Edward Feser, Cristianità n. 415 (2022)
Cattolico e padre di sei figli, Edward Feser è professore associato di filosofia presso il Pasadena City College, in California. I suoi principali interessi di ricerca sono la metafisica, la teologia naturale e la filosofia politica, affrontate privilegiando approcci aristotelico-tomisti. Ne sono l’esito, fra le altre, le opere Scholastic Metaphysics: A Contemporary Introduction, Editiones Scholasticae, Heusenstamm (Germania) 2014; Neo-Scholastic Essays, St Augustine’s Press, South Bend (Indiana) 2015; Five Proofs of the Existence of God, Ignatius Press, San Francisco (California) 2017; Aristotle’s Revenge: The Metaphysical Foundations of Physical and Biological Science, Editiones Scholasticae, Heusenstamm (Germania) 2019, nonché il contributo all’opera collettanea By Man Shall His Blood Be Shed: A Catholic Defense of Capital Punishment, Ignatius Press, San Francisco (California) 2017. Suoi articoli sono apparsi su periodici statunitensi di orientamento conservatore, quali The American Conservative, The American Mind, Crisis, First Things, National Review e New Oxford Review. Il saggio Natural Law, Natural Rights, and Private Property che qui si propone èstato pubblicato sulla rivista online Law & Liberty il 18-3-2012 (nel sito web <https://lawliberty.org/forum/natural-law-natural-rights-and-private-property>, consultato il 4-7-2022). Traduzione, note e integrazioni al testo fra parentesi quadre sono redazionali.
In questo saggio cerco di abbozzare una trattazione classica dei diritti naturali e della proprietà privata basata sulla legge naturale. La definisco «classica» in quanto fondata su assunti metafisici del genere difeso da filosofi antichi e medievali come Platone [428/427 a.C.-348/347 a.C.], Aristotele [384/383 a.C.-322 a.C.] e Tommaso d’Aquino [1225-1274]; assunti molto diversi da quelli prettamente moderni e post-cartesiani, che sono alla base di altre teorie come quelle — cosiddette giusnaturalistiche — dei primi pensatori moderni alla John Locke [1632-1704] o della contemporanea «nuova teoria della legge naturale» associata a John Finnis e Robert P[eter]. George.
In che cosa, esattamente, le assunzioni metafisiche classiche differiscono da quelle moderne? Evitando volutamente di andare per il sottile, la filosofia classica tende all’essenzialismo, mentre la filosofia moderna tende al nominalismo e a visioni a questo collegate. Vale a dire: la filosofia classica propende a ritenere che le cose abbiano un’essenza, o natura, da intendersi come dato di fatto oggettivo, mentre i filosofi moderni tendenzialmente sostengono che le cose non abbiano essenza, o che la loro essenza dipenda da una convenzione, cioè sia un prodotto dell’uomo piuttosto che rintracciabile nella natura. Inoltre, la filosofia classica propende per una visione teleologica della natura; quella moderna, invece, per una visione meccanicistica. In altre parole, i filosofi classici generalmente ritengono che le cose siano naturalmente orientate alla realizzazione di determinati fini od obiettivi — i discepoli di Aristotele le chiamano, com’è noto, «cause finali» — mentre i filosofi moderni tendono a negare questa tesi.
Spesso viene affermato che le tesi metafisiche classiche siano state confutate dalla scienza moderna. Non è così. In effetti, i primi filosofi moderni come Cartesio [René Descartes, 1596-1650], Hobbes [Thomas, 1588-1679] e Locke hanno respinto questi assunti per una combinazione di ragioni politiche e filosofiche, e poi hanno semplicemente ridefinito la scienza in modo tale che nessuna spiegazione che facesse riferimento all’essenza — come era intesa dai pensatori classici — o alle cause finali potesse essere considerata scientifica. E infatti i risultati della scienza moderna sono perfettamente compatibili con le tesi metafisiche classiche, se correttamente intese; il che, da parte degli scrittori contemporanei, cui manca una conoscenza adeguata della storia della filosofia antica o medievale, accade raramente. In effetti, i metafisici e filosofi della scienza neo-essenzialisti contemporanei, come Brian [David] Ellis, Nancy [Campbell] Cartwright, C[harles]. B[urton]. Martin [1924-2008], John [Frederick] Heil e George Molnar [1934-1999] hanno auspicato un ritorno a qualcosa che assomigli a queste vecchie categorie proprio per dare senso alla scienza moderna. Sono, inutile dirlo, questioni di rilievo, e ho difeso ampiamente la metafisica classica nel mio libro The Last Superstition in forma polemica e nel mio Aquinas in forma non polemica (1).
Legge naturale
Le differenze tra i filosofi classici e quelli moderni circa la metafisica comportano, in ogni caso, differenze cruciali sulla morale. Per la tradizione classica, l’essenza o la natura di una cosa determina uno standard oggettivo di bontà. Per fare un esempio semplice, il fatto che l’essenza di un triangolo euclideo consista nell’essere una figura piana chiusa con tre lati rettilinei implica che un triangolo disegnato lentamente e accuratamente su carta patinata con una penna a punta fine e un righello sia un buon triangolo, mentre uno disegnato frettolosamente a pastello sul sedile di plastica ruvido di un autobus in movimento ne sia un esempio scadente, perché il primo si avvicina maggiormente alla sua essenza, mentre il secondo — con le sue inevitabili linee spezzate e ondulate — è da essa ben lontano. Allo stesso modo, ha senso affermare che uno scoiattolo integro e sano a cui piace arrampicarsi sugli alberi e raccogliere noci per l’inverno sia uno scoiattolo buono, mentre un esemplare malaticcio privo di coda o di una zampa, che preferisce stare in una gabbia a mangiare dentifricio su crackers Ritz sia uno scoiattolo scadente. Perché il primo si avvicina maggiormente alla normale anatomia e al modello di vita che la natura ha stabilito per gli scoiattoli, come definita in parte dai fini, dagli obiettivi o dalle tendenze — quali scorrazzare e raccogliere noci — che sono tipici di questa specie.
Ovviamente gli esempi forniti finora non riguardano la bontà morale in sé — non avrebbe senso accusare un triangolo mal disegnato o uno scoiattolo ferito di una mancanza di etica! —, ma per la tradizione filosofica classica essi illustrano un concetto generale di bontà del quale il bene morale è una specie. Come ha sottolineato l’eticista neo-aristotelica contemporanea Philippa [Ruth] Foot [1920-2010] — e come l’esempio dello scoiattolo suggerisce —, in particolare nel caso degli esseri viventi, la loro «bontà naturale» o la mancanza di questa va definita in termini perlopiù teleologici. La leonessa che nutre i suoi cuccioli è una buona leonessa perché adempie — almeno a tal riguardo — ai fini che la natura le ha prefissato, mentre la leonessa che lascia morire di fame i suoi cuccioli è in questo senso in difetto, proprio come è in difetto uno scoiattolo a tre zampe o un triangolo disegnato male. A differenza della bontà o difettosità di triangoli e simili, quelle di un essere vivente hanno a che fare non solo con la statica realizzazione di qualche forma o struttura archetipica, ma anche con lo sviluppo nel tempo di alcuni modelli di comportamento paradigmatici. Negli esseri umani questo standard di bontà o di difettosità assume un carattere morale nella misura in cui la nostra realizzazione — o mancata realizzazione — dei fini che la natura ci ha prefissato risulta da azioni liberamente scelte. Quindi, per fare un esempio semplice, l’intelletto umano, secondo la tradizione classica, è naturalmente orientato alla ricerca della verità: questo è il suo scopo, la sua causa finale, anche se non sempre viene realizzato, così come, sebbene il fine naturale, o scopo, del cuore sia di pompare sangue, può accadere che ciò non accada a causa di un difetto genetico, di un incidente, o perché Hannibal Lecter ha deciso di cibarsene (2). Adempiere a questo fine o scopo equivale per noi a prosperare nel tipo di essere che siamo, mentre mancarlo significa atrofizzarci come esseri umani. Ne consegue che perseguire la verità è per noi bene e mancare di farlo è male; inoltre, coloro che la perseguono sono a tale riguardo buoni o virtuosi, mentre coloro che non lo fanno, sempre a tale riguardo, cattivi o viziosi.
Ora, la ragione pratica, in questa prospettiva, ha come fine naturale il perseguimento di ciò che l’intelletto percepisce come buono per noi e la fuga da ciò che identifica come cattivo. Da qui la famosa affermazione di Tommaso d’Aquino secondo la quale il primo principio evidente della legge naturale è che il bene debba essere fatto e perseguito e il male debba essere evitato (3). Con questo non intende che sia auto-evidente il fatto di essere vincolati alla legge morale, ma che lo sia il fatto che ogniqualvolta scegliamo di fare qualcosa è perché lo consideriamo, in un modo o in un altro, buono, e che quando evitiamo di fare qualcosa è perché, in qualche modo, lo consideriamo cattivo. Ciò vale anche per chi è convinto che quanto sta facendo è moralmente sbagliato. Il rapinatore che ammette la natura malvagia di una rapina prende comunque il portafoglio della sua vittima, perché ritiene un bene avere dei soldi per pagare le proprie medicine; il tossicodipendente, consapevole di quanto le proprie consuetudini siano sbagliate e degradanti, pensa tuttavia che sarebbe un male soffrire le conseguenze spiacevoli dell’astinenza; e così via. Semplicemente, siamo fatti per perseguire il bene ed evitare il male in questi stessi esili termini. Supponiamo, tuttavia, che l’intelletto arrivi a cogliere che ciò che è veramente bene per noi sia la realizzazione dei fini che la natura ci ha prefissati e ad evitare tutto ciò che allontana la realizzazione di quei fini. Allora, nella misura in cui saremo razionali, ci impegneremo a realizzare quei fini. In breve, la ragione è modellata per perseguire ciò che identifica come buono; e ciò che è davvero buono è la realizzazione dei fini che la natura ha posto per noi; di conseguenza, una persona razionale e consapevole di ciò cercherà di realizzare quei fini. In questo senso, essere morali equivale semplicemente ad agire razionalmente ed essere immorali equivale a essere irrazionali. La forza vincolante della morale deriva dunque dal fine naturale, o causa finale, della ragione, così come, più in generale, il contenuto della morale deriva dai fini naturali, o cause finali, delle nostre diverse capacità. La morale, per la tradizione filosofica classica, è dunque doppiamente dipendente da una concezione tanto essenzialistica quanto teleologica della natura.
Diritti naturali
Dove entrano in gioco i diritti naturali? L’argomento di base è il seguente. Siamo obbligati razionalmente a perseguire ciò che per noi è buono e ad evitare ciò che è cattivo, dove «buono» e «cattivo» devono essere intesi nella cornice sopra descritta della metafisica classica. Quindi siamo obbligati, per esempio, a perseguire la verità e ad evitare l’errore, a sostenere la nostra vita e la nostra salute e ad evitare ciò che per esse è dannoso, tralasciando in questa sede le varie precisazioni e difficoltà che una teoria della legge naturale pienamente sviluppata avrebbe da chiarire, ma che esulerebbero dagli scopi di questo saggio. La forza e il contenuto di queste obbligazioni derivano dalla nostra natura di esseri umani. Ora, fa parte di questa natura l’essere animali sociali, come notoriamente osservava Aristotele (4). Vale a dire, viviamo per natura in comunità con altri esseri umani e, per il nostro benessere, dipendiamo in vari modi da loro, sia in forma negativa (come il nostro bisogno di non essere danneggiati dagli altri), sia positiva, come il nostro bisogno di assistenza da parte loro. In maniera ancora più palese, siamo legati agli altri in virtù dell’essere genitori o figli, fratelli, nonni o nipoti, cugini e così via. All’interno delle società più ampie generate da insiemi di famiglie, si formano altri tipi di relazioni, come quella di essere amici, lavoratore e datore di lavoro, cittadini e così via. Nella misura in cui alcune di queste relazioni ci sono connaturate, la loro realizzazione rappresenta ciò che è naturalmente buono per noi.
Per esempio, come ha notato la Foot, «al pari delle leonesse, i genitori umani sono in difetto se non insegnano ai loro piccoli le abilità di cui hanno bisogno per sopravvivere» (5). Diventare genitori fa parte della nostra natura, proprio come il fatto, da bambini, di dipendere dai nostri genitori. Di conseguenza, è oggettivamente un bene per noi essere buoni genitori per i nostri figli, ed è un male essere cattivi genitori; così come, ancora più palesemente, è oggettivo il fatto che sia un bene per i bambini essere accuditi dai propri genitori. Ora, se è bene che un genitore provveda ai suoi figli, e dato che siamo obbligati a fare ciò che è bene per noi, ne consegue che un genitore ha l’obbligo di provvedere loro. Allo stesso modo, poiché — dato il loro bisogno di cose come l’istruzione e la disciplina — è bene che i figli obbediscano e rispettino i loro genitori, ne consegue l’obbligo che essi hanno di obbedire loro e di rispettarli. Ora, un obbligo da parte di una persona A verso una persona B comporta un diritto da parte di B nei confronti di A. Ne consegue, a sua volta, che i figli abbiano diritto di essere accuditi dai genitori, e che i genitori abbiano diritto di essere obbediti e rispettati dai propri figli. E poiché gli obblighi che generano i diritti in questione sono obblighi di diritto naturale, anziché di diritto positivo, ne consegue che sono diritti naturali, fondati non su convenzioni ma sulla natura umana.
Altri obblighi derivanti dalla legge naturale verso vari altri esseri umani genereranno allo stesso modo altri diritti naturali. A livello più alto, siamo tutti obbligati ad astenerci dall’interferire con i tentativi degli altri di adempiere ai vari obblighi morali imposti loro dalla legge naturale: il diritto naturale più elementare è il diritto di poter fare il bene e di non essere costretti a fare il male. I talenti e le circostanze individuali lasciano inevitabilmente aperte diverse possibili strade, ugualmente legittime, attraverso le quali è concretamente possibile perseguire il bene che ci è posto dalla natura, cosicché la legge naturale comporta anche il diritto a una buona dose di libertà personale, per esempio nella scelta del coniuge, del percorso di carriera o di dove vivere. E naturalmente non possiamo perseguire alcun bene o adempiere a nessun obbligo se la nostra stessa vita può esserci tolta da altri a piacimento; pertanto, la legge naturale implica che ogni essere umano — o quantomeno ogni essere umano innocente — abbia il diritto di non essere ucciso. Infine, altri diritti deriveranno da vari altri risvolti dei fini fissati per noi dalla natura.
Questo abbozzo, per quanto di livello molto generico, ci dà un’idea della genesi dei diritti secondo la teoria classica del diritto naturale. I teorici della legge naturale sarebbero in grado di aggiungere molti altri dettagli, presentazioni di difficoltà ed esempi a questa esposizione essenziale. È particolarmente importante sottolineare che l’accostamento classico alla teoria dei diritti basato sulla legge naturale pone limiti ben precisi a ciò che può essere definito un diritto naturale. Nonostante il concetto stesso di diritto implichi una certa misura di libertà, tale libertà non può essere assoluta, in quanto, visto che lo scopo dei diritti naturali è di permetterci di realizzare i fini che la natura ci ha prefissato, non può esserci, nemmeno in linea di principio, un diritto naturale a fare ciò che è contrario alla realizzazione di quei fini. In breve, non può esserci un diritto naturale a fare il male. Ciò non significa che la teoria classica della legge naturale preveda uno Stato assistenzialistico e paternalistico o l’istituzione di una polizia della moralità. Potremmo addurre tanti tipi di motivi, compresi alcuni di natura morale, che la rendono una cattiva idea anche dal punto di vista della legge naturale. La verità è che non si può parlare di un diritto naturale a indulgere al vizio, anche se potrebbero esserci motivi pragmatici, o motivi morali al di là di quelli basati sui diritti, per cui tollerarlo.
La proprietà privata
Ora, per natura gli esseri umani hanno ovviamente bisogno di risorse naturali per sopravvivere. Ma con questo assunto è coerente anche la tesi che dovrebbe essere loro riconosciuto il solo diritto all’uso delle risorse naturali e non anche quello di possesso, a meno che non si intenda una proprietà collettiva. Ovviamente, ci sono problemi pratici molto seri e ben noti, collegati sia a una situazione in cui le risorse naturali sono lasciate a disposizione di tutti, sia a un qualunque sistema di proprietà collettiva di stampo socialista o comunista. Ma questi problemi da soli dimostrerebbero esclusivamente che la proprietà privata pone alcuni vantaggi pratici, non che vi sia un diritto naturale ad essa. Quindi, in che modo la teoria classica del diritto naturale mostra che tale diritto, di fatto, sussiste?
La dimostrazione inizia con l’osservare che l’istituto della proprietà privata è qualcosa verso cui siamo naturalmente portati e che è perfino necessario per il nostro benessere. Riguardo al primo punto, possiamo notare innanzitutto che l’intelletto di ogni essere umano consente a quest’ultimo — a differenza degli animali inferiori — di assumere l’occupazione e il controllo permanente di una risorsa e di usarla a proprio vantaggio personale; e tale occupazione, controllo e uso è proprio ciò in cui consiste la proprietà privata. Inoltre, così facendo, l’individuo conferisce inevitabilmente qualcosa della propria personalità alle risorse che trasforma, in quanto le proprietà particolari che una risorsa assume per effetto del suo uso e trasformazione riflettono le sue intenzioni, conoscenze, talenti e sforzi personali. Proprio attraverso l’uso di risorse esterne, quindi, tendiamo inevitabilmente a inserire in esse qualcosa che è già nostro; il che è, ovviamente, ciò che anche Locke evidenzia nel suo discorso sul «mescolamento del nostro lavoro» con risorse esterne (6).
Quindi le nostre facoltà intrinseche ci orientano naturalmente verso la proprietà privata. Ma tale proprietà è persino necessaria. È necessaria prima di tutto per noi come individui. Le capacità e le potenzialità personali di un individuo non possono essere, rispettivamente, esercitate e realizzate, senza almeno un corpo stabile di risorse su cui esercitare i propri sforzi. La libertà d’azione richiesta per fare ciò non può esistere se non ha accesso permanente almeno a una parte di tali risorse. E, come attesta l’esperienza storica, anche nelle società più egualitarie gli esseri umani hanno un desiderio naturale di avere almeno qualcosa da chiamare proprio, e non possono essere felici se questo desiderio viene frustrato.
La proprietà ci è necessaria anche come famiglie. Siamo naturalmente ordinati all’avere dei figli e, come abbiamo visto, per la teoria classica della legge naturale ciò comporta l’obbligo di provvedere a tutti i figli che abbiamo, non solo materialmente ma anche spiritualmente, cioè ci dobbiamo preoccupare anche della loro formazione e della loro crescita morale. Generalmente, quando i figli crescono, raggiungono l’età adulta e costituiscono famiglie proprie, hanno all’inizio bisogno di un aiuto da parte dei genitori; ci sono altri parenti — zie, zii e cugini — dai quali in alcune circostanze potremmo anche pretendere un’assistenza secondo il diritto naturale, ma gli obblighi in questo caso non sono forti come quelli tra genitori e figli; poi ci sono sempre emergenze alle quali pure bisogna essere preparati nella misura del possibile. In quanto cellula fondamentale dell’assetto sociale, per il bene della quale esistono altre istituzioni come gli Stati, è essenziale che la famiglia conservi — e in una misura significativa — l’indipendenza. Queste considerazioni implicano che le famiglie debbano essere in grado di accumulare ricchezze sulle quali hanno diritti permanenti di uso e di trasferimento.
Infine, la proprietà privata è necessaria per il bene delle società più grandi, che tendono naturalmente a formarsi come gruppi di famiglie. Qui diventano particolarmente rilevanti le ben note considerazioni a favore della proprietà privata addotte da Aristotele e da Tommaso d’Aquino. Gli incentivi al lavoro sono massicciamente ridotti laddove al lavoratore non è permesso di raccogliere i propri frutti, il che limita drasticamente la quantità di ricchezza disponibile alla società in generale; la pianificazione economica e sociale è molto più efficiente quando gli individui sono posti in grado di gestire la propria proprietà rispetto a quando le cose sono tenute in comune — un punto che [Ludwig von] Mises [1881-1973] e [Friedrich August von] Hayek [1899-1992] hanno sviluppato in un dettaglio illuminante; e la pace sociale è più probabile quando ogni individuo ha la propria proprietà rispetto a quando deve discutere su come utilizzare al meglio ciò che è in comune.
Se le nostre capacità naturali sono ordinate alla proprietà privata, e se l’esercizio di quelle capacità e l’adempimento dei nostri obblighi morali secondo la legge naturale richiedono tale proprietà, allora ne consegue, data la giustificazione dei diritti naturali sopra delineata, che la legge naturale comporta un diritto naturale alla proprietà privata. Per adesso, però, questo stabilisce solo l’istituto generale della proprietà privata. Abbiamo bisogno di dire qualcosa di più per determinare come un titolo su questa o quella particolare risorsa possa venire acquisito da questo o quel particolare individuo. Vale a dire, abbiamo bisogno di una teoria riguardo l’«appropriazione originaria» o «acquisizione iniziale».
Nei propugnatori della teoria classica della legge naturale vi è la tendenza a rintracciare l’origine della proprietà nella «occupazione originaria». L’occupazione di una risorsa precedentemente non posseduta è una condizione necessaria alla proprietà perché senza quella non è possibile farne nient’altro, compresa l’esecuzione di qualsiasi altra procedura ritenuta necessaria all’appropriazione stessa. In particolare, non si può «mescolare il proprio lavoro» con una risorsa fino a quando non ci si è prima impadroniti di essa o non la si è occupata. Ecco perché chi si riconosce nella teoria classica della legge naturale tende a rifiutare la teoria dell’appropriazione di Locke, almeno quanto alla descrizione dei mezzi fondamentali, irrinunciabili, tramite cui la proprietà inizia a sussistere. L’occupazione è per la proprietà una condizione anche sufficiente — a parte una caratteristica che discuteremo tra un istante — perché consente di soddisfare i fini della proprietà identificati dalla teoria della legge naturale come principali.
Sebbene non sia fondamentale come l’occupazione originaria, anche il lavoro ha un ruolo cruciale nella storia di come nasce la proprietà. Infatti, come notato sopra, per la teoria classica del diritto naturale lavorare su una risorsa equivale — per così dire — a mettere in essa un’impronta della propria personalità e, quindi, qualcosa a cui si ha già diritto. Inoltre, la maggior parte del valore che acquisisce una risorsa trasformata deriva non dalla risorsa in sé, ma dal lavoro impiegato per trasformarla. Quindi, maggiore è il proprio lavoro dedicato a una risorsa precedentemente non posseduta e di cui ci si è appropriati per primi, più forte o più completo è il proprio diritto di proprietà su quella risorsa.
Questo ci porta naturalmente alla questione dei limiti del diritto alla proprietà privata, che è implicita nell’ipotesi che un diritto di proprietà possa essere più o meno forte o completo. Come per i diritti naturali in generale, il diritto alla proprietà privata ha una base teleologica, vale a dire il ruolo che svolge nel consentirci di realizzare le nostre capacità naturali e di adempiere ai nostri obblighi derivanti dalla legge naturale; e, come per i diritti naturali in generale, questo diritto è limitato dalle stesse considerazioni teleologiche che lo fondano. Come quanto già detto chiaramente implica, il diritto alla proprietà privata, come gli altri nostri diritti naturali, non può essere così forte da giustificarci se compiamo atti contrari alla legge naturale. Quindi non può esistere alcun diritto naturale a utilizzare la nostra proprietà per scopi intrinsecamente immorali. Come prima, ciò non implica di per sé che il governo debba o neanche possa regolare il nostro esercizio privato dei diritti in modo che sia conforme agli standard della legge naturale. Ne consegue, invece, che non ci possa essere alcuna base di diritto naturale per argomenti secondo cui la messa al bando di strip club, dello spaccio di droga o di altro sia necessariamente una violazione del diritto naturale alla proprietà privata.
Ma vi è un’altra limitazione del diritto alla proprietà privata, più direttamente correlata al suo specifico fondamento teleologico. Come abbiamo visto, per la teoria classica della legge naturale la proprietà esiste in primo luogo per consentire agli individui di realizzare le proprie capacità naturali e le proprie obbligazioni morali esercitando le proprie facoltà su risorse esterne. Quindi, se i diritti di proprietà fossero così forti da giustificare alcune persone, ove usassero la propria proprietà in un modo da minacciare la possibilità per altri di adempiere ai propri fini naturali e alle proprie obbligazioni morali, allora l’istituto stesso della proprietà privata ne sarebbe compromesso. Per fare un esempio estremo ma chiaro, se una persona o un gruppo di persone acquisisse il monopolio su una risorsa cruciale — come la terra o l’acqua — e rifiutasse l’accesso a coloro che non abbiano tale risorsa, o ne consentisse loro l’accesso solo a condizioni eccessivamente onerose, allora è ovvio che l’istituto della proprietà privata consentirebbe ad alcuni individui di adempiere ai propri fini naturali a spese della capacità di altri di adempiere ai propri. È chiaro, quindi, che il diritto alla proprietà privata non può essere così forte da giustificare una tale circostanza.
Che cosa implica in pratica questa limitazione? L’implicazione più ovvia è che gli individui in circostanze di assoluta difficoltà hanno diritto di usare risorse altrui; esempi paradigmatici potrebbero essere l’uomo affamato nel bosco, che prende il cibo da una capanna, o quello di qualcuno in fuga dai ladri che può fuggire solo attraversando il cortile di qualcun altro. In circostanze come queste, non vi sarebbe colpevolezza di furto o intrusione: perché queste azioni possano essere considerate furto o intrusione il proprietario della capanna o il proprietario della casa dovrebbe avere un diritto così assoluto sulla propria proprietà da poter legittimamente negare ad altri il permesso di usarla anche nelle circostanze in questione. Secondo la teoria del diritto naturale, nessuno potrebbe mai avere un diritto di proprietà così assoluto.
Per ragioni analoghe, è giustificabile una qualche misura di soccorso per coloro che si trovano in difficoltà economiche e non hanno risorse naturali proprie su cui fare affidamento. Ma, per la teoria classica della legge naturale, la responsabilità primaria di tale soccorso spetta alle famiglie di coloro che ne hanno bisogno, e la tassazione per tali scopi è giustificata solo nella misura in cui tali mezzi privati siano insufficienti. Anche gli aiuti forniti dallo Stato sono gestiti al meglio a un livello il più locale possibile perché, dato il suo approccio alla teoria sociale e alla proprietà privata basato sulla famiglia, la teoria classica della legge naturale è correlata alla dottrina della sussidiarietà, in accordo alla quale le autorità più centrali all’interno di una società non dovrebbero svolgere funzioni che possono essere svolte da altre più periferiche, pur essendo tenute a eseguire le funzioni che queste ultime non riescono a svolgere.
Ovviamente, quanto detto solleva domande a cui non posso rispondere in questa sede (7), tuttavia dovrebbe essere sufficiente a dimostrare come la teoria classica del diritto naturale supporti una posizione essenzialmente conservatrice intermedia fra libertarismo ed egualitarismo liberal.
Edward Feser
Note:
1) Cfr. Edward Feser, The Last Superstition: A Refutation of the New Atheism, St. Augustine’s Press, South Bend (Indiana) 2008, e Idem, Aquinas. A Beginner’s Guide, Oneworld Publications, Oxford (Regno Unito) 2009.
2) Hannibal Lecter, psicologo e omicida seriale con il vizio dell’antropofagia, è il personaggio protagonista di una serie di romanzi dello scrittore statunitense Thomas Harris, alcuni dei quali hanno avuto trasposizioni cinematografiche e televisive di successo.
3) «Bonum est faciendum et prosequendum, et malum vitandum» (Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 94, art. 2).
4) Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, libro IX, cap. 9, e Idem, Politica, lib. I, cap. 2.
5) Philippa Foot, Natural Goodness, Clarendon Press, Oxford (Regno Unito) 2011, p. 15. (trad. it. La natura del bene, il Mulino, Bologna 2007).
6) «Sebbene la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli uomini, tuttavia ogni uomo ha una proprietà sulla sua propria persona: su questa nessuno ha diritto se non lui stesso. La fatica del suo corpo e il lavoro delle sue mani, si può dire, sono propriamente suoi. Qualsiasi cosa, dunque, egli rimuova dallo stato in cui la natura l’ha fornita e lasciata, qualsiasi cosa alla quale abbia mescolato il suo lavoro, e alla quale abbia aggiunto qualcosa di proprio, perciò stesso diviene sua proprietà» (John Locke, Secondo trattato sul governo, in Idem, Due trattati sul governo, 1690, trad. it., Edizioni Plus, Pisa, 2007, pp. 187-334 [p. 205]).
7) Per ulteriori approfondimenti l’autore rimanda al proprio Classical Natural Law Theory, Property Rights, and Taxation, in Social Philosophy and Policy, vol. 27, n. 1, Cambridge University Press, gennaio 2010, pp. 21-52.