Ferdinando Leotta, Cristianità n. 412 (2021)
Trascrizione annotata delle conversazioni tenute a Radio Maria il 5-10-2021 e il 2-11-2021 nella rubrica Chiesa e società sotto il titolo «Sempre attuale l’enciclica sul lavoro di san Giovanni Paolo II». Per un commento integrale del documento, con approfondimenti storici e dottrinali, rimando a Giovanni Cantoni (1938-2020), Dottrina sociale e lavoro umano nel messaggio della «Laborem exercens», in Cristianità, anno IX, n.78-79, ottobre-novembre 1981, intero numero.
«Questo documento, che avevo preparato perché si pubblicasse il 15 maggio scorso, nel 90° anniversario dell’enciclica “Rerum Novarum”, ha potuto essere da me definitivamente riveduto soltanto dopo la mia degenza ospedaliera» (1).
Con queste parole san Giovanni Paolo II chiudeva la lettera enciclica Laborem exercens, pubblicata il 14 settembre 1981. L’enciclica sociale dedicata al lavoro umano usciva nel giorno dell’Esaltazione della Santa Croce, quasi a voler sottolineare, con quella ricorrenza, la stretta relazione fra lavoro e redenzione dell’uomo e a simboleggiare come l’impegno di fedeltà alla dottrina sociale della Chiesa possa essere sottoscritta con il sangue. Quel sangue — che Karol Jòsef Wojtyła, poi miracolosamente salvatosi (2), versò in piazza San Pietro il 13 maggio 1981 — si univa a quello di Cristo Redentore e degli innumerevoli martiri che fecondano la vita della Chiesa (3).
Il lavoro umano alla luce della Croce e della Risurrezione di Cristo è il titolo dell’ultimo paragrafo dell’enciclica, in cui si legge: «Il sudore e la fatica, che il lavoro necessariamente comporta nella condizione presente dell’umanità, offrono al cristiano e ad ogni uomo, che è chiamato a seguire Cristo, la possibilità di partecipare nell’amore all’opera che il Cristo è venuto a compiere. Quest’opera di salvezza è avvenuta per mezzo della sofferenza e della morte di croce. Sopportando la fatica del lavoro in unione con Cristo crocifisso per noi, l’uomo collabora in qualche modo col Figlio di Dio alla redenzione dell’umanità» (n. 27).
Ogni lavoro — sia esso manuale o intellettuale — va congiunto inevitabilmente con la fatica. Il libro della Genesi, si ricorda nello stesso paragrafo, «[…] lo esprime in modo veramente penetrante, contrapponendo alla originaria benedizione del lavoro», contenuta nell’atto stesso della creazionee legata all’uomo, fatto a immagine di Dio, «la maledizione che il peccato ha portato con sé: “Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita”». Il peccato originale, compromettendo il rapporto di Adamo con Dio, con sé stesso e con il creato, ha anche compromesso il suo rapporto con il lavoro.
All’inizio, però, come ci viene ricordato nelle prime pagine della Genesi, non era così. La vocazione dell’uomo al lavoro è insita nella sua stessa natura e il lavoro non è una conseguenza del peccato, ma un processo etico, in cui l’uomo manifesta e conferma sé stesso. L’uomo lavoratore è, infatti, una persona, un soggetto consapevole e libero, che decide di sé stesso. Pertanto, il fondamento della dignità del lavoro non va ricercato nella sua dimensione oggettiva, cioè in ciò che si fa, ma nella sua dimensione soggettiva, cioè in chi lo compie. Per questo l’enciclica puntualizza che «il lavoro è “per l’uomo”, e non l’uomo “per il lavoro”» (n. 6 e n. 7).
Anche Papa Francesco ribadisce il duplice significato, oggettivo e soggettivo, del lavoro, e la priorità del secondo. Rivolgendosi alla Presidente della Pontificia Accademia di Scienze Sociali il 24 aprile 2017, ha detto: «A questo proposito ci si può riferire alla riflessione classica, da Aristotele a Tommaso d’Aquino, sull’agire. Tale pensiero distingue due forme di attività: il fare transitivo e l’agire immanente. Mentre il primo connota l’azione che produce un’opera al di fuori di chi agisce, la seconda fa riferimento ad un agire che ha il suo termine ultimo nel soggetto stesso che agisce. Il primo cambia la realtà in cui l’agente vive; il secondo cambia l’agente stesso. Ora, poiché nell’uomo non esiste un’attività talmente transitiva da non essere anche sempre immanente, ne deriva che la persona ha la priorità nei confronti del suo agire e quindi del suo lavoro». Tuttavia, avvisa il Pontefice, «quando il lavoro non è più espressivo della persona, perché essa non comprende più il senso di ciò che sta facendo, il lavoro diventa schiavitù; la persona può essere sostituita da una macchina» (4).
Per tali ragioni la Laborem exercens manifesta preoccupazione per un’errata interpretazione e un abuso della tecnica: sulla dimensione oggettiva del lavoro deve avere la preminenza la dimensione soggettiva, cioè quella dell’uomo stesso che compie il lavoro, determinandone la qualità e il valore (cfr. n. 6). Se manca questa consapevolezza, oppure non si vuole riconoscere questa verità, il lavoro perde il suo significato più vero e profondo: in questo caso, purtroppo frequente e diffuso, «[…] la tecnica da alleata può trasformarsi quasi in avversaria dell’uomo, come quando la meccanizzazione del lavoro “soppianta” l’uomo» (n. 5). L’automazione e la robotizzazione, che hanno moltiplicato in misura esponenziale la produttività, hanno spesso mortificato la creatività e la artigianalità del lavoratore.
Non si tratta di coltivare prospettive romantiche di decrescita felice, stigmatizzando l’automazione, ma di ricercare come si possano coniugare l’automazione e la creatività del lavoratore, per esempio attraverso percorsi di formazione umana e tecnologica permanente.
Indubbiamente, l’abuso della tecnologia nel mondo del lavoro è stato favorito, evidenzia il Pontefice, da «correnti del pensiero materialistico ed economicistico» che considerano il lavoro «come una specie di “merce”, che il lavoratore […] vende al datore di lavoro» (n. 7) e che pongono l’incremento della ricchezza al vertice dei propri obiettivi. Questa prospettiva sovverte il giusto ordine dei valori e rappresenta una minaccia non solo per i singoli lavoratori e per il loro lavoro, ma anche per il bene comune, dal momento che il lavoro non esprime solo la dignità del singolo, bensì è fondamento della vita familiare e sociale e qualifica la stessa appartenenza del singolo alla nazione, «grande incarnazione storica e sociale del lavoro di tutte le generazioni» e all’intera umanità (n. 10). Conclude sul punto il Pontefice: «Tutto questo fa sì che l’uomo unisca la sua più profonda identità umana con l’appartenenza alla nazione, e così intenda il suo lavoro anche come incremento del bene comune elaborato insieme con i suoi compatrioti, rendendosi così conto che per questa via il lavoro serve a moltiplicare il patrimonio di tutta la famiglia umana, di tutti gli uomini viventi nel mondo» (ibidem).
A quarant’anni di distanza questa chiave interpretativa appare profetica e, al contempo, fornisce un aiuto concreto per coniugare i concetti di identità nazionale e di appartenenza alla comunità internazionale, nella prospettiva di una corretta globalizzazione, tema sul quale la Chiesa si impegna da molti anni.
San Giovanni Paolo II rammenta che, mentre dalla Rerum novarum alla Quadragesimo anno di Pio XI (1922-1939) l’insegnamento della Chiesa si concentra sulla questione operaia nell’ambito dei singoli Paesi, nella fase successiva il Magistero sociale «[…] allarga l’orizzonte alle dimensioni di tutto il globo», sollecitato dallo scenario della «distribuzione sproporzionata di ricchezza e di miseria» fra Paesi e continenti sviluppati e non,e consapevole dell’esigenza di ricercare «vie per un giusto sviluppo di tutti» (n. 2).In questa direzione si muovono l’enciclica Mater et magistra di san Giovanni XXIII (1958-1963), lacostituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) e l’enciclica Populorum progressio di san Paolo VI (1963-1978).
Le considerazioni sullo sviluppo della dottrina sociale cattolica, nel novantesimo anniversario della Rerum novarum, sono per san Giovanni Paolo II l’occasione per ribadire che «[…] essa appartenne fin dall’inizio all’insegnamento della Chiesa e alla morale sociale elaborata secondo le necessità delle varie epoche» (n. 3).L’affermazione che la dottrina sociale appartiene alla morale sociale, ancorché elaborata secondo le necessità delle varie epoche, contrasta autorevolmente il tentativo degli anni Settanta del secolo scorso di riqualificare la «dottrina sociale» derubricandola a mero «insegnamento» (5).
Approfondendo il tema dell’economismo e del materialismo, quali fattori che hanno inciso sulla storia del lavoro compromettendo la dignità stessa dell’uomo, san Giovanni Paolo II sottolinea che il processo di produzione comporta non l’antinomia fra lavoro e capitale, ma un loro stretto legame e la loro reciproca integrazione, che garantiscono la dignità e il valore della persona. Con rammarico il Pontefice constata: «Il problema del lavoro è stato posto in base al grande conflitto, che nell’epoca dello sviluppo industriale […] si è manifestato tra il “mondo del capitale” e il “mondo del lavoro”, cioè tra il gruppo ristretto, ma molto influente, degli imprenditori, proprietari o detentori dei mezzi di produzione, e la più vasta moltitudine di gente che era priva di questi mezzi e che partecipava, invece, al processo produttivo esclusivamente mediante il lavoro. Tale conflitto è stato originato dal fatto che i lavoratori mettevano le loro forze a disposizione del gruppo degli imprenditori, e che questo, guidato dal principio del massimo profitto della produzione, cercava di stabilire il salario più basso possibile per il lavoro eseguito dagli operai. A ciò bisogna aggiungere anche altri elementi di sfruttamento, collegati con la mancanza di sicurezza nel lavoro ed anche di garanzie circa le condizioni di salute e di vita degli operai e delle loro famiglie» (n. 11).
A causa di questa rottura sociale ed economica il lavoro è stato separato e contrapposto al capitale e il capitale contrapposto al lavoro, due fattori di produzione messi dialetticamente in contrasto dalla «stessa prospettiva “economistica”», che «[…] considera il lavoro umano esclusivamente secondo la sua finalità economica» e che «include, direttamente o indirettamente, la convinzione del primato e della superiorità di ciò che è materiale, mentre […] colloca ciò che è spirituale e personale (l’operare dell’uomo, i valori morali e simili) in una posizione subordinata alla realtà materiale» (n. 13).
Secondo Karol Wojtyła, vissuto sotto il socialismo reale, è evidente che il materialismo, anche nella sua forma dialettica, dimentica la dignità dell’uomo e il primato della persona sulle cose. Anche nel materialismo dialettico, proprio del marxismo, «l’uomo non è, prima di tutto, soggetto del lavoro e causa efficiente del processo di produzione, ma rimane inteso e trattato in dipendenza da ciò che è materiale, come una specie di “risultante” dei rapporti economici e di produzione, predominanti in una data epoca» (ibidem).
L’antinomia socioeconomica fra capitale e lavoro si è configurata, sul piano ideologico e politico — prosegue l’enciclica — come «conflitto tra il liberalismo, inteso come ideologia del capitalismo, ed il marxismo, inteso come ideologia del socialismo scientifico e del comunismo, che pretende di intervenire in veste di portavoce della classe operaia, di tutto il proletariato mondiale. […] Il programma marxista, basato sulla filosofia di [Karl] Marx [1818-1883] e di [Friedrich] Engels [1820-1895], vede nella lotta di classe l’unica via per l’eliminazione delle ingiustizie di classe, esistenti nella società, e delle classi stesse» (n. 11).
Il programma marxista — spiega il Pontefice — comporta «l’eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione» attraverso il loro trasferimento alla collettività e si prefigge, quale scopo finale, «[…] di compiere la rivoluzione sociale e di introdurre in tutto il mondo il socialismo e, in definitiva, il sistema comunista» (ibidem).
«[…] lo scopo di un tale programma di azione è quello di compiere la rivoluzione sociale» (ibidem). Sono parole forti, ma vere, confermate anche dallo storico e politico tedesco Arthur Rosenberg (1889-1943), ex-membro del Comitato Esecutivo della Terza Internazionale: «Marx non si rifece […] dal proletariato, dai suoi bisogni e dalle sue sofferenze, dalla necessità di liberarmelo, per trovare poi, come unica via della salvezza del proletariato, la Rivoluzione. Al contrario, egli camminò proprio all’inverso… Nel cercare la possibilità della Rivoluzione, Marx trova il proletariato» (6).
La contrapposizione dialettica fra capitale e lavoro è rifiutata dal magistero sociale della Chiesa già con l’enciclica Rerum novarum del 1891, in cui Papa Leone XIII pone l’accento sul principio della priorità del lavoro nei confronti del capitale senza scendere sul piano dello scontro ideologico. La priorità del lavoro, si ribadisce nella Laborem exercens, riguarda direttamente il processo di produzione, in rapporto al quale «il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il “capitale” […] rimane solo uno strumento o la causa strumentale» (n. 12).
Strettamente correlata al lavoro è la proprietà poiché l’uomo, per far fruttificare le risorse del creato, «[…] si appropria di piccole parti delle diverse ricchezze della natura […] facendone il suo banco di lavoro (ibidem).L’enciclica Rerum novarum, di cui la Laborem exercens celebra il novantesimo anniversario, riferendosi al diritto di proprietà, ne afferma il carattere naturale e lo riconosce anche per i mezzi di produzione (cfr. n. 14), come confermerà il magistero successivo, in particolare attraverso l’enciclica giovannea Mater et magistra, in cui si legge: «Il diritto di proprietà privata sui beni anche produttivi ha valore permanente, appunto perché è diritto naturale fondato sulla priorità ontologica e finalistica dei singoli esseri umani nei confronti della società» (7).
L’insegnamento della Chiesa, pertanto, «[…] diverge radicalmente dal programma del collettivismo, proclamato dal marxismo e realizzato in vari Paesi del mondo nei decenni seguiti all’epoca dell’Enciclica di Leone XIII […] e al tempo stesso, differisce dal programma del capitalismo praticato dal liberalismo e dai sistemi politici, che ad esso si richiamano. In questo secondo caso, la differenza consiste nel modo di intendere lo stesso diritto di proprietà. La tradizione cristiana non ha mai sostenuto questo diritto come un qualcosa di assoluto ed intoccabile. Al contrario, essa l’ha sempre inteso nel più vasto contesto del comune diritto di tutti ad usare i beni dell’intera creazione: il diritto della proprietà privata come subordinato al diritto dell’uso comune, alla destinazione universale dei beni» (n. 14) (8).
La dottrina sociale della Chiesa, che rifiuta il programma del collettivismo, da cui diverge radicalmente, considera, d’altro lato, inaccettabile «[…] la posizione del “rigido” capitalismo, il quale difende l’esclusivo diritto della proprietà privata dei mezzi di produzione come un “dogma”intoccabile nella vita economica» (ibidem) e riconosce di particolare interesse le proposte degli esperti della dottrina sociale cattolica riguardanti la comproprietà dei mezzi di lavoro, la partecipazione dei lavoratori alla gestione e/o ai profitti delle imprese e il cosiddetto azionariato del lavoro (9). In questa prospettiva va anche intesa l’affermazione di Papa Francesco: «I beni sono destinati a tutti, e per quanto uno ostenti la sua proprietà — che è legittimo — pesa su di essi un’ipoteca sociale» (10).
Sebbene la posizione del «rigido» capitalismo sia inaccettabile, le riforme, sottolinea san Giovanni Paolo II, non possono essere realizzate mediante l’eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione; e avverte: «il solo passaggio dei mezzi di produzione in proprietà dello Stato, nel sistema collettivistico, non è certo equivalente alla “socializzazione” di questa proprietà. Si può parlare di socializzazione solo quando sia assicurata la soggettività della società» (n. 14). La vera socializzazione si realizza invece coniugando, per quanto possibile, il lavoro con la proprietà del capitale e rivitalizzando una ricca gamma di corpi intermedi, dotati di effettiva autonomia nei confronti dei pubblici poteri e capaci di perseguire i loro specifici obiettivi con una leale e reciproca collaborazione, subordinatamente alle esigenze del bene comune (n. 14). Sul ruolo necessario dei corpi intermedi insiste anche Papa Francesco che, parlando alla Pontificia Accademia di Scienze Sociali, ha affermato: «Lo Stato non può concepirsi come l’unico ed esclusivo titolare del bene comune non consentendo ai corpi intermedi di esprimere, in libertà, tutto il loro potenziale. Sarebbe questa una violazione del principio di sussidiarietà che, abbinato a quello di solidarietà, costituisce un pilastro portante della dottrina sociale della Chiesa» (11).
La priorità del lavoro sul capitale, come pure la difesa del diritto di proprietà, non consente, però, di sostenere che il lavoro sia solo un diritto o una facoltà. Esso è anche un dovere, e non a causa del peccato originale: lo era già prima. Ci ricorda infatti l’enciclica che «l’uomo deve lavorare sia per il fatto che il Creatore glielo ha ordinato, sia per il fatto della sua stessa umanità, il cui mantenimento e sviluppo esigono il lavoro. L’uomo deve lavorare per riguardo al prossimo, specialmente per riguardo alla propria famiglia, ma anche alla società, alla quale appartiene, alla nazione, della quale è figlio o figlia, all’intera famiglia umana, di cui è membro, essendo erede del lavoro di generazioni e insieme co-artefice del futuro di coloro che verranno dopo di lui nel succedersi della storia» (n. 16).
L’obbligo del lavoro e i corrispondenti diritti del lavoratore richiamano il rapporto fra datore di lavoro e lavoratore stesso. Accanto alla figura del «datore di lavoro diretto», che è «quella persona o istituzione, con la quale il lavoratore stipula direttamente il contratto di lavoro secondo determinate condizioni» (ibidem),san Giovanni Paolo II individua anche un «datore di lavoro indiretto»,costituito dai «molti fattori differenziati, oltre il datore di lavoro diretto, che esercitano un determinato influsso sul modo in cui si formano sia il contratto di lavoro, sia, in conseguenza, i rapporti più o meno giusti nel settore del lavoro umano» (n. 16). Nel concetto di «datore di lavoro indiretto» rientrano, pertanto, le persone e le istituzioni di vario tipo, che incidono sul rapporto di lavoro, come anche i contratti collettivi e i criteri di comportamento, che caratterizzano il sistema socio-economico.
La responsabilità del datore di lavoro indiretto, se pur diversa da quella del datore di lavoro diretto, rimane una vera responsabilità: il primo determina sostanzialmente l’uno o l’altro aspetto del rapporto di lavoro e condiziona in tal modo il comportamento del datore di lavoro diretto nei suoi rapporti di lavoro. La qualifica di datore di lavoro indiretto si può applicare ad ogni singolo ente e, prima di tutto, allo Stato, che deve condurre «una giusta politica del lavoro» (n. 17). L’enciclica, dunque, mette in piena luce altri protagonisti del rapporto di lavoro, che spesso rimangono nell’ombra, come se fossero esterni al rapporto e senza responsabilità nella vicenda lavorativa. Ma non è così. Questo punto del documento è di grandissima attualità e concretezza. si pensi, per esempio, al dibattito in corso sul cosiddetto «cuneo fiscale», considerato nella stessa legge di bilancio per il 2022. Si tratta, nell’accezione più comune, della differenza fra il costo del lavoro che il datore di lavoro diretto deve sostenere verso i lavoratori e il salario che rimane a disposizione del lavoratore stesso. In altri termini, è la differenza fra quanto il dipendente costa all’azienda e quanto il dipendente incassa in busta paga come valore netto. Quando, a causa delle eccessive pretese del datore di lavoro indiretto, per imposte, addizionali e contributi previdenziali, il «cuneo fiscale» supera determinati livelli, diventa, di per sé o con altri fattori, causa di disoccupazione e di povertà. Il «cuneo» viene così a vanificare la principale finalità del datore di lavoratore indiretto, che è quella di «agire contro la disoccupazione», definita «la mancanza di posti di lavoro per i soggetti che di esso sono capaci» (n. 18).
Le pretese fiscali, del datore di lavoro indiretto e del datore di lavoro diretto, di trarre i profitti più alti possibili, incidono negativamente sul salario — che dovrebbe essere «la giusta remunerazione del lavoro che è stato eseguito» (n. 19) — privando il lavoratore dell’accesso sia ai beni necessari per la vita individuale e familiare sia ai mezzi di produzione. Il criterio del «giusto salario», valido per il lavoratore dipendente come per l’autonomo, «diventa in ogni caso la concreta verifica della giustizia di tutto il sistema socio-economico» (ibidem).
Questa verifica riguarda soprattutto la famiglia, per la quale la giusta remunerazione può realizzarsi sia attraverso il «salario familiare» — cioè un salario unico corrisposto al capo-famiglia per il suo lavoro e sufficiente a soddisfare i bisogni della famiglia stessa, senza che sia richiesto alla coniuge di svolgere un lavoro fuori casa — sia mediante altri provvedimenti sociali, come «assegni familiari» o contributi alla coniuge che si dedica esclusivamente alla famiglia. L’esperienza conferma, infatti, la necessità di adoperarsi per la rivalutazione sociale dei compiti materni. San Giovanni Paolo II non esita ad affermare: «L’abbandono forzato di tali impegni, per un guadagno retributivo fuori della casa, è scorretto dal punto di vista del bene della società e della famiglia, quando contraddica o renda difficili tali scopi primari della missione materna. […] La vera promozione della donna esige che il lavoro sia strutturato in tal modo che essa non debba pagare la sua promozione con l’abbandono della propria specificità e a danno della famiglia, nella quale ha come madre un ruolo insostituibile» (ibidem).
I paragrafi finali dell’enciclica Laborem exercens trattano argomenti di vario genere: i sindacati, lo sciopero, il lavoro agricolo, il lavoro delle persone portatrici di disabilità, l’emigrazione. Di particolare interesse la riflessione su quest’ultimo punto: l’emigrazione per lavoro è certamente un diritto — sottolinea il documento — ma rappresenta anche una capitis deminutio perché «[…] costituisce, in genere, una perdita per il Paese dal quale si emigra. Si allontana un uomo e insieme un membro di una grande comunità, che è unita dalla storia, dalla tradizione, dalla cultura, per iniziare una vita in mezzo ad un’altra società, unita da un’altra cultura e molto spesso anche da un’altra lingua. Viene a mancare in tale caso un soggetto di lavoro, il quale con lo sforzo del proprio pensiero o delle proprie mani potrebbe contribuire all’aumento del bene comune nel proprio Paese; ed ecco, questo sforzo, questo contributo viene dato ad un’altra società, la quale, in un certo senso ne ha diritto minore che non la patria d’origine» (n. 23).
Nella parte conclusiva, in cui il Pontefice offre spunti «per una spiritualità del lavoro», si riprendono i riferimenti biblici di apertura, che richiamano il senso del lavoro come partecipazione all’opera del Creatore: «Gli uomini e le donne, […] che per procurarsi il sostentamento per sé e per la famiglia, esercitano le proprie attività così da prestare anche conveniente servizio alla società, possono a buon diritto ritenere che col loro lavoro prolungano l’opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e danno un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia» (n. 25).
La vita nascosta di Gesù a Nazaret ci indica in Cristo «l’uomo del lavoro, del lavoro artigiano». Con Lui il lavoro manuale, nel mondo antico riservato agli schiavi, diventa degno dell’uomo libero. Con Lui che, vero uomo e vero Dio, dedicò la maggior parte degli anni della sua vita in terra al lavoro manuale. «Questa circostanza — nota san Giovanni Paolo II — costituisce da sola il più eloquente “Vangelo del lavoro”, che manifesta come il fondamento per determinare il valore del lavoro umano non sia prima di tutto il genere di lavoro che si compie, ma il fatto che colui che lo esegue è una persona. Le fonti della dignità del lavoro si devono cercare soprattutto non nella sua dimensione oggettiva, ma nella sua dimensione soggettiva» (n. 6), che è l’uomo che lo compie.
Note:
1) San Giovanni Paolo II (1978-2005), Enciclica «Laborem exercens» sul lavoro umano nel 90° anniversario della «Rerum novarum» [di Leone XIII (1878-1903)], del 14-9-1981, n. 27. Tutti i riferimenti fra parentesi nel testo rimandano a questo documento.
2) «Fu una mano materna a guidare la traiettoria della pallottola e il Papa agonizzante si fermò sulla soglia della morte» (Idem, Meditazione con i Vescovi italiani dal Policlinico Gemelli, del 13-5-1994).
3) «Sanguis martyrum semen Christianorum» (Quinto Settimio Fiorente Tertulliano (155-230), Apologeticum, 50, 13).
4) Francesco, Messaggio ai partecipanti alla Sessione Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali (28 aprile-2 maggio 2017), del 28-4-2017.
5) Il teologo Marie-Dominique Chenu O.P. (1895-1990), riferendosi alle discussioni sulla stesura della costituzione conciliare Gaudium et spes, nota che al termine «dottrina sociale» «[…] si sostituisce una formula apparentemente simile nella sua formulazione materiale, ma diversa nei suo significato: “insegnamento sociale del vangelo”, che comporta “insegnamento” invece di “dottrina”, e un richiamo diretto al Vangelo e alla sua ispirazione». E ciò perché, continua il teologo, «nei testi recenti il richiamo al messaggio del Vangelo è proposto come la motivazione dell’impegno del cristiano, assai più che le istanze del diritto naturale o di una philosophia perennis» (Marie-Dominique Chenu O.P., La dottrina sociale della chiesa. Origine e sviluppo (1891-1971),trad. it., Queriniana, Brescia 1977, pp. 48-49).
6) Arthur Rosenberg, Storia del Bolscevismo, trad. it. Sansoni, Firenze 1933, p. 3. Analogo giudizio si può rinvenire in Henri Lefebvre (1901-1991), Il marxismo, trad. it. Garzanti, Milano 1954, p. 49.
7) San Giovanni XXIII, Enciclica «Mater et magistra» sui recenti sviluppi della questione sociale, alla luce della dottrina cristiana, del 15-5-1961, n. 96.
8) Nello stesso paragrafo la nota 22 richiama, a fondamento del diritto alla proprietà, l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino (1225-1274), contenuto nella Summa theologiae, II-II, q. 66, aa. 2, 6; e nel De regimine principum, l. 1, cc. 15, 17, nonché, riguardo alla sua funzione sociale, nella Summa theologiae, II-II, q. 134, a. 1, ad 3.
9) Nella nota 23 si richiamano Pio XI, Quadragesimo Anno, in Acta Apostolicae Sedis (AAS), vol. 23, 1931, p. 199; e Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale «Gaudium et spes» sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, n. 68.
10) Francesco, Discorso tenuto in occasione dell’incontro con la società civile nel corso del pellegrinaggio apostolico in Ecuador, Bolivia e Paraguay (5/13-7-2015), Quito (Ecuador), 7-7-2015.
11) Idem, Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, del 20-10-2017. Ex pluribus, alla realtà dei corpi intermedi ha fatto anche riferimento nel 2018 la Congregazione per la Dottrina della Fede in un importante documento in materia economico-finanziaria, nel quale si afferma che oggi le realtà della società civile «[…] rappresentano una riserva di responsabilità sociale, per cui tutti oggi siamo chiamati a vigilare, indirizzando la nostra azione alla ricerca del bene comune e fondandola sui saldi principi della solidarietà e della sussidiarietà». (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario, del 6-1-2018).