Le tesi indigeniste e ambientaliste che fermentano nella sinistra catto-ecologista brasiliana trovano opposizione negli stessi indigeni
di Stefano Nitoglia
Da molti anni è in corso in Brasile un grande dibattito e una lotta politica sulla cosiddetta «preservazione ambientale» dell’Amazzonia. Viene sostenuta da potenti gruppi ambientalisti e ONG come Greenpeace, organizzazione ambientalista e pacifista fondata a Vancouver nel 1971 che non ha bisogno di presentazioni; Survival International, movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, fondato nel 1969 a Londra con la missione di «aiutare i popoli indigeni e tribali a difendere le loro vite, le loro terre e i loro fondamentali diritti umani contro ogni forma di persecuzione, razzismo e genocidio»; l’Instituto Socioambiental (ISA), ONG brasiliana fondata nel 1994, con la missione di «proporre e promuovere soluzioni a problemi sociali e ambientali con particolare attenzione alla difesa dell’ambiente, del patrimonio culturale, dei diritti umani, degli indigeni e di altre comunità tradizionali in Brasile», e anche alcuni settori della Chiesa brasiliana, come la Commissione Pastorale della Terra (Comissão Pastoral da Terra, in sigla: CPT), organo della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (CNBB) impegnato nella promozione «della conquista dei diritti e della terra, della resistenza nella terra, della produzione sostenibile». Tutti costoro combattono contro una presunta eccessiva “deforestazione” di quest’area, che avrebbe conseguenze nefaste per l’intero clima mondiale. Dall’altra parte, poche organizzazioni, dotate di scarsi mezzi finanziari e di un appoggio pressoché nullo della grande stampa, ma con un certo seguito nell’opinione pubblica locale che, invece, contesta le tesi ambientaliste.
Gli ambientalisti sostengono che le popolazioni indigene dell’Amazzonia dovrebbero restare nella foresta (di qui la loro contrarietà alla deforestazione), vivendo in villaggi lontani dai luoghi urbani e non ripudiando i costumi indigeni perché la civilizzazionesarebbe una cosa negativa. Si tratta della cosiddetta “rivoluzione indigenista”, cavalcata soprattutto dalla sinistra cattolica legata alla cosiddetta teologia della liberazione, nella quale il socialismo si coniuga con l’ambientalismo ecologista più spinto, denunciata fin dal 1977 dal leader cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira nel suo libro Tribalismo Indigena, ideal comuno-missionario para o Brasil no seculo XXI (Ed. Vera Cruz, San Paolo, 1977).
Ebbene, la tesi indigenista ambientalista ha oppositori anche nell’ambiente indigeno. Venerdì 6 maggio, il programma televisivo brasiliano Pânico ha avuto come ospite il leader evangelico indigeno Henrique Dias, dell’etnia Terena. Nel corso del programma Dias ha affermato che la tesi della preservazione ambientale non trova consenso nei villaggi indigeni e ha criticato il ruolo delle ONG ambientaliste, che non cercherebbero il bene delle popolazioni indigene. «C’è una grande valenza politica nell’idea di preservazione. In effetti, la preservazione non guarda agli indigeni nel loro insieme, ci sono gruppi che invocano questa idea come se fosse la verità assoluta, questo non è vero», ha detto. «Ci sono popolazioni indigene che cercano di migliorare la propria vita e ci sono pressioni politiche molto forti di persone che non hanno nulla a che fare con le popolazioni indigene. Questa polarizzazione ha causato gravi danni alle popolazioni indigene in Brasile».
Per il leader indigeno l’idea di vivere in villaggi lontani dai luoghi urbani è un’utopia. «Vogliamo una migliore qualità della vita. Questa visione che gli indigeni debbano rimanere nella boscaglia e vivere la propria vita mi sembra un’utopia», ha spiegato. Come afferma Dias, «prima o poi, gli indigeni lasceranno questo posto per cercare esperienze migliori per loro. Questo è davvero un ritardo per noi come realtà. Ci sono ONG che portano aiuto, ma la maggior parte no. Alcuni vogliono semplicemente portare difficoltà agli stessi indigeni».
Martedì, 10 maggio 2022