di Marco Respinti
Una premessa. In Italia si parla e straparla di “Decreto sicurezza” (Decreto Legge n. 113 del 4-10-2018 convertito con modificazioni in Legge n. 132 dell’1-12-2018), il quale, di per sé, solo in parte tratta di immigrazione, ma pochi hanno chiare tre cose fondamentali.
1) Il Decreto non tratta dell’ottenimento dello status di rifugiato, per cui rimane in vigore la normativa precedente. 2) Il Decreto tratta della protezione temporanea a titolo umanitario elencando sei criteri che vi danno diritto: cure mediche per situazioni patologiche di eccezionale gravità; protezione sociale per le vittime di violenza o di sfruttamento; tutela di chi abbia subito violenza domestica; calamità eccezionali che impediscano allo straniero il rientro e la permanenza nel Paese di provenienza in condizioni di sicurezza; atti di particolare valore civile (sostanzialmente, insomma, con valore premiale); e non accoglimento della domanda di protezione internazionale a fronte dell’impossibilità di espellere il richiedente per il rischio di sottoporlo a privazione dei diritti umani fondamentali. 3) Il Decreto chiude sì il “Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati” (SPRAR), istituito dal ministero dell’Interno nel 2002, ma solo perché lo trasforma da struttura generica che era in “Sistema di protezione per i titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati” (SIPROIMI) per accogliere i profughi autentici e riconosciuti, oltre che i soggetti in attesa di identificazione e di verifica se minorenni appunto in ragione della delicatezza della loro condizione. Al contempo affida ad altre strutture (i Centri di accoglienza per richiedenti asilo, CARA, e i Centri di accoglienza straordinaria, CAS) i migranti che attendono di definire il proprio status in merito al riconoscimento, o meno, della protezione internazionale. Quindi non è vero che i migranti vengono lasciati per strada a bighellonare.
Ciò detto, prima di esprimersi in modo partigiano a favore o contro di esso, bisogna comprendere la ragion d’essere del Decreto, che è solo la volontà di razionalizzare l’accoglienza dei migranti in Italia, accoglienza e migrazione che nel corso di quasi un ventennio sono aumentate notevolmente di mole, sono cambiate nella natura e in molti casi hanno generato situazioni confuse se non addirittura ingestibili.
Dai fatti al giudizio, una grave debolezza del Decreto sta però nel fatto che non menziona esplicitamente la persecuzione per motivi religiosi, la quale dovrebbe invece essere il primo dei criteri di accoglienza giacché la libertà religiosa è il primo dei diritti (anche politici) umani. Soltanto dall’ultimo dei sei criteri previsti dal Decreto è infatti in qualche modo possibile inferire un riferimento alla persecuzione religiosa, accanto alla persecuzione per motivi di razza o di sesso, ma quel riferimento è solo indiretto. La persecuzione religiosa insomma nel Decreto c’è, ma si vede poco, molto poco. Renderlo il faro illuminante della politica di accoglienza dei migranti in Italia è dunque quantomeno arduo. La premessa finisce qui.
Uomini e treni
Ora vorrei invece inginocchiarmi davanti alla salma straziata di Prince Jerry Igbinosun. Di lui so poco e nulla, solo quel che ne hanno scritto i giornali. È uno dei tanti morti di ogni giorno. Uno dei molti immigrati che muoiono. Uno dei molti esseri umani che soccombono. Non c’è ragione di occuparsi di lui a discapito di altri. Muoiono ogni giorno a migliaia, muoiono ogni giorno addirittura migliaia di bambini innocenti ancora nel ventre delle proprie madri. Perché Prince Jerry dovrebbe essere diverso? Come non cadere nel facile moralismo buonista di chi trae dal mucchio un caso a caso, dimenticandosi gli altri? Come non essere ipocriti e bolsamente retorici?
In uno e un modo soltanto. Fermandoci un secondo a pensare che tutti i morti di ogni dì che non conosciamo e che – giustamente, per forza di cose – ignoriamo, fuori e dentro la pancia delle loro madri, sono esseri umani, dotati di un’anima creata a immagine somiglianza di Dio, tutti chiamati alla santità anche se non sanno nulla del Padreterno. In questo modo le migliaia di facce indifferenziate delle migliaia di morti di ogni giorno che non conosciamo e di cui non ci interessiamo diventano tutte un caso insopportabile.
Prince Jerry si è gettato sotto un treno a Tortona a 25 anni. «Era sbarcato due anni e mezzo fa ad Agrigento», scrive il Corriere della Sera, «dopo sei mesi trascorsi in Libia dei quali non amava parlare. Genova era diventata la sua città e il centro Migrantes di don Giacomo, la sua casa. Una storia come tante e come tante tragicamente finita. “Girava sempre con un libro di chimica sotto il braccio, lo leggeva ovunque, appena poteva”, ricorda Maurizio Aletti, presidente di Migrantes, che ha stampato nella memoria il sorriso gentile e costante del giovane nigeriano. «La chimica era la sua passione. Avrebbe voluto fare quello nella vita. Pensava di iscriversi all’università per sostenere gli esami necessari a farsi riconoscere la laurea”». Veniva dalla Nigeria, insomma, e in dicembre gli era stata respinta la richiesta di protezione internazionale per mancanza di requisiti. Ha deciso di finirla così.
Ora, chiunque si azzardasse anche solo a pensare che la colpa sia del “Decreto Sicurezza”, del ministro degl’Interni e vicepremier Matteo Salvini o del governo italiano meriterebbe la famosa ed evangelica macina al collo. Ma la storia di Prince Jerry non può non sconvolgerci, proprio – salto solo apparentemente di palo in frasca – come le vicende dei piccoli Charlie Gard (2016-2017) e Alfie Evans (2016-2018).
Da quale inferno terrestre veniva Prince Jerry per sentirsi comunque meglio nel nostro mondo dove massacriamo i bambini nel ventre materno e li mandiamo innocenti al patibolo se sono ammalati, motivo per cui, quando gli hanno detto che qui non avrebbe più potuto restarci, ha preferito il suicidio, dico il suicidio, e in modo raccapricciante qual è l’essere dilaniato da un treno in corsa?
Prince Jerry ha probabilmente cercato di fare il furbo. Ha cercato di ottenere un permesso che le regole vigenti in Italia non gli consentono. Perché mai ha cercato di fare il furbo in quel modo, tale per cui, quando non ce l’ha fatta, ha scelto di auto-macellarsi sotto un treno?
Prince Jerry non aveva alcun diritto di ottenere protezione temporanea a titolo umanitario in Italia perché il suo non rientrava in alcuno dei sei criteri previsti dalle regole. Eppure evidentemente al suo Paese si sta tanto male da preferire la morte qui.
Le regole e le loro falle
La distinzione fra migranti economici e migranti che hanno titolo a protezione temporanea per ragioni umanitarie è sacrosanta e va difesa contra mundum. Ma siamo sicuri che i criteri previsti dalle regole italiane esauriscano tutte le casistiche? Sono le regole a stabilire cos’è la necessità umanitaria o sono le necessità umanitarie a dover dettare la ratio delle regole?
Siamo sicuri che, distinguendo fra migranti economici e persone bisognose di protezione temporanea a titolo umanitario, bastino i criteri contemplati nelle regole vigenti in Italia? Quando diciamo “conflitto a bassa intensità” cosa intendiamo? Quando diciamo assenza di guerra lo ricordiamo che non vuol affatto dire pace? Ci chiediamo perché, se il nostro mondo fa tanto schifo, fanno a botte per venire qui, e quando diciamo che debbono tornare là si ammazzano in modo brutale e barbaro?
Molti ripetono, giustamente, che delle regole bisogna pur darsele, altrimenti si tornerebbe alla Babele vigente prima. Vero. Ma siamo sicuri di poter vivere solo di regole, regole che restano imprescindibili, ma che sono fatte per l’uomo e non l’uomo per loro?
Assieme alla storia di Prince Jerry, infatti, le cronache ci raccontano pure del tredicenne e del diciassettenne che a Verona hanno bruciato vivo un barbone di strada e che però non pagheranno per il loro gesto. Siamo sicuri che le nostre regole, senza le quali non vivremmo, vadano bene?
È una domanda vera, la mia, perché di risposte non ne ho. Mi basterebbe però che oggi qualcuno di quelli che contano la domanda se la ponesse assieme a me.