Mauro Ronco, Cristianità n. 58 (1980)
Il referendum chiesto da Alleanza Per la Vita è adeguato, ammissibile, opportuno, doveroso. Nessun alibi può giustificare chi – con vani pretesti di attese o di alternative inaccettabili – intendesse ancora disertare la concreta battaglia cristiana contro l’omicidio-aborto e per la difesa del diritto alla vita.
In risposta a obiezioni infondate
Le ragioni del «referendum» richiesto da Alleanza Per la Vita
Il 2 febbraio 1980 undici cittadini italiani, membri di Alleanza Per la Vita, hanno reso dichiarazione, innanzi alla cancelleria della Corte suprema di cassazione, di voler promuovere la richiesta di referendum popolare, previsto dall’art. 75 della Costituzione, su un quesito che propone al corpo elettorale l’abrogazione della «legge» n. 194/1978 in tutte le parti che mostrano di voler «legalizzare» l’esecuzione di pratiche abortive sulla donna incinta.
L’iniziativa di Alleanza Per la Vita ripropone l’identico quesito di referendum già depositato presso la Corte di cassazione con l’iniziativa del 21 aprile 1979 da Alleanza Cattolica (1), e fonda i propri criteri con la medesima memoria (2) – redatta dalla commissione giuridica di Alleanza Cattolica – in cui vengono particolareggiatamente esposte, insieme ai criteri, ai limiti e alla entità dell’abrogazione richiesta, le ragioni di principio che hanno ispirato il comportamento di Alleanza Cattolica, e che ispirano quello di Alleanza Per la Vita, associazione scaturita e promossa da Alleanza Cattolica e integralmente consacrata alla battaglia per il ripristino, nell’ordinamento giuridico, del diritto alla vita.
Corre l’obbligo di fare il punto sulle ragioni che inducono Alleanza Per la Vita, – come già avevano indotto Alleanza Cattolica – a compiere questo importante gesto, previo esame delle osservazioni e delle critiche che da parte asseritamente antiabortista sono state e sono rivolte all’iniziativa di referendum.
Silenzi, insinuazioni e obiezioni infondate
Va anzitutto sottolineato che non vi è stata in passato, da parte dei vari organismi laicali cattolici che avrebbero dovuto sentire l’urgenza dell’abrogazione della «legge» abortista, alcuna collaborazione costruttiva nei confronti di Alleanza Cattolica, anche se non si esclude che tale collaborazione possa manifestarsi ora, nei confronti di Alleanza Per la Vita, e in futuro.
A tacere qui delle insinuazioni malevole sugli scopi dell’iniziativa e sui suoi promotori (3), deve osservarsi che le critiche e i rilievi che sono – o sono stati – svolti, non hanno mai superato la soglia delle conversazioni private o dei documenti riservati: sicché il risultato che ne è seguito e ne segue è quello di un tentativo di sabotaggio dell’iniziativa abrogazionista, intessuto di omissioni, silenzi, tergiversazioni, che si appoggiano ora su argomentazioni fumose di «opportunità politica», ora su motivazioni «giuridiche» del tutto infondate.
Per mero scrupolo, tuttavia, si esaminano accuratamente tutte le argomentazioni, che, direttamente o indirettamente, suonano come di critica nei confronti della iniziativa di referendum, per vedere se per caso quest’ultima non si presenti per qualche aspetto lacunosa o imprudente.
Qui di seguito, si dà conto dell’esame compiuto.
Le «ragioni» infondate di ogni ulteriore attesa
La prima obiezione contro il comportamento di Alleanza Per la Vita – come già, l’anno passato, contro quello di Alleanza Cattolica – sembra così sintetizzabile: la rimozione della legge abortista costituisce un valore positivo da perseguirsi. L’accettazione dello strumento del referendum, tuttavia, va considerato come un rimedio estremo, ammissibile soltanto allorché siano risultate impraticabili tutte le altre strade.
Di qui l’invito a posporre l’avvio dell’iter referendario all’accertato fallimento di ogni altra prospettiva di modificazione della legge, ottenibile per vie non referendarie.
In concreto, quelli che formulano la predetta obiezione contro l’iniziativa riproposta oggi da Alleanza Per la Vita, non propongono alcuna iniziativa sostitutiva di quella referendaria, ma si collocano in stato di quiescenza – snervando la combattività del popolo cristiano e disperdendo la reattività che si è formata nella società contro la «legge» abortista – in attesa: a) che sulla «legge» n. 194/1978 si pronunci la Corte Costituzionale; b) che a seguito, ieri, delle elezioni politiche del giugno 1979, e, oggi, di ipotetici successivi avvenimenti, si desti nel parlamento una eventuale volontà riformatrice della legge.
Attendere ancora non è moralmente lecito
A prescindere qui dal rilevare che gli avvenimenti dedotti in condizione sono del tutto incerti e non valgono, comunque, a porre nel nulla l’iniziativa del referendum, si risponde a questa prima obiezione anzitutto attraverso una osservazione fondamentale.
Chi rinuncia, oggi, a usare un mezzo lecito per abrogare una legge iniqua – mezzo concretamente disponibile e utilizzabile -, per affidarsi a incerte o temerarie aspettative, non valuta nella sua effettiva portata anticristiana e antiumana la «legge» abortista n. 194/1978.
E valga il vero.
Tale «legge», infatti – che già oggi, propriamente, non è legge, per il suo contenuto intrinsecamente antigiuridico -, nega in radice il diritto oggettivo, primario, inalienabile di ciascuno alla esistenza, attribuendo alla madre, o, addirittura, al giudice, la piena disponibilità del diritto alla vita.
La ferita, che questa «legge» infligge all’ordinamento giuridico nel suo complesso è di una portata incalcolabile.
Anzitutto, tale «legge», negando ogni tutela al diritto che è fondamento di tutti i diritti, fa sì che l’ordinamento nel suo complesso più non poggi su basi stabili e sicure, e mette in forse la stessa legittimità dell’esercizio della sovranità da parte degli organi dello Stato.
In secondo luogo, sconvolge tutta la scala dei valori giuridici esistenti, mettendo in pericolo la tranquillità dell’ordine – che è la pace – e fomentando il disordine e l’odio tra i cittadini, giacché più nessun diritto può ritenersi sicuro allorché il diritto alla vita perde riconoscimento e tutela.
In terzo luogo, non va sottaciuto che la «legge» n. 1941 1978 provoca spaventosi effetti di morte: favorisce e moltiplica la soppressione della vita umana innocente (4); corrompe la società nel suo insieme, favorendo e «legittimando» la colpa del singolo, e coinvolgendo nell’esecuzione di atti intrinsecamente illeciti le autorità pubbliche amministrative, il personale sanitario medico e paramedico, e financo il cittadino ignaro, le cui contribuzioni obbligatorie versate allo Stato a titolo di imposte sono parzialmente utilizzate per il sovvenzionamento delle pratiche abortive. La legge n. 194/1978, quindi, consentendo di uccidere, e favorendo addirittura l’uccisione della vita umana innocente, crea intorno a sé un alone sempre più largo e più cupo di morte: per questo la sua, pur fittizia, vigenza giuridica deve essere cancellata al più presto.
In quarto luogo – come dimostrano le esperienze anglosassoni e scandinave – la «legalizzazione» dell’aborto costituisce la premessa logica e giuridica necessaria e sufficiente per l’introduzione e la diffusione di pratiche di ingegneria genetica, che avviano su larga scala il feticidio selettivo e la fecondazione artificiale, con tecniche di sperimentazione che possono danneggiare l’integrità dell’uovo fecondato e che, se non si concludono con l’aborto spontaneo o procurato, si risolvono in malattie permanenti che affliggono la persona generata.
Riassumendo, dunque, va detto che la «legge» «legalizzatrice» dell’aborto produce quattro spaventose conseguenze, che non possono essere tollerate, pena la fine della nostra società come società civile: essa rende insicura la legittimità dell’ordinamento nel suo complesso; favorisce ogni eccesso e disordine nella società; produce frutti di morte, coinvolgendo nella sua dinamica perversa fasce di persone sempre più vaste; introduce e diffonde nella pratica medica sperimentazioni sul feto, che allargano a dismisura e fuor d’ogni immaginabile previsione l’arbitrio dell’uomo sull’origine e sullo sviluppo della vita.
Ora, se quella descritta è l’effettiva portata della «legge», nessuna attesa inoperosa e nessuna dilazione nell’uso di tutti gli strumenti leciti sono ammissibili e giustificate, giacché l’attesa e la dilazione si risolverebbero nella prosecuzione della soppressione della vita umana innocente, nella ulteriore perdita di legittimità dell’ordinamento nel suo complesso, nell’accrescimento del disordine e della confusione sociale e nella diffusione di pratiche di sperimentazione e di selezione dell’uomo nella sua età prenatale, radicalmente e intrinsecamente contrarie all’inalienabile diritto alla vita e alla integrità di ogni essere concepito.
Motivi di attesa vani e inesistenti
Se a fronte del male morale e del danno sociale che la permanenza della «legge» abortista comportano, nessuna attesa si appalesa di per sé giustificata, vale tuttavia domandarsi anche se i fatti cui si suggerisce di subordinare l’attesa presentino caratteri tali da ragionevolmente fondare aspettative positive. Si osserva che l’avvio della procedura di promozione del referendum abrogativo dovrebbe attendere, da un canto, la pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale sulle varie eccezioni di illegittimità costituzionale formulate da diverse autorità giudiziarie, chiamate a pronunciarsi sull’applicazione della legge n. 194/1978, e, da un altro canto, la verifica dell’eventuale mutamento di orientamento sul tema dell’aborto da parte delle forze politiche che, a vario titolo e con diverse responsabilità, già hanno concorso all’approvazione della legge n. 194/1978.
Un cenno appena merita il riferimento alla pronuncia della Corte Costituzionale. A prescindere dal notare che il ritardo nella pubblicazione della sentenza induce a gravi timori circa il contenuto della decisione, deve soprattutto sottolinearsi che la doverosità dei comportamenti volti a ottenere l’abrogazione della legge non è tolta dalla mera possibilità che la legge stessa venga per altra via e senza nostro sforzo cancellata dall’ordinamento.
Quanto alla verifica dell’eventuale mutamento di orientamento delle «forze politiche» va osservato: se veramente l’intenzione di abrogare la legge n. 194/1978 fosse coltivata a costo di usare tutti i mezzi leciti – tra cui, pacificamente, deve annoverarsi il referendum -, non si comprende la ragione per cui l’iniziativa della promozione del referendum dovrebbe essere tralasciata in attesa della verifica dell’eventuale mutamento di orientamento delle «forze politiche». Deve rilevarsi, infatti, che nessuna contraddizione e incompatibilità sussiste tra l’avvio della procedura di promozione del referendum abrogativo e la legittima pressione dell’opinione pubblica nei confronti dei vari organi costituzionali aventi potere di indirizzo politico, al fine di ottenere che essi stessi procedano all’abrogazione dell’iniqua «legge» attualmente in fittizio vigore.
Anzi, se è vera l’opinione espressa da autorevoli costituzionalisti, secondo cui il potere legislativo del parlamento (art. 70 Cost.) e l’esercizio delle facoltà del corpo elettorale di procedere alla abrogazione di leggi o di atti aventi forza di legge (art. 75 Cost.) non sono tra loro in contrasto, ma concorrono, in un sistema di pesi e contrappesi, alla formazione organica del tessuto normativo dell’ordinamento (5), va detto che il modo migliore per indurre il parlamento a modificare le proprie leggi consiste nel proporne l’abrogazione attraverso l’avvio della procedura referendaria.
Dunque, se pur vi fosse qualche ragionevole aspettativa che, prima, le elezioni politiche di giugno 1979 e, poi, le vicende successive, avessero modificato l’orientamento sull’aborto delle «forze politiche», l’avvio della procedura di promozione del referendum sarebbe il comportamento più idoneo a stimolare le predette «forze politiche» alla revisione di un atto che si pone in contrasto inconciliabile con il fondamento stesso di ogni ordinamento giuridico.
In concreto, però, in base a quali indizi potrebbe sostenersi con una qualche verosimiglianza che le «forze politiche» hanno mutato il loro orientamento in tema di aborto, ovvero che è necessario un periodo di attesa per verificarne l’eventuale cambiamento di prospettiva?
Moltissimi fatti potrebbero addursi per dimostrare che nessun mutamento di orientamento v’è stato, dall’epoca dell’approvazione della legge 2 maggio 1978, n. 194 a oggi, tra le «forze politiche» dominanti.
Tra i tanti, voglio qui rammentare il fatto più significativo: all’udienza del 5 dicembre 1979, in cui s’è aperto l’esame innanzi alla Corte Costituzionale delle prime sedici eccezioni di incostituzionalità della «legge» abortista, l’Avvocatura generale dello Stato, per conto del governo, presieduto da un uomo politico democristiano e sostenuto in parlamento dal voto unanime dei deputati democristiani, ha difeso la legittimità costituzionale della predetta «legge» (6).
Dunque, se il governo è passato dalla già iniqua neutralità, serbata allorché si trattava di difendere la intangibilità del diritto alla vita, alla difesa della «legge» che misconosce l’esistenza del diritto alla vita nel concepito, significa che il mutamento di orientamento – tra le «forze politiche» – è avvenuto nel senso dell’accettazione attiva della «legge abortista», o, quanto meno, nel senso di una tacita e opportunistica tolleranza.
Le conclusioni possono, a questo punto, essere tratte: se già in astratto appare irragionevole e ingiustificato subordinare l’avvio della procedura abrogazionista alla verifica di un eventuale cambiamento di orientamento delle «forze politiche», in concreto, tenuto conto del comportamento già accertato di coloro che dovrebbero recare gli auspicati cambiamenti, una simile attesa si appalesa addirittura temeraria.
Piena ammissibilità e adeguatezza del tipo di referendum richiesto da Alleanza Per la Vita
Cade qui opportuna la valutazione della piena ammissibilità e adeguatezza del tipo di referendum richiesto ora da Alleanza Per la Vita, come ieri da Alleanza Cattolica.
Nella memoria presentata sul n. 49 di Cristianità, la commissione giuridica di Alleanza Cattolica, dà conto dei criteri seguiti nella formazione del quesito da proporsi al corpo elettorale: il primo criterio consiste nel cancellare ogni norma – nella legge n. 194/1978 – in diretto e stridente contrasto con il diritto naturale e cristiano; il secondo nel lasciar sopravvivere ogni norma – nella stessa legge – pur imperfetta e lacunosa, che provveda in qualche modo alla assistenza e alla tutela della maternità, e ogni norma, pur inadeguata nella formulazione del precetto, o, addirittura, irrisoria nella qualità o nella quantità della sanzione, che serva in qualche modo a consacrare il principio della criminosità dell’aborto volontariamente praticato (7).
Seguendo i due criteri sovraindicati, la richiesta, volta a ottenere l’abrogazione parziale della legge n. 194/1978, viene così formulata:
art. 1: abrogazione di un inciso del comma 1° e degli interi commi 2° e 3°;
art. 2: abrogazione di un inciso del comma 1° e dell’intero ultimo comma;
art. 3: mantenimento integrale a eccezione di una parola;
artt. 4, 5, 6, 7, 8 e 9: abrogazione integrale;
art. 10: abrogazione dei commi 1° e 3°;
artt. 11, 12, 13, 14, 15 e 16: abrogazione integrale;
artt. 17 e 18: mantenimento integrale;
art. 9: abrogazione di un inciso del comma lo, di due incisi del comma 5° e degli interi commi 3° e 4°;
artt. 20 e 21: abrogazione integrale;
art. 22: abrogazione del comma 3°.
Tale formulazione del quesito si presenta perfettamente in linea con quanto previsto dall’art. 75 della Costituzione e con quanto richiesto dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale come condizione di ammissibilità del referendum abrogativo.
Ammissibilità secondo la Costituzione e la giurisprudenza della Corte Costituzionale
Se da un canto, invero, la promozione della richiesta è volta a ottenere l’abrogazione parziale della legge in questione, secondo quanto esplicitamente consentito dall’art. 75 della Costituzione: «È indetto referendum popolare per deliberare la abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge», da un altro canto la medesima formulazione del quesito rispetta appieno, sia sul piano formale che sostanziale, l’esigenza sottolineata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 16 del 1978: che il corpo elettorale sia messo in condizioni di compiere una scelta consapevole e razionale, mercé la semplicità e la precisione delle domande ad esso sottoposte.
Come è noto, infatti, la Corte Costituzionale, onde evitare che l’istituto del referendum abrogativo, previsto dall’art. 75 della Costituzione, possa essere utilizzato a fini eversivi del sistema di democrazia rappresentativa, ha statuito che tra le disposizioni oggetto del quesito proposto al corpo elettorale debba sussistere un certo quale rapporto di omogeneità (8).
Invero, se il referendum non è previsto nell’ordinamento come strumento per sconvolgere gli istituti di democrazia rappresentativa, bensì come strumento idoneo a consentire un giudizio diretto del popolo su determinate misure legislative assunte dal parlamento, cui spetta, per disposizione costituzionale (art. 70), l’esercizio ordinano della funzione legislativa, è evidente che il quesito proposto agli elettori deve presentarsi con una linearità interna che sia corrispettiva della elementarità dello strumento decisionale (sì-no) a disposizione del corpo elettorale: l’omogeneità delle disposizioni oggetto della domanda, pertanto, costituisce la condizione indispensabile – secondo l’ovvio autorevole della Corte Costituzionale, perché le attuazioni pratiche dell’istituto del referendum valgano come momenti di controllo-verifica delle scelte compiute dal parlamento e non vengano trasformate in «plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto o sostenuto le iniziative referendarie» (9).
Ora, nel caso di specie, il quesito proposto agli elettori rispetta appieno questa condizione di ammissibilità del referendum, esattamente individuata dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale: invero, tutte le disposizioni di cui si domanda al corpo elettorale l’abrogazione, sono omogenee tra loro, perché tutte quante volte a «legalizzare» l’aborto e a facilitarne l’attuazione.
A ben guardare il quesito proposto, deve osservarsi, inoltre, che la richiesta di abrogazione parziale, formulata da Alleanza Per la Vita è volta proprio a realizzare una maggiore linearità e precisione della domanda rispetto a quella che si sarebbe realizzata con una richiesta di abrogazione totale: e ciò al fine di rendere più libera l’espressione del voto da parte del cittadino. Qualora, infatti, fosse stata proposta una domanda in cui si fosse chiesta l’abrogazione, in una con le norme che «legalizzano» l’aborto, anche delle norme che stabiliscono provvidenze per la maternità, ben si sarebbe potuto obiettare che la eterogeneità delle norme oggetto di abrogazione avrebbe indebitamente coartato la risposta del corpo elettorale, ben potendo darsi il caso – e, anzi, essendo questo il caso normale – del cittadino che vuole mantenere come reato l’aborto, ma, al contempo, vuole che la maternità sia favorita e tutelata con opportune Provvidenze.
Perfetta logicità del quesito proposto oggi da Alleanza Per la Vita – e ieri da Alleanza Cattolica -, e perfetta rispondenza del quesito ai requisiti di ammissibilità del referendum individuati esattamente dalla Corte costituzionale nella sua recente giurisprudenza.
Altre obiezioni infondate e una alternativa inaccettabile
All’orientamento descritto – e che costituisce espressione della più genuina volontà di tutelare il diritto alla vita – sono state mosse obiezioni inconsistenti, che qui di seguito elenco:
a) esso presenterebbe la posizione antiabortista come quella che chiede esclusivamente la ripenalizzazione, il che sarebbe «fortemente antipopolare» e «comunque propagandisticamente negativo»; b) contrasterebbe con la sentenza n. 27/75 della Corte Costituzionale, il che costituirebbe un «ulteriore argomento offerto dagli avversari»; c) sarebbe il referendum che presenterebbe il minimo grado di probabilità di vittoria, in quanto aggregherebbe contro gli antiabortisti «insieme agli abortisti spinti anche quelli che vorrebbero non punire soltanto i c.d. casi pietosi e che pure criticano il principio di autodeterminazione sancito nella 194»; d) sarebbe giuridicamente dubbio, perché potrebbe essere pretestuosamente dichiarato inammissibile sotto la speciosa osservazione che al popolo compete il solo potere abrogativo delle leggi, e non il potere innovativo delle stesse.
In alternativa si propone, da taluno dei critici, di avviare una procedura di richiesta di referendum volta a cancellare gli artt. 4 e 5 della legge 194/1978, e a modificare l’art. 6, che attualmente disciplina l’aborto oltre il 90 giorno, in modo da fare di questo articolo la disciplina generale dell’aborto per tutta la gestazione.
L’art. 6, secondo questo progetto, andrebbe così letto, dopo l’eventuale abrogazione: «L’interruzione della gravidanza può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici che determinino un grave pericolo per la salute della donna».
Prima di esaminare le critiche rivolte al quesito formulato ora da Alleanza Per la Vita, e ieri da Alleanza Cattolica, giova svolgere un’osservazione: l’intervento che i critici suggeriscono di compiere sull’art. 6 della «legge» è esattamente dello stesso tipo di quello che, attraverso il quesito depositato innanzi alla Corte di cassazione, gli esponenti di Alleanza Per la Vita hanno compiuto su alcuni degli articoli della legge 2 maggio 1978, n. 194. Riprova, quest’ultima, proveniente dagli stessi critici, della perfetta ortodossia costituzionale del quesito proposto da Alleanza Per la Vita (si aggiunga – vi si fa qui solo un cenno – che l’alternativa proposta rappresenterebbe per i cattolici la «conquista» costituita dal consacrare la permanenza della legalizzazione dell’omicidio-aborto latamente «terapeutico» ed eugenetico).
Invero, qualsivoglia censura di carattere tecnico-giuridico che si voglia muovere al quesito presentato da Alleanza Per la Vita è destituito del sia pur minimo fondamento: se è vero, infatti, che il corpo elettorale, attraverso lo strumento del referendum, è titolare di un potere meramente abrogativo, è altresì vero che l’abrogazione di una Qualsiasi norma porta con sé la inevitabile innovazione dell’ordinamento nel suo complesso.
E se ciò vale con riferimento all’abrogazione totale di un testo di legge, a maggior ragione vale con riferimento all’abrogazione parziale di un testo di legge che, essendo stata esplicitamente ammessa dalla Costituzione, non può essere esclusa con il pretesto che al popolo compete soltanto un potere abrogatore e non legislatore.
D’altra parte, se ben si guarda la formulazione del quesito depositato da Alleanza Per la Vita innanzi alla Cancelleria della Corte di cassazione, ci si rende immediatamente conto del fatto che l’effetto innovativo – conseguente alla eventuale abrogazione parziale della «legge» – è esclusivamente il frutto della abrogazione di parti essenziali della «legge» e non dell’esercizio di un potere legislativo attivo da parte del corpo elettorale. Se si osserva. infatti. l’art. 19 nei suoi vari commi, così come risulterebbe dopo l’eventuale abrogazione, ci si rende conto del fatto che la diversa sfera di efficacia delle norme punitive non è il frutto di un diretto intervento innovativo del popolo, bensì la conseguenza necessaria dell’abrogazione degli artt. 5 e 8, 6 e 7 12 e 13.
Invero, essendo le attuali norme punitive costruite come fattispecie a condotta mista, tanto commissiva, quanto omissiva (perché taluno sia punito, per esempio, ai sensi dell’attuale art. 19 c. 1° è necessario che abbia praticato un aborto «senza l’osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 e 8»), è evidente che, venendo meno la possibilità, per l’abrogazione diretta delle norme «legalizzatrici», di porre in essere le condizioni che «legittimano» l’aborto, la punibilità debba conseguire al semplice compimento della condotta positiva, non possedendo più il comportamento omissivo (omissione del compimento delle procedure «legalizzatrici») alcuno specifico disvalore. In altri termini, le modifiche interne all’art. 19 della legge 22 maggio 1978, n. 194, sono conseguenza diretta e immediata dell’abrogazione degli artt. 5, 6, 7, 8, 12 e 13, e per nulla affatto il frutto di un inesistente «eccesso di potere» del corpo elettorale, nell’esercizio della sua facoltà di controllo-verifica delle misure legislative approvate dal parlamento.
Che, d’altra parte, abrogandosi le norme che prevedono le condizioni di «legittimazione» ex unte dell’esecuzione dell’aborto, debbano ipso iure e automaticamente cadere le clausole che escludono la punibilità in forza della messa in essere delle condizioni di «legittimazione» dell’aborto, è cosa talmente evidente che un solo esempio basterà a chiarificare l’assunto. Si pensi a una norma che punisca l’omicidio, così congegnata: art. 1: «l’Ufficio statale per la vita rilascia, a richiesta, autorizzazione a cagionare la morte di un uomo»; art. 2: «Chiunque cagiona, senza autorizzazione, la morte di un uomo, è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno».
Supponiamo che, sempre vigente l’attuale art. 75 della Costituzione, venga presentata richiesta di abrogazione parziale della legge in questione, con riferimento al solo art. 1.
Dovrà dirsi, forse, che il referendum richiesto non è ammissibile perché contrastante con la natura esclusivamente abrogatrice del potere del corpo elettorale? O non, invece, e più esattamente, che, abrogato l’art. 1, il successivo articolo 2 dovrà essere letto – non sussistendo più la possibilità dell’autorizzazione dell’omicidio – nel seguente modo: «Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno»?
L’evidenza della risposta vale a togliere ogni dubbio circa l’ammissibilità del quesito proposto da Alleanza Per la Vita con la sua iniziativa.
Impopolarità del cedimento, non della coerenza
Passando ora alle altre osservazioni critiche rivolte contro la iniziativa di referendum, riproposta oggi da Alleanza Per la Vita, ne rileviamo quelle usuali, secondo cui:
a) il quesito proposto con la richiesta di promozione di referendum del 2 febbraio u.s. presenterebbe la posizione antiabortista come quella che chiede esclusivamente la ripenalizzazione, il che sarebbe «fortemente antipopolare» e «comunque propagandisticamente negativo».
A prescindere dal rilevare che, con la formulazione del quesito, Alleanza Per la Vita ha avuto cura di mantenere in essere le norme positive e di tutela della maternità presenti nella legge 194/1978, va soprattutto detto che, sul piano giuridico, l’affermazione di un principio senza la predisposizione di una sanzione che lo garantisca e lo tuteli, si rivela vana e controproducente. Non si vede, in, particolare, quale concreta stabilità si possa presumere di conferire all’affermazione «di principio» del diritto alla vita senza insieme disporre adeguate sanzioni penali contro chi procede all’omicidio.
D’altra parte, sol che si guardi alla profonda decadenza della nostra società, non può sottacersi che, con ogni probabilità, una delle cause non minori di ciò è il lassismo punitivo, che induce a consentire qualsivoglia comportamento e atteggiamento, purché non leda immediatamente e direttamente gli interessi di coloro che sono in grado di far sentire con forza e vigore la propria voce.
Se, infine, si pone attenzione alla misura delle sanzioni che risulterebbero in seguito all’eventuale abrogazione parziale della legge 194/1978, e al numero e alla specie dei benefici che l’attuale sistema penale e penitenziario prevedono in favore del condannato, deve concludersi che ogni critica al tipo di quesito proposto, in ragione del suo aspetto di «ripenalizzazione», è assolutamente infondata.
Quanto agli aspetti «propagandisticamente negativi», cui fanno cenno i critici dell’iniziativa di Alleanza Per la Vita, va soltanto detto, e l’esperienza lo insegna, che lo sfavore popolare – se non è artificiosamente suscitato dalla pressione dei mass media – si dirige unicamente verso le posizioni equivoche e incerte, e non verso le chiare affermazioni di principio, seguite da coerenti comportamenti pratici.
b) il quesito contrasterebbe con la sentenza n. 27/75 della Corte Costituzionale. Si risponde: la materia trattata è troppo importante perché ci si possa acquietare a decisioni non soddisfacenti e palesemente erronee. Forse che gli abortisti si sono acquietati alla decisione parzialmente liberalizzatrice della Corte Costituzionale, rinunciando al principio della piena e completa libertà dell’aborto? No. Essi si sono giovati della decisione della Corte Costituzionale per superare resistenze e preoccupazioni che sussistevano ampiamente anche nel campo non cattolico. Ciò significa che il principio della intangibilità del diritto alla vita deve essere riaffermato integralmente, se si vuole resistere effettivamente alle pressioni volte alla liberalizzazione dell’aborto.
c) il quesito predisporrebbe condizioni di confronto con gli abortisti che presenterebbero il minimo grado di possibilità di vittoria, perché aggregherebbe contro i sostenitori del diritto alla vita tutti i vari tipi di abortisti, da quelli tiepidi a quelli accesi. Si risponde: a prescindere dal rilevare che la vittoria la concede il Signore – se vuole – e che a noi tocca soltanto combattere bene, va detto che nessun aiuto può ragionevolmente attendersi contro l’aborto da coloro che sono a esso favorevoli.
Piuttosto, il cedimento su posizioni di compromesso indebolirebbe il fronte antiabortista, perché varrebbe ad annebbiare la radicalità del confronto e la comprensione della portata di iniquità contenuta nella «legge» attualmente in fittizio vigore.
* * *
Prudenza e giustizia impongono che – sul terreno della difesa del diritto alla vita – non vi siano cedimenti di sorta.
Al Signore, per la mediazione della Vergine santissima, vada la preghiera che ci sia concessa la fortezza per proclamare a voce alta la verità umana e cristiana sul diritto primario, inalienabile e intangibile alla vita di qualsivoglia persona concepita.
Mauro Ronco
Note:
(1) Cfr. Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, anno 120, n. 112, lunedì 23 aprile 1979, p. 3538; e ibid., anno 121, n. 33, lunedì 4 febbraio 1980, p. 915. Per l’ampia illustrazione dell’iniziativa di referendum cfr. Cristianità, anno VII, n. 49, maggio 1979 interamente dedicato all’esposizione delle ragioni e dei criteri della battaglia contro la legge 22 maggio 1978, n. 194.
(2) Cfr. Memoria giuridica in tema di «referendum» abrogativo della legge 22 maggio 1978, n. 194, a cura della commissione giuridica di Alleanza Cattolica, sotto la direzione del dr. Mauro Ronco, assistente ordinario presso la cattedra di diritto penale dell’Università di Torino, in Cristianità, anno VII, n. 49. cit.
(3) Cfr. Cristianità, anno VII, n. 49. cit.
(4) Sugli spaventosi effetti di morte della legge 194 nel primo anno di applicazione cfr. le dichiarazioni di mons. Micci, in L’Osservatore Romano, 3-2-1980, e quelle del card. Benelli, ibid., 4/5-2-1980.
(5) Per l’individuazione del ruolo del referendum abrogativo nel nostro sistema costituzionale cfr. per tutti CHIAPPETTI, L’ammissibilità del referendum abrogativo, Giuffrè, Milano 1974. Per un’ampia bibliografia si rinvia alla sintesi di LUCIANI, Giuristi e referendum, in Diritto e società, 1978, pp. 113 ss.
(6) Cfr. Cristianità, anno VII, n. 56, dicembre 1979: Il governo democristiano difende la «legge» abortista.
(7) Cfr. Memoria giuridica interna di «referendum» abrogativo della legge 22 maggio 1978, n. 194, cit., in Cristianità, anno VII, n. 49, cit.
(8) Cfr., in particolare, la sentenza della Corte Costituzionale n. 16 del 7 febbraio 1978, in Giurisprudenza costituzionale, 1978, p. 89: «[…] sono inammissibili le richieste così formulate, che ciascun quesito da sottoporre al corpo elettorale contenga una tale pluralità di domande eterogenee, carenti di una matrice razionalmente unitaria, da non poter venire ricondotto alla logica dell’art. 75 Cost.». Sulla sentenza cfr. per tutti l’importante commento di CRISAFULLI, In tema di limiti al referendum, ibid., pp. 151 ss.
(9) Corte Costituzionale, sent. n. 16 del 1978, cit., n. 95.