorso 61, n. 3, e Discorso 85, n. 4, 15.
(9) I. Noye, voce cit., col. 1338.
(10) Ibid., col. 1341.
(11) Ibid., col. 1342.
(12) Ibid., col. 1345.
(13) Cfr. l’espressione di mons. Justo Mullor García (1932-2016), in Luigi Accattoli, E finalmente il Pontefice vola in Lituania, in Corriere della Sera, Milano 4-9-1993; e il concetto corrispondente, in san Giovanni Paolo II, Enciclica «Centesimus annus» nel centesimo anniversario della «Rerum Novarum», del 1°-5-1991, n. 27.
(14) Francesco, Lettera apostolica «Misericordia et misera», del 20-11-2016.
(15) Cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, IIa, IIae, q. 32.
(16) Ibid., IIa, IIae, q. 32 a.3.
(17) Ibid., II, II q. 32, a. 2.
(18) Cfr. Aristotele, La politica, I, 2, 1253a, in Idem, Politica e Costituzione di Atene, a cura di Carlo Augusto Viano, Utet, Torino 1992, pp. 51-342 (pp. 66-67).
(19) Norberto Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, p. 32.
(20) Cfr. San Pio X, Lettera enciclica «Acerbo nimis», del 15-4-1905.
(21) Francesco, Discorso pronunciato in occasione dell’Udienza generale «Misericordia e correzione», del 2-3-2016.
(22) Cfr. San Giovanni della Croce OCD, La notte oscura, trad. it., Sellerio, Palermo 1995.
(23) Francesco, Esortazione apostolica postsinodale «Amoris laetitia» ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate, agli sposi cristiani e a tutti i fedeli laici, sull’amore nella famiglia, del 19-3-2016, n. 291.
(24) Idem, Angelus, del 13-3-2013.
(25) Robert Spaemann, Felicità e benevolenza, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1998, p. 246.
(26) Josef Pieper, La luce delle virtù. Alla ricerca dell’immagine cristiana dell’uomo, trad. it., San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, p. 25.
(27) R. Spaemann, Concetti morali fondamentali, trad. it., Piemme, Casale Monferrato 2001, p. 121.
(28) Card. Robert Sarah, Dio o niente. Conversazione sulla fede con Nicolas Diat, Cantagalli, Siena 2015, p. 41.
(29) Antonio Royo Marin O.P., Teologia della perfezione cristiana, trad. it., San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2003, p. 762.
(30) Ibid., p. 753.
(31) Alfonso Maria de’ Liguori, Del gran mezzo della preghiera, Considerazione XXX.
(32) «Dal momento che tutto è in relazione, non è neppure compatibile la difesa della natura con la giustificazione dell’aborto. Non appare praticabile un cammino educativo per l’accoglienza degli esseri deboli che ci circondano, che a volte sono molesti o importuni, quando non si dà protezione a un embrione umano benché il suo arrivo sia causa di disagi e difficoltà» (Francesco, Lettera enciclica «Laudato si’», del 24-5-2015, n. 120).
(33) Per esempio: «Il tema dello sviluppo è oggi fortemente collegato anche ai doveri che nascono dal rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale. Questo è stato donato da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l’umanità intera. Se la natura, e per primo l’essere umano, vengono considerati come frutto del caso o del determinismo evolutivo, la consapevolezza della responsabilità si attenua nelle coscienze. Nella natura il credente riconosce il meraviglioso risultato dell’intervento creativo di Dio, che l’uomo può responsabilmente utilizzare per soddisfare i suoi legittimi bisogni — materiali e immateriali — nel rispetto degli intrinseci equilibri del creato stesso. Se tale visione viene meno, l’uomo finisce o per considerare la natura un tabù intoccabile o, al contrario, per abusarne. Ambedue questi atteggiamenti non sono conformi alla visione cristiana della natura, frutto della creazione di Dio» (Benedetto XVI, Lettera enciclica «Caritas in veritate», del 29-6-2009, n. 48); e ancora: «La Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l’uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come un’ecologia dell’uomo, intesa in senso giusto. Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l’“ecologia umana” è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio. Come le virtù umane sono tra loro comunicanti, tanto che l’indebolimento di una espone a rischio anche le altre, così il sistema ecologico si regge sul rispetto di un progetto che riguarda sia la sana convivenza in società sia il buon rapporto con la natura» (ibid., n. 50).
(34) Francesco, Messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale di Preghiera per la cura del Creato, del 1°-9-2016, n. 5.
(35) Ibid., n. 1
(36) Ibid., n. 5.