Cosimo Galasso, Cristianità n. 397 (2019)
Le radici filosofiche del Sessantotto
Il Novecento, il secolo «ideologico» per antonomasia, è finito da quasi vent’anni con l’evento-simbolo della rimozione del Muro di Berlino nel 1989. Tuttavia, in gran parte dell’Occidente, specialmente in Italia, il «Muro di Berlino» della cultura è ancora in piedi. A cinquant’anni dal Sessantotto, infatti, l’egemonia culturale della sinistra tardo-sessantottesca è così viva e vegeta che l’Italia può ancora essere definita un Paese a «gramscismo reale». Il paradosso è enorme: nonostante gli italiani siano, da sempre, schierati su posizioni moderate, genericamente riferibili all’area politica del centro-destra, continuano il bombardamento e il dominio culturale di minoranze organizzate che, seguendo la lezione di Antonio Gramsci (1891-1937), propongono modelli comportamentali e quadri assiologici di riferimento di tipo rivoluzionario. Tali minoranze — lentamente, ma inesorabilmente — hanno occupato tutte le «casematte» della cultura: scuola, università, case editrici e grandi giornali, cinema e teatro.
La presenza maggioritaria nel corpo sociale italiano di posizioni moderate è riconosciuta dallo stesso on. Massimo D’Alema nel discorso tenuto nel castello di Gargonza a Monte San Savino (Arezzo) il 9 marzo 1997, l’anno seguente alla vittoria elettorale dell’Ulivo, lo schieramento di centro-sinistra ideato dall’on. Romano Prodi: «Noi non abbiamo vinto le elezioni. Questo è un gravissimo errore di valutazione, e se si parte da un’analisi sbagliata della realtà se ne traggono conseguenze gravissime. Noi abbiamo perduto le elezioni. Le abbiamo perdute anche proprio numericamente. Tra il ‘94 e il ‘96 le forze politiche che si sono poi raccolte nell’Ulivo hanno preso due milioni di voti in meno; questi sono’ i numeri che ho la cattiva abitudine di andare a leggere ogni tanto. Soltanto che sono stati combinati meglio in una grande operazione politica» (1).
Lo scrittore brianzolo Eugenio Corti (1921-2014) sintetizza efficacemente il progressivo asservimento della cultura italiana al laicismo marxisteggiante — subalternità iniziata già nell’immediato dopoguerra ed esplosa con il Sessantotto: «È appena il caso di ricordare che a influire — fino addirittura a determinare dei mutamenti — sul costume di un popolo, non è l’azione politica, bensì quella culturale: l’influenza che una data cultura, soprattutto se riesce a diventare dominante, esercita sulla gente. Da noi — come del resto nell’intero Occidente — è diventata dominante quella illuminista: laicista e tendenzialmente promarxista; in Italia più smaccatamente promarxista che altrove» (2).
1. Radici remote del Sessantotto
Il Sessantotto è il trionfo della modernità e in particolare dell’Io, che a partire da René Descartes «Cartesio» (1596-1650) e compiendo l’intero percorso della filosofia moderna, ha portato al trionfo del soggettivismo contemporaneo, caratterizzato ultimamente da uno sviluppo abnorme della volontà a scapito dell’intelletto. Conseguenza immediata di questo ribaltamento delle gerarchie è l’imposizione della volontà del soggetto sull’ordine del reale che — è bene ricordarlo — è scoperto ma non posto dall’intelletto.
A distanza di cinquant’anni il Sessantotto può quindi essere identificato come l’ultimo episodio di un itinerario ben preciso, le cui tappe sono tutte concatenate. Solo parlando del Sessantotto insieme ai suoi antecedenti se ne coglierà il senso pieno: se lo si isolasse dalle tappe precedenti, ci si troverebbe invece davanti a una mera data passata, incapace di «illuminare» tanto il nostro ieri quanto il nostro domani. Diversamente, se si riuscisse a cogliere gli elementi comuni nei vari episodi, il Sessantotto diventerebbe allora una categoria filosofica utile a interpretare e comprendere meglio sia il nostro passato sia il nostro futuro.
La riflessione su tali elementi comuni porta il pensatore e uomo politico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) ad applicare la categoria unitaria di «Rivoluzione» — un termine spesso ambiguo che connota la modernità e che la scienza politica ha preso in prestito da quella astronomica — a molteplici fenomeni dell’Età Moderna. Della modernità possiamo dare almeno due definizioni: una storico-politica, l’altra filosofica. Storicamente, la modernità è un itinerario che inizia con il Rinascimento, prosegue con la Rivoluzione francese del 1789, quindi con quella bolscevica del 1917 e last but non least arriva, appunto, al Sessantotto.
Icasticamente, seguendo l’insegnamento del fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni, si potrebbe rappresentare questo itinerario come la vicenda di un signore che dapprima ha avuto problemi con l’autorità religiosa (Riforma protestante), poi con quella politica (Rivoluzione francese), successivamente con quella economica (Rivoluzione sovietica) e infine con sé stesso (Sessantotto). Il processo rivoluzionario, progressivamente, ha trasformato l’uomo da persona a individuo «coriandolizzandolo» (3), ossia distruggendo tutti i suoi legami, sia con gli altri sia con la norma, cioè quella legge immutabile ricavabile razionalmente dal reale alla quale ispirare la propria condotta.
Il cammino cinque volte secolare della Rivoluzione, giunta con il Sessantotto alla sua fase matura, secondo un’immagine plastica evocata da Cantoni, ha spogliato il singolo — metaforicamente, i vestiti sono l’equivalente dei corpi intermedi, delle istituzioni e dei legami sociali — togliendogli in successione i pantaloni, la camicia, la giacca e infine la maglia, cosicché il soggetto, esposto nudo alle intemperie, ha preso la polmonite. Fuor di metafora, la Rivoluzione ha ridotto la persona — cioè l’uomo e la donna con tutte le loro ricchezze, anche relazionali — a individuo, insostenibilmente e disperatamente solo. Analoghe considerazioni, convergenti sul carattere della Rivoluzione come processo, ma con una valutazione morale diametralmente opposta, sono state fatte dallo studioso Jean-François Revel (pseudonimo di Jean-François Ricard (1924-2006): «Da cinque secoli l’individuo occidentale lotta per conquistare il diritto e la responsabilità di definire da solo le proprie credenze, la propria morale, i propri valori estetici, gli orientamenti della sua ricerca intellettuale, che nessun dogma deve più limitare» (4).
Un’enorme capacità di leggere «l’ora presente» è dimostrata, a dieci anni dal Sessantotto, dallo scrittore russo Aleksandr Solženicyn (1918-2008), celebre oppositore del regime sovietico. In un celebre discorso pronunciato all’università Harvard, negli Stati Uniti, nella sorpresa generale, Solženicyn dirà di non auspicare una trasformazione del pur orribile totalitarismo sovietico in una democrazia di stampo occidentale, giudicando l’Occidente a lui contemporaneo spiritualmente esaurito, infiacchito e indebolito fin nelle sue radici e, dunque, privo di ogni volontà di comunicare al resto del mondo i suoi valori originari, ormai evidentemente misconosciuti. Nel domandarsi come mai si sia giunti a una simile situazione, Solženicyn individuerà con precisione la natura del problema: «Come è stato possibile per l’Occidente passare dalla sua marcia trionfale al suo attuale stato di debilitazione? Sono stati fatali i cambiamenti e la perdite di obiettivi nel suo sviluppo? Non sembra sia così. L’Occidente è avanzato costantemente in conformità con le sue intenzioni sociali proclamate, e con un progressivo brillante progresso nella tecnologia. E all’improvviso si é trovato nel suo attuale stato di debolezza.
«Ciò significa che l’errore deve essere alla radice, al fondamento del suo pensiero nei tempi moderni. Mi riferisco alla visione occidentale prevalente, nata nel Rinascimento e che ha trovato espressione politica dopo l’età dell’Illuminismo. Essa divenne la base per la dottrina politica e sociale e potrebbe essere chiamato umanesimo razionalista o autonomia umanistica: l’autonomia dell’uomo da qualsiasi forza superiore al di sopra di lui proclamata e praticata. Si potrebbe anche chiamare antropocentrismo, con l’uomo visto come il centro di tutto. […] il modo umanistico di pensare, che aveva proclamato l’uomo come sua stessa guida, non ha ammesso l’esistenza intrinseca del male nell’uomo, né ha saputo rivolgersi ad un pensiero spirituale superiore, per ottenere la felicità anche sulla terra. È iniziata la civiltà occidentale moderna, con la pericolosa tendenza dell’uomo rivolto esclusivamente a soddisfare le sue necessità materiali. Tutto per il benessere fisico e per accumulare beni materiali, mentre tutti gli altri aspetti umani e i caratteri naturali non visibili e superiori, sono rimasti al di fuori dell’attenzione dello Stato e dei sistemi sociali, come se la vita umana non avesse alcun significato superiore» (5).
Proseguendo lungo l’itinerario tracciato dal fondatore di Alleanza Cattolica, quando si affrontano problemi storico-filosofici, è d’obbligo partire dal peccato originale. L’uomo, creato da Dio, con la colpa d’origine sovverte dapprima l’ordine che il Creatore ha scritto e impresso nel suo cuore e poi, logicamente, sconvolge l’ordine del mondo, delle cose, cioè quello ontologico. La ragione umana, dunque, correttamente usata, può risalire analogicamente dall’ordine del mondo al suo Creatore e alla legge morale che ne deriva, visto che un universo ordinato, un cosmos, è un riflesso della perfezione divina. Se, diversamente, l’universo fosse un caos, risulterebbe inintelligibile alla ragione umana. Affrontare un problema storico-filosofico rapportandosi innanzitutto al peccato originale non è sterile esercizio di teologia, perché, come ha osservato acutamente il filosofo Augusto Del Noce (1910-1989), nel commentare alcune intuizioni dello scrittore e regista Pier Paolo Pasolini (1922-1975), un atteggiamento simile a quello manifestatosi nel Sessantotto si è verificato già ai tempi di Platone (428/427-348/347 a.C.), molto prima dunque del sorgere del cristianesimo, a dimostrazione che nell’animo umano vi è, come inscritta, una sorta di carattere che rimanda al non serviam di luciferina memoria. Queste le parole di Del Noce: «I caratteri della rivoluzione del ‘68 si trovano già perfettamente descritti nel nono libro della Repubblica di Platone, ove si parla di quella generazione di giovani per cui libertà significa libertà da ogni vincolo e da ogni freno, diritto di soddisfare tutte le passioni, anche le più impudiche» (6).
2. Modernità filosofica
Da un punto di vista strettamente filosofico la modernità è una categoria caratterizzata dal primato logico della volontà sull’intelletto: è il cosiddetto principio d’immanenza, il «cogito, ergo sum» di Cartesio, o atto dell’Io, portante in radice l’egocentrismo che, di volta in volta, nel suo sviluppo storico, assume le forme del cogito, volo — volere assoluto —, experior; autoponendosi come inizio assoluto, come certezza misurante di tutte le cose. Anni dopo, san Giovanni Paolo II (1978-2005) farà risalire l’inizio della Rivoluzione in filosofia a quel «terremoto» gnoseologico messo in atto da Cartesio: «Nel corso degli anni si è venuta formando in me la covinzione che le ideologie del male sono profondamente radicate nella storia del pensiero filosofico europeo. […] in particolare alla rivoluzione operata nel pensiero filosofico da Cartesio. Il cogito, ergo sum — penso, dunque sono — portò un capovolgimento nel modo di fare filosofia. Nel periodo precartesiano la filosofia, e dunque il cogito, o piuttosto il cognosco, era subordinato all’esse, che era considerato qualcosa di primordiale. A Cartesio invece l’esse apparve secondario, mentre il cogito fu da lui giudicato primordiale […]. Dio — prima di Cartesio — come Essere pienamente autosufficiente (Ens subsistens) era ritenuto l’indispensabile sostegno per ogni ens non subsistens, ens participatum, cioè per tutti gli esseri creati, e dunque anche per l’uomo. […] Dopo Cartesio, la filosofia diventa una scienza del puro pensiero: tutto ciò che è esse — sia il mondo creato che il Creatore — rimane nel campo del cogito, come contenuto della coscienza umana. la filosofia si occupa degli esseri in quanto contenuti della coscienza, e non in quanto esistenti fuori di essa» (7).
Questa è la vera radice filosofica che ha originato quell’antropocentrismo radicale — già stigmatizzato da Solženicyn — il quale, in particolare, si traduce in imperio del desiderio individuale; un desiderio assoluto, fiorito in tempo di relativismo e che proprio a partire dal Sessantotto, ha preteso la sua trasformazione in diritto. Da sola, infatti, la volontà è una potenza cieca, perciò deve essere guidata dall’intelletto. Il teologo e sacerdote padre Cornelio Fabro C.S.S. (1911-1995) ha mostrato come la modernità abbia determinato questo abnorme sviluppo della volontà. Come insegna la teologia scolastica, le potenze dell’anima, rettamente ordinate, si esprimono come «nihil volitum nisi praecognitum», cioè il «volo» è sempre un «volo aliquid», cioè un volere qualcosa che la ragione ha stabilito non essere in contrasto con la natura razionale dell’uomo. Il processo rivoluzionario, progressivamente, porta alla trasformazione della retta volontà in «Wille zum willen», cioè non a volere qualcosa di circoscritto, di vero, di bello e di buono, ma a volere sé stessa, il proprio Io, non come Dio l’ha creato, ma come il primato della volontà l’ha disegnato: è l’affermazione del soggettivismo sull’oggettività.
Questo passaggio, così come quello dall’Io al «volo» è analizzato da padre Fabro: «Il volo invece che è fatto precedere e costituire il cogito — e in questo, come hanno esattamente individuato l’essenza del pensiero moderno non solo Kant [Immanuel (1724-1804)], Fichte [Johann Gottlieb (1762-1814)] e Schelling [Friedrich Wilhelm Joseph (1775-1854)] che antepongono espressamente il volo al cogito, ma lo stesso Hegel [Georg Wilhelm Friedrich (1770-1831)], soprattutto nelle Grundlinien der Philosophie des Rechts, e dopo Hegel l’intera filosofia contemporanea — non è più un volo aliquid perché non deve essere un volo intenzionato da alcunché, in quanto esso stesso si pone dal centro dell’Io a intenzionante e intenzionato universale, centro dell’Io fatto dal volo […]. Tutto ciò che accade nella coscienza deve procedere dall’Io e ritornare all’Io: non è una tautologia, è l’essenza del pensiero moderno e della coscienza contemporanea» (8). L’assumere questo Io immanente, diventato «volo», come metro di giudizio comporta una radicale trasformazione dei giudizi sul mondo, sulla vita, sui valori, in radicale antitesi con la loro concezione naturale e cristiana. L’ipertrofia dell’Io sancita dal principio d’immanenza ed esprimentesi oggi nel «volo» — volere assoluto —, sta determinando un progressivo e devastante cambiamento, per esempio, del paradigma giuridico riferito alla persona. Mauro Ronco rileva che dopo le Conferenze de Il Cairo (1994) e di Pechino (1995), rispettivamente su Popolazione e Sviluppo e sulle donne, «il fondamento dei diritti umani sta esclusivamente nella libertà di scelta del soggetto, nell’autodeterminazione assoluta, nella trasformazione in diritto umano di ogni atto libero del soggetto o di ogni atto al cui compimento il soggetto presta consenso» (9).
Questa, a ben intendere, è una diretta e logica conseguenza di quanto teorizzato da padre Fabro un quarto di secolo prima. In modo ferreo e implacabile è il «volo» — evoluzione attuale del «cogito» —, sganciato da ogni riferimento all’essere o, in altre parole, da un quadro veritativo indipendente e misurante dell’Io, che fonda e dà valore a tutta la realtà, morale compresa. Una morale, naturalmente, cangiante e soggetta ai capricci della volontà. Padre Fabro così sintetizza il pensiero moderno in relazione alla coscienza e alla libertà dell’uomo: «Rifacendomi a Fichte, Schelling ed Hegel, ho parlato di due opposti e divergenti orientamenti del pensiero umano: quello che a fondamento del conoscere e del volere mette l’essere, e quello che mette il volere e il conoscere a fondamento dell’essere, ossia quello che considera la coscienza come un accogliere la verità, come adeguarsi alla verità, per poi produrre la verità morale (il concetto che é combattuto da Heidegger, il quale però ha visto bene che la coscienza deve fare i conti con il reale). E allora, se la coscienza deve fare i conti con il reale, essa riconoscerà che il reale che ha davanti non l’ha fatto lei, non l’ha creato lei; che quelle leggi non sono leggi sue, e allora deve risalire di fenomeno in fenomeno, di struttura in struttura, di legge in legge e di fondamento in fondamento, fino all’assoluto ch’è il creatore del mondo, il padre degli uomini, in quanto ha dato all’uomo una legge scritta nel suo cuore» (10).
Martin Heidegger (1889-1976), partendo dall’identità di essere e di pensiero affermata dal «cogito» — contro la priorità dell’essere sul pensiero, affermata invece dalla metafisica tomistica —, illustrò un percorso che, partendo dal «cogito», arriva infine a Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) — con il suo Wille zur Macht o volontà di potenza, impersonale guida verso una verità sempre cangiante, mai data una volta per sempre —, definendo così un orizzonte ben preciso: non vi è alcuna metafisica e l’uomo, ormai privo di ogni riferimento ulteriore, può partire da sé stesso. Questo il pensiero di Heidegger: «Soltanto nella dottrina del Superuomo — intesa come affermazione del primato assoluto dell’uomo nell’ente — la metafisica moderna giunge alla determinazione estrema e compiuta della sua essenza. È qui che Descartes celebra il suo definitivo trionfo. […] In vista della liberazione dell’uomo dai vincoli della dottrina rivelazionistica della Chiesa — cioè, che l’essere dell’ente consiste nell’essere creato da Dio —, la questione della filosofia prima viene enunciata così: per quale via arriva l’uomo, da se stesso e per sé stesso, a una prima verità incrollabile? E qual è questa prima verità? Il primo a interrogarsi in questo senso in modo chiaro e deciso è Descartes, il quale risponde: “ego cogito, ergo sum”. […] Nella proposizione […] si esprime un primato dell’io umano in generale; quindi una nuova posizione dell’uomo. Adesso l’uomo non accetta una dottrina con un atto di fede, anzi neanche prende una qualche strada per procurarsi una conoscenza del mondo. Qui viene alla luce qualcosa di diverso: l’uomo si sa assolutamente certo lui stesso di essere quell’ente il cui esistere è la cosa più certa. l’uomo diventa il fondamento e la misura che egli stesso ha collocato per fondare e misurare ogni certezza e ogni verità» (11).
All’interno di quest’orizzonte totalmente immanente e chiuso al trascendente — cui si giunge inevitabilmente, lo abbiamo visto, dal «cogito» —, l’uomo è «finalmente» solo, libero di autodeterminarsi. Il passaggio successivo è, naturalmente, la corsa a disegnare un mondo nuovo, un mondo a misura della smisurata libertà dell’Io moderno, che come dice il card. Angelo Bagnasco, promuove «[…] una cultura radicale che rinchiude la persona nell’isolamento triste della propria libertà assoluta, slegata da ogni verità del bene e da ogni relazione sociale» (12).
In questo senso, il Sessantotto è, dunque, la manifestazione della modernità radicale. La modernità, infatti, considera l’uomo come tutto e la sua «volontà» come lente attraverso la quale prima capire e poi marxisticamente soprattutto trasformare il mondo. Nel pensiero moderno la verità è sempre posposta a tutto, non solo alla volontà, ma anche, conseguentemente, alla libertà.
Sebbene da un punto di vista logico sia l’intelletto a riconoscere la verità, il Sessantotto rovescia la questione: non solo la volontà, ma anche la libertà dev’essere anteposta all’intelletto. Ciò che conta è la libertà, che deve essere assoluta e indipendente da qualsiasi contenuto. Il binomio volontà-libertà, terribile se sganciato da un quadro di riferimento, non deve essere limitato da nulla. Qui entra in gioco la gnosi, forma di pensiero eterodossa che da sempre rifiuta, proprio in linea di principio, qualsiasi limite alla natura umana. Come si è detto, il Sessantotto è il compimento della modernità, perché la categoria di «Rivoluzione», che per cinque secoli ha plasmato in chiave antropocentrica il piano sociale ha poi «riplasmato» il piano antropologico, insediandosi all’interno dell’uomo.
Il Sessantotto inaugura l’era cosiddetta post-moderna, che non rinnega ma compie la modernità, superandola. In questa prospettiva, il post-moderno incarna la negazione stessa di ogni valore lato sensu, inteso come pensiero metafisico che pone la ricerca dell’elemento immutabile «oltre» l’elemento mutabile, attestato dall’esperienza, cioè un pensiero volto a cercare ciò che permane nel divenire del tempo e della storia. Gnosticamente, il post-moderno rigetta ogni elemento definitivo che possa far rientrare l’uomo nell’alveo della sua condizione naturale, cioè di creatura limitata. Conscio della sua libertà radicale, guadagnata con la modernità, l’uomo post-moderno deve poter esercitare la sua volontà su tutto, senza alcun limite, soprattutto di ordine morale. È il trionfo annunciato del desiderio individuale imperante ai nostri giorni. Forse nessuno come il filosofo Gianni Vattimo descrive in maniera puntuale la condizione post-moderna figlia diretta del Sessantotto: «L’accesso alle chances positive che, per la stessa essenza dell’uomo, si trovano nelle condizioni di esistenza post-moderne è possibile solo se si prendono sul serio gli esiti della distruzione dell’ontologia operata da Heidegger e, prima, da Nietzsche. Finché l’uomo e l’essere sono pensati, metafisicamente, platonicamente, in termini di strutture stabili che impongono al pensiero e all’esistenza il compito di fondarsi, di stabilirsi (con la logica, con l’etica) nel dominio del non diveniente, riflettendosi in tutta una mitizzazione delle strutture forti in ogni campo dell’esperienza, non sarà possibile al pensiero vivere positivamente quella vera e propria età post-metafisica che è la post-modernità» (13).
Difficile essere più espliciti. Giunti a questo punto, è chiaro che la profonda crisi culturale e spirituale ancora pienamente in atto deriva dal troncone dell’idealismo tedesco, a sua volta originatosi dal principio d’immanenza cartesiano. Pertanto, prima di esaminare le radici prossime del Sessantotto, è utile fare una sintesi dei capisaldi della filosofia moderna, soprattutto della dialettica hegeliana, altrimenti non si riuscirà a cogliere adeguatamente la portata della Quarta Rivoluzione, quella post-moderna.
Cartesio, lo abbiamo visto anche nella riflessione di san Giovanni Paolo II, supera la dipendenza della conoscenza dall’oggetto: l’unica vera certezza è il sé, che dubita di tutto il resto. Pone Dio, peraltro contraddittoriamente, come garante di questo pensiero che dovrebbe servire, poi, a scoprire Dio. Il filosofo francese mette in atto un terremoto del pensiero che porta alla subordinazione totale dell’essere al pensiero e parallelamente di Dio al desiderio. Immanuel Kant sopprime Dio come garante del reale, chiudendo il pensiero in sé stesso: ammette, sì, il reale, ma lo dichiara inconoscibile, mentre l’uomo sarebbe portatore delle condizioni che gli consentono di organizzare la sua conoscenza. Si tratta insomma di una evoluzione del «circolo vizioso» di Cartesio, che ha l’uomo come protagonista: possiamo aver conoscenza solo del nostro conoscere.
Rispetto a Kant, Johann Gottlieb Fichte compirà un passo avanti sulla strada verso l’idealismo assoluto, unificando ragione pratica e ragione teoretica, realizzando l’unità di teoria e prassi nell’Io, valore unico e assoluto; dalla sua sintesi lascerà fuori, tuttavia, la natura. Sarà Friedrich Wilhelm Joseph Schelling a unificare l’Io ficthiano con la natura. L’idealismo assoluto si raggiunge con il pensiero di Hegel, per il quale la Storia — rigorosamente scritta con la «S» maiuscola — è l’assoluto. Ogni cosa nel mondo, compresa la coscienza umana, sarebbe la realizzazione dell’Idea, che incessantemente si incarna, diviene. La Ragione assoluta hegeliana non conosce contraddizioni, coinvolta com’è in un processo continuo di sviluppo secondo lo schema «tesi-antitesi-sintesi», nel quale la sintesi del ciclo precedente diventa la tesi di quello nuovo. Nella Storia, in cui tutto si trasforma, non vi è posto per nulla di stabile: è la piena maturazione della dialettica hegeliana. In estrema sintesi, il tronco idealista partito dalle radici cartesiane progressivamente si sviluppa falsando il rapporto dell’uomo con il reale, con Dio stesso e tratteggia un tipo umano chiuso in sé stesso, la cui conoscenza del reale è ridotta alla sua stessa soggettività conoscente. Questo tipo d’uomo non è più «capax Dei», come invece afferma il pensiero medioevale. L’uomo forgiato dall’idealismo assoluto è un essere presuntuoso, capace solo di affermare la sua autonomia e la sua libertà assolute.
Tramite Ludwig Feuerbach (1804-1872), che rovescia lo Spirito in materia, Karl Marx (1818-1883) recupererà la dialettica hegeliana per sostenere che tutta la storia è solo una trasformazione della natura umana grazie allo sviluppo dialettico delle forze materiali. Il singolo non conterebbe più come tale, ma solo in quanto facente parte, come una goccia, del flusso liquido dello scorrere della storia. Non vi sarebbe più, quindi, alcuna verità data né una natura immutabile, ma tutto si compirebbe attraverso la prassi, l’azione. Parafrasando la frase di una nota canzone (14), la verità non c’è, «la scopriremo solo vivendo», o meglio, «facendola», per restare in tema con il Leitmotiv del Sessantotto.
Al termine di questa disamina in cui ho sinteticamente analizzate le tappe che hanno portato dal principio d’immanenza al pensiero moderno, preparatorio del «brodo culturale» dal quale è emerso poi il Sessantotto, mi affido, come ho già fatto, alla logica ferrea di padre Fabro: «Evidentemente Cartesio e gran parte della filosofia che lo seguì fino alla dissoluzione dell’hegelismo erano ben lungi dal volere e dal prevedere una simile dissoluzione, quale ormai si è stabilita nella nostra cultura da più di un secolo [cui bisogna aggiungere i quarantacinque anni trascorsi da questo scritto di padre Fabro] e quale ora si presenta, come un fatto acquisito e risolto nella cultura e nella vita contemporanea. Ma non è difficile riconoscere la coerenza, sia pure differita per tre secoli, ma ormai indifferibile e inevitabile, di quel principio che le filosofie di ogni indirizzo del nostro tempo (neopositivismo, marxismo, esistenzialismo, pragmatismo, fenomenologia e altre) riconoscono come comune essenza e comune scopo a un tempo» (15).
3. Radici «prossime» del Sessantotto
Secondo una splendida definizione dello studioso Enzo Peserico (1959-2008), l’ideologia in generale — e quella marxista in particolare, per i prodromi della contestazione — è un «[…] sistema di miti che promette il raggiungimento della felicità attraverso la politica» (16). Come la vulgata marxista riconosce, spesso i fatti si peritano di confutare questi miti. È quel che accade subito dopo la Rivoluzione bolscevica del 1917. Uno degli assiomi-previsioni di Marx recitava che l’industrializzazione avrebbe provocato un ulteriore indebolimento del ceto proletario e dei contadini i quali, di conseguenza, si sarebbero dovuti ribellare. Ciò non avviene, perché la maggior industrializzazione si traduce — inaspettatamente per la vulgata — in un miglioramento, ancorché non omogeneo, delle condizioni generali del Paese. Anzi, Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin (1870-1924), che ha cercato di esportare la rivoluzione nel cuore dell’Europa, davanti al fallimento deve arrendersi e ripensare il tutto. Da questo ripensamento ha origine il «nostro» Sessantotto, del quale possiamo rintracciare anche il luogo e la data di «concepimento».
Il luogo è il cosiddetto «palazzo Rgaspi» — acronimo di Rossiiskii Gosudarstvennyi Arkhiv Sotsial’no-Politicheskoi Istorii, l’Archivio della Storia Politica e Sociale a Mosca, che i moscoviti chiamano ancora archivio del Comintern, l’Internazionale Comunista (1919-1943) —, la data è il 1922. Secondo il giornalista Giancarlo Bocchi, «in queste stanze silenziose, lungo i corridoi che i funzionari percorrono con rispetto, quasi in punta di piedi, sempre parlando sottovoce, si aggira anche un fantasma benevolo. Ha un nome che tra gli archivisti russi incute rispetto e ammirazione, quello di David Borisovic Rjazanov [1870-1938], l’uomo che nel 1921 fondò l’Archivio chiamandolo Istituto Marx-Engels. Eccentrico, coltissimo, dotato di una memoria eccezionale e di una capacità illimitata di lavoro, passò gran parte della giovinezza in esilio e in prigione. […] All’interno quattro piani di casseforti e armadi blindati gonfi di cartelle protetti da serrature elettroniche e piccole telecamere. Due milioni di fascicoli contenenti ciascuno una media di duecento documenti. I corridoi e gli uffici hanno un odore particolare. Non è quello acre delle carte ammuffite, semmai il profumo di documenti ben tenuti. Quello del Comintern è il più grande archivio della storia politica al mondo. Decine di milioni di fogli, su cui è scritta, e in parte è ancora da scrivere, la storia delle rivoluzioni e della politica dalla fine del Settecento a tutto il Novecento. Oltre ai documenti dei cento partiti comunisti aderenti all’Internazionale, oltre alle risoluzioni del Politburo sovietico, agli atti e alle comunicazioni dell’Nkvd, la polizia segreta staliniana, i carteggi sulla lotta fratricida tra anarchici e comunisti nella guerra di Spagna, le carte private dei maggiori dirigenti del comunismo, l’Archivio contiene materiali di tutte le trame clandestine, di tutte le insurrezioni e le rivoluzioni dall’Europa all’Asia, dall’Africa all’America latina» (17). Proprio all’interno di questo istituto Vladimir Il’ič Ul’janov «Lenin» (1870-1924) decide di convocare una riunione — a proposito della quale lo studioso conservatore americano, di origine marocchina, Ralph de Toledano (1916-2007) dirà che «forse essa fu più nociva per la civiltà occidentale di quanto non lo sia stata la stessa Rivoluzione bolscevica» (18) — alla quale invita le menti più lucide e incisive del movimento comunista per fare ripartire la Rivoluzione, possibilmente con una marcia trionfale.
Dopo il fallimento della Rivoluzione proletaria occorreva infatti ripensarne il concetto in chiave più moderna. Fra i partecipanti a quell’incontro sono, fra gli altri, György Lukács (pseudonimo di György Bernát Löwinger; 1885-1971) e Willy Münzenberg (1889-1940). Lo scopo della riunione è di precisare il concetto di Rivoluzione culturale e, purtroppo, i partecipanti coglieranno nel segno arrivando alla conclusione che la rivoluzione dovrà essere «totale». Tutto l’uomo e tutto quanto lo riguarda più da vicino deve esservi coinvolto. Ecco spiegato il passaggio dal piano sociale a quello in interiore homine. Seguendo lo schema della dialettica hegeliana, infatti, nulla deve rimanere immutato: affetti, lavoro, famiglia, costumi, giudizi, tutto sarà investito e trasformato dalle forze materiali della storia. In particolare, Lukács individua nella forza prorompente dell’istinto sessuale il grimaldello per scardinare la famiglia e la società borghese in perfetto accordo, del resto, con quanto avevano intuito e scritto Marx prima e Gramsci dopo. Costoro hanno acutamente individuato le roccaforti della società occidentale e cristiana nei corpi intermedi, con la loro complessa articolazione, dispiegati a servizio e a protezione della persona: famiglia, corporazioni, associazioni di vario tipo, municipi e così via. In particolare, identificano nella religione la causa della forza morale capace di frenare gli istinti animaleschi presenti in ogni uomo. Münzenberg, in particolare, avrà un’intuizione geniale, di per sé neutra, ma usata poi come una «gioiosa macchina da guerra» dai filosofi della Scuola di Fracoforte sul Meno: «Dobbiamo organizzare gli intellettuali per corrompere l’Occidente» (19).
Il motivo è facilmente intuibile: gli insuccessi degli anni Venti del secolo scorso convincono i teorici del comunismo, Gramsci in testa, che nei Paesi a forte tradizione cattolica è impossibile attuare una rivoluzione politica violenta. Occorre cambiare tattica, mutando gradualmente i giudizi di un popolo, con l’aiuto degli intellettuali — che da quel momento, soprattutto in Italia, diventano «organici» alla strategia di conquista della titolarità del potere politico, da parte del partito comunista — attraverso una rivoluzione di tipo culturale. L’anno seguente sarà creato a Francoforte l’Istituto per il Marxismo, nome poi mutato in Istituto per la Ricerca Sociale. Per capirne l’importanza basta vedere i nomi di alcuni dei suoi collaboratori: Max Horkheimer (1895-1973), Theodor Ludwig Wiesengrund-Adorno (1903-1969), Wilhelm Reich (1897-1957) e Herbert Marcuse (1898-1979). In Occidente costoro programmano, riuscendovi, il distacco del corpo sociale da quei valori che per duemila anni l’hanno nutrito e orientato, elaborano cioè una cultura completamente alternativa a quella naturale e cristiana. L’unica Rivoluzione, poi, si è articolata nei vari ambiti della vita dell’uomo, assumendo sembianze diverse.
La formula «sesso, droga e rock’n’roll» nella sua concisione è perfetta per descrivere gli effetti della rivoluzione. Fallita la rivoluzione proletaria, in Eros e civiltà (20) Marcuse individuerà nell’Eros la forza vitale da usare per disintegrare la società, occidentale degli anni Cinquanta del secolo scorso, ancora in larga parte cristiana. In primis, occorre sganciare la sessualità da ogni regola, partendo con il separare il fine unitivo da quello procreativo dell’atto sessuale: naturalmente, per questo scopo, sarà importante l’appena scoperta pillola anticoncezionale. Il terreno è stato preparato nei decenni precedenti dall’opera dello psicanalista austriaco Wilhelm Reich, che coniuga nel suo quadro teoretico di riferimento Marx e Sigmund Freud (1856-1939), del quale, fino alla rottura avvenuta nel 1939, è stato l’allievo prediletto. Reich ha sposato in sostanza la teoria gnostica, secondo la quale, per dirla con le parole di Emanuele Samek Lodovici (1942-1981), «il mondo e l’uomo nel mondo, sono il frutto di una caduta, di una frattura; l’intera realtà in cui ci troviamo è una realtà d’esilio» (21). Per salvarsi, «per tornare in Paradiso», tuttavia, non occorre la Grazia di Dio, ma basta ricorrere allo gnostico, che è omogeneo al divino. Le strade da percorrere sono tre e così le sintetizza Samek Lodovici: «La conoscenza propriamente detta […] che si afferma coincidere perfettamente con l’andamento della realtà stessa. b) Il sesso, la pratica sessuale. La ricostruzione dell’unità avviene attraverso l’unione erotica che elimina con la polarità sessuale la sofferenza e la finitezza. c) La prassi guidata dalla teoria» (22).
Qui è visibile il debito di Reich verso Marx. Reich poneva al centro dell’uomo l’energia sessuale, che non poteva essere repressa in nessun caso — e qui è palese il debito verso Freud — pena una forte nevrosi. È celebre la sua definizione dell’energia sessuale come energia «orgonica» ed è ancor più nota la relazione che Reich istituisce fra il piacere sessuale e la divinità: «Con lo scioglimento del crampo della muscolatura genitale scompare l’idea di Dio» (23). Con un simile «maestro» alle spalle per Marcuse sarà agevole insegnare a liberare la sessualità, per porre fine a una civiltà, a suo dire, oppressiva. Nel Sessantotto si diffonderanno slogan quali Il sesso è tuo, liberalo! e Inventate nuove perversioni sessuali!. Già allora iniziò a delinearsi il fenomeno della pedofilia. In un documento stilato intorno al 1970 e riferibile nientemeno che alle Brigate Rosse, era contenuto un «appello al “proletariato infantile” contro l’infantilismo borghese: dopo aver loro assicurato che “S. Giuseppe e Gesù Bambino non esistono”, li si invita alla rivolta contro i genitori e li si inizia ai giochi erotici e al furto» (24). La Rivoluzione sessuale, dunque, affonda le sue radici, oltre che nel pensiero gnostico, anche nel terreno scivoloso del pensiero moderno, nelle sue sembianze cangianti, ma con un’unità di fondo data dal primato del soggetto: per dirla con monsignor Livi, «[…] con quello dominante di volta in volta nel contesto culturale europeo: il cogito cartesiano, la critica kantiana, il sistema hegeliano, lo scientismo neopositivistico, il vitalismo irrazionalistico, l’attualismo gentiliano, il marxismo, Heidegger, la filosofia analitica» (25).
Lo sfondo gnostico dell’ideologia sessantottina, con quel suo odio per il mondo così com’è e per ogni limite imposto all’uomo dalla sua natura, è all’origine della seconda declinazione della rivoluzione del Sessantotto: la rivoluzione «stupefacente», con cui si proverà — e il tentativo si può dire oggi decisamente riuscito — a far passare un insieme di sostanze narcotiche e tossiche per mezzi di realizzazione di sé oltre gli angusti limiti della natura umana palesati dal reale e attestati dalla nostra esperienza quotidiana.
Al di là delle sue varie incarnazioni, nella sua essenza la modernità consiste nel rendere gradualmente l’uomo emancipato da Dio, fino a rendersi Dio egli stesso. Ovviamente il reale, ogni giorno, ci fa scontrare con i nostri limiti e le nostre debolezze: ecco che allora la droga diventa un mezzo per fuggire dal proprio grigiore quotidiano, dando l’illusione al soggetto di essere il creatore del proprio mondo e della propria vita.
Il Sessantotto, dunque, in linea con la modernità, come compimento di essa nel post-moderno, odia profondamente il reale, fino al punto di credere di poterlo cambiare o con le droghe o, come vediamo oggi, con le parole, magari con l’aiuto di una parte del potere giudiziario, che vorrebbe portare a compimento quelle riforme «antropologiche» che il legislatore non intende o non è in grado di attuare. In questi cinque secoli, il pensiero moderno, prendendo lentamente le mosse dal soggettivismo cartesiano, ha talmente offuscato l’intelligenza dell’uomo contemporaneo da fargli perdere la capacità di confrontarsi con il reale e di capire se si trovi nel vero oppure no. Il «sogno» dubitativo di marca cartesiana, iniziando a «chiudere» il soggetto nella sua soggettività, pian piano, gli ha fatto «dimenticare» la capacità di «intus legere», cioè «intelligere», capire, i nessi causali fra le cose, fra gli enti contingenti, onde poi, per vivere bene, «adeguarsi» a essi, così come sono fatti, per essenza, e non usarli secondo i nostri desideri-capricci. Tradotto, significa, che per «usare» bene un oggetto, specialmente se si tratta di un sofisticato prodotto tecnologico di ultima generazione, devo, necessariamente, seguire le indicazioni del relativo libretto d’istruzioni, pena un suo cattivo funzionamento, o peggio, una sua distruzione. A fortiori, questo dovrebbe avvenire, per la questione antropologica, laddove il pensiero moderno si è preso talmente gioco della verità, della realtà delle cose, da credere di potersi imporre su di esse, addirittura contravvenendole. L’ideologia gender, dialettizzando all’estremo il binomio pensiero-corpo, in questo senso, forse, è il frutto più maturo e tragico del Sessantotto. La Rivoluzione delle droghe, fra l’altro, ha avuto una diffusione immediata. Giovanni Cantoni soleva raccontare che all’inizio degli anni 1970, quando si trovava a essere relatore di conferenze sulla droga, esordiva dicendo che, fino a qualche anno prima, a incontri su quello stesso tema non sarebbe venuto nessuno se non i pochi interessati ai cosiddetti «poeti maledetti» — i più noti sono Charles Baudelaire (1821-1867) e Paul Verlaine (1844-1896) — i quali esaltavano le droghe perché liberavano l’uomo dalle sue «catene», portandolo oltre ogni limite naturale; dopo soli pochi anni, la cosa era divenuta d’interesse anche per la vicina di casa alle prese con la tossicodipendenza di un figlio. Probabilmente, la cosa più rivoluzionaria riguardo questa rivoluzione «psichedelica» la scriverà Richard Neville (1941-2016), all’epoca leader del movimento hippie in Australia; perseguendo l’obiettivo di sganciare l’uomo totalmente dal reale, affermerà che «la droga rende capaci di sgusciare dalla camicia di forza della logica aristotelica» (26).
Chiaramente il bersaglio di una tale affermazione è il primo principio della logica scoperto, ma non inventato da Aristotele (384/383 a.C.-322 a. C.). Secondo il filosofo domenicano Giuseppe Barzaghi, infatti, questo principio è connaturato in noi, perché «[…] è il trasparire nella nostra mente a modo di enunciato primo della legge assoluta dell’Essere, che è Dio stesso, perché Dio è l’Essere per sé sussistente» (27). Tale principio ci assicura che esiste un Ordine, cioè un insieme dei nessi causali fra le cose, il cui garante è Dio stesso; un ordine immutabile che possiamo indagare, riflesso anche sul piano morale, con leggi ben precise e indisponibili alla nostra volontà, pena la fine stessa dell’uomo. Il principio d’identità e di non-contraddizione, in altre parole, segnala all’uomo che esiste una Verità, sempre identica a sé stessa, cui occorre adeguarsi. È l’esatto opposto della dialettica hegeliana che, pretendendo di scalzare il primo principio della logica, presuppone un sistema di valori e di leggi ad esso ispirate continuamente cangiante, eroso, levigato dal flusso della storia, in modo che quel che è vero oggi potrebbe non esserlo domani.
In conclusione, è d’obbligo fare un cenno alla rivoluzione nella musica. Ho già detto come il Sessantotto possa sintetizzarsi nella formula «sesso, droga e rock’n’roll». I ritmi di origine tribale, nonché la marginalità della melodia soverchiata dal rombo martellante e ossessivo, rendono la musica rock e beat (28) particolarmente idonea a favorire un superamento dei propri freni inibitori. Chi l’ascolta si lascia volentieri catapultare in un mondo di sensazioni travolgenti, soprattutto di natura sessuale. Per comprendere la portata rivoluzionaria del rock, basta leggere quanto scriveva, nel 2008, il giornalista specializzato Guglielmo Pepe: «Quarant’anni fa esplose il sacro rock, la musica del secolo che stravolse in poco tempo la vita dei giovani, ribaltò i rapporti familiari, creò una nuova cultura, modificò i comportamenti sessuali» (29).
4. Conclusione
Secondo il saggista Marcello Veneziani, «il ‘68 fallisce come rivoluzione politica e come rivoluzione economica e sociale. Dopo il ‘68 non mutano gli assetti di potere. […] Il ‘68 riesce invece come rivoluzione di costume e di mentalità. Una rivoluzione culturale, quasi antropologica. […] Il ‘68 non è una data storica, piuttosto è la password di un’epoca, il codice d’accesso a un nuovo programma di vita» (30).
L’ultima riflessione mi pare spetti a Giovanni Cantoni, il quale in diverse occasioni, distinguendo sempre, con molta carità, l’errore dall’errante, invitava i suoi ascoltatori a curare, lato sensu, le conseguenze, cioè le piaghe — divorzio, aborto, droga e così via — che la nostra società patisce per la socializzazione delle devianze individuali, per colpa di cause — la cultura post Sessantotto — che la stessa società si rifiutava di vedere.
Cosimo Galasso
Note:
(1) Il testo del discorso è reperibile alla pagina web <http://www.perlulivo.it/radici/movimento/gargonza/dalema2.html> (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 29-6-2019).
(2) Eugenio Corti, Il fumo nel tempio, Ares, Milano 1997, p. 164.
(3) Il sociologo Giuseppe De Rita ha utilizzato l’espressione «società coriandolare» per descrivere un consesso sociale «di indecifrabile polverizzazione e di esasperato individualismo» (Giuseppe De Rita, Governare una società a coriandoli, in Corriere della sera, Milano 14-9-2007).
(4) E. Corti, op. cit., p. 130.
(5) Il testo integrale del Discorso di Harvard, pronunciato l’8-6-1978, è reperibile in traduzione italiana nel sito web <https://www.vietatoparlare.it/discorso-aleksandr-solzenicyn-ad-haward-sul-totalitarismo> o, in un’altra traduzione, in Aleksandr Solženicyn, Il mio grido, Piano B, Prato 2015, pp. 42-66 (p. 60).
(6) Augusto Del Noce, Cristianità e laicità. Scritti su «Il Sabato» (e vari, anche inediti), Giuffrè, Milano 1988, p. 194.
(7) Giovanni Paolo II, Memoria e identità, trad. it., Rizzoli, Milano 2005, pp. 19-21.
(8) Cornelio Fabro, L’avventura della teologia progressista, Rusconi, Milano 1974, pp. 179-180.
(9) Mauro Ronco, La tutela penale della persona e le ricadute giuridiche dell’ideologia di genere, in Cristianità, anno XXXIX, n. 359, gennaio-marzo 2011, pp. 23-44 (p. 23).
(10) C. Fabro, op. cit., p. 245.
(11) Cit. in Antonio Livi, La filosofia e la sua storia, 3 voll. in 4 tomi, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 1997, vol. II, p. 441.
(12) Card. Angelo Bagnasco, Prolusione al Consiglio Episcopale Permanente, Roma 26/29-9-2011, reperibile alla pagina web <https://www.chiesacattolica.it/documenti-segreteria/prolusione-del-card-angelo-bagnasco-al-consiglio-episcopale-permanente-roma-2629-settembre-2011>.
(13) Cit. in Francesco Coralluzzo, Senso comune e ricerca della verità. Contro il relativismo, Leonardo Da Vinci, Santa Marinella (Roma) 2006, p. 75.
(14) Cfr. Giulio Rapetti «Mogol» e Lucio Battisti (1943-1998), Con il nastro rosa, dall’album Una giornata uggiosa, Numero Uno 1980.
(15) C. Fabro, op. cit., p. 178.
(16) Enzo Peserico, Capire o dimenticare il Sessantotto?, in Cristianità, anno XIII, n. 126, ottobre 1985, pp. 13-14 (p. 13).
(17) Giancarlo Bocchi e Viktor Erofeev, L’archivio delle Rivoluzioni, in La Domenica di Repubblica, n. 425, 28-4-2013, reperibile nel sito web <http://download.repubblica.it/pdf/domenica/2013/28042013.pdf>.
(18) Arnaud de Lassus (1921-2017), The Frankfurt School. Cultural Revolution, trad. ingl., in The Angelus online, luglio 2006; reperibile nel sito web <http://www.angelusonline.org/index.php?section=articles&subsection=show_article&article_id=2514>.
(19) Cit. in ibidem.
(20) Cfr. Herbert Marcuse, Eros e civiltà, 1955, trad. it., con una nuova prefazione dell’autore, introduzione di Giovanni Jervis (1933-2009), Einaudi, Torino 1996.
(21) Emanuele Samek Lodovici, Metamorfosi della gnosi, Ares, Milano 1991, p. 8.
(22) Ibid., p. 10.
(23) Wilhem Reich, Psicologia di massa del fascismo, 1933, trad. it., Einaudi, Torino 1974, p. 139.
(24) Cit. in E. Peserico, Gli «anni del desiderio e del piombo». Dal Sessantotto al terrorismo, in Quaderni di Cristianità, anno II, n. 5, estate-inverno 1986, pp. 3-34 (p. 7), disponibile sul sito web <https://alleanzacattolica.org/gli-anni-del-desiderio-e-del-piombo-dal-sessantotto-al-terrorismo>.
(25) A. Livi, op. cit., vol. III, t. 2, p. 635.
(26) Cit. in Massimo Introvigne, Un aspetto della guerra sovversiva. La Rivoluzione della droga e la filosofia chimica, in Cristianità, anno VI, n. 36, aprile 1978, pp. 9-11 (p. 10), reperibile nel sito web <https://alleanzacattolica.org/la-rivoluzione-della-droga-e-la-filosofia-chimica>.
(27) Giuseppe Barzaghi, Grammatica Teologica, corso tenuto presso l’Istituto Veritatis Splendor di Bologna, Lezione 7; reperibile sul sito web <http://www.accademiadelredentore.it/blog-it/Grammatica-teologica,-settima-lezione-36.html>.
(28) Cfr., fra l’altro, sul punto Salvatore Calasso, Alle origini del Sessantotto. La Beat Generation, in Cristianità, anno XLVI, n. 391, maggio-giugno 2018, pp. 37-64.
(29) Walter Salin, Il canto di Satana, Fede e Cultura, Verona 2006, p. 36.
(30) Marcello Veneziani, 68 Tesi contro il ‘68, Edizioni de «Il Giornale», Milano 2018, pp. 9-11.