Roberto De Mattei, Cristianità n. 4 (1974)
La sola possibilità dello scioglimento del vincolo matrimoniale, lungi dal porsi come rimedio per i matrimoni “riusciti male”, impoverisce, fin dall’origine, il contenuto di tutti i matrimoni, perché l’eventuale serietà di intenti dei nubendi non è presa sul serio dalla società che, nelle sue leggi, non riconosce e non ritiene degno di protezione il patto. In altri termini, la legge, disposta a ratificare tutti gli intenti non illeciti che la volontà delle parti pone a oggetto dei negozi giuridici, si rifiuta di ratificare l’intento dei nubendi di costituire una comunione di vita che, per le sue caratteristiche di esclusività e di definitività, risponde alle più profonde aspirazioni della natura umana.
Tuttavia la violenza che l’uomo compie nei confronti della legge naturale trova sempre la sua sanzione, tanto più grave quanto più radicale è il rovesciamento dei fini e più sottile la malizia con cui esso è compiuto.
Il riconoscimento legislativo del divorzio ha un duplice effetto corrosivo sulla vita dei coniugi: anzitutto sul piano psicologico accresce il senso di insicurezza e di vuoto affettivo che è tipico dell’uomo moderno; in secondo luogo, indebolisce la stabilità della famiglia, rendendo impossibile il superamento delle crisi, delle difficoltà e delle tensioni familiari.
Per quanto riguarda il primo punto, si può osservare che il “matrimonio dissolubile” condanna i coniugi alla condizione psicologica di persone ridotte a una promiscuità sessuale regolamentata e “contingentata” da regole esterne di convenienza sociale e da regole interne, tacite ma non meno oppressive, derivanti dal compromesso tra i capricci affettivi, la subordinazione economica del coniuge più debole rispetto al più forte e le disponibilità finanziarie necessarie per creare una nuova famiglia.
Il divorzio sostituisce un equilibrio meccanico di forze a quella realtà superiore all’individuo, che soltanto il matrimonio indissolubile riesce a fondare, nella quale e per la quale l’individuo è sottratto in una certa misura al fluttuare delle contingenze.
Infatti, poiché il “matrimonio dissolubile” non riesce a creare nulla che sia superiore alla mutevolezza della volontà individuale, i coniugi sono costretti in ogni momento della loro vita a dare la prova del permanere delle qualità esistenti al momento del matrimonio, come se soltanto per esse si fossero reciprocamente scelti, e non, soprattutto, per il valore irripetibile della persona, immutabile nonostante il variare delle circostanze.
Il divorzio sostituisce a una scelta definitiva una scelta da farsi di giorno in giorno, sottoposta ai dubbi che le contingenze della vita ingigantiscono, la libertà della quale è turbata dalle difficoltà della vita coniugale e dalle tentazioni di soddisfazione sentimentale ed erotica che il mondo circostante offre.
Una situazione siffatta di incertezza e di insicurezza, lungi dal favorire lo sviluppo armonico della persona, è fonte di preoccupazione, di angoscia e, talvolta, di disperazione, soprattutto allorché le qualità che sorreggevano la persona del coniuge al momento del matrimonio sono scomparse, o per il naturale decorrere del tempo, o per circostanze imprevedibili.
L’assenza di una reale apertura affettiva in questo tipo di convivenza è causa non ultima, anche se non esclusiva, dell’abnorme diffusione della tendenza dei coniugi moderni a ottenere una soddisfazione psicologica compensativa con l’immersione incondizionata nell’attività lavorativa.
Questa proiezione indiscriminata dei coniugi in interessi esterni alla vita familiare, compiuta al fine di compensare l’insicurezza interiore con una pretesa affermazione della personalità nel lavoro e per il lavoro, ingigantisce e moltiplica ogni incrinatura dell’armonia familiare, perché rende possibile l’incontro tra i membri della famiglia soltanto in condizioni di stanchezza fisica, di tensione nervosa e di distrazione psicologica.
La semplice possibilità del divorzio provoca una serie di reazioni a catena che conducono alla scomparsa della famiglia stessa, nel suo valore di ambito normale di formazione della personalità dei coniugi e di educazione dei figli: il passaggio, infatti, dalla condizione psicologica di insicurezza alla pretesa compensativa di autoaffermazione esclusiva nel lavoro, e il successivo passaggio da quest’ultima situazione alla trascuratezza e all’abbandono degli obblighi familiari, pur non verificandosi simultaneamente e immediatamente per tutte le coppie, avvengono ineluttabilmente, a breve o a lungo termine, essendo contenuti implicitamente nel principio divorzistico.
Il divorzio, inoltre, indipendentemente dai riflessi psicologici negativi che induce sulla mentalità dei coniugi e dagli effetti collaterali che provoca, consistenti, a lungo termine, nell’eliminazione della famiglia stessa come cellula primaria della società, ha immediatamente l’effetto di raggiungere uno scopo opposto a quello che i suoi sostenitori più ingenui osano sostenere.
Taluno argomenta in questi termini: il divorzio non attenta alla stabilità familiare, come è dimostrato dal fatto che chi non vuole divorziare non è obbligato a farlo; esso ha semplicemente la funzione di rimediare ai fallimenti coniugali, di sanare la condizione dei figli illegittimi e di ridurre le convivenze concubinarie. Così, oltre allo scopo umanitario di “spezzare le catene” dei “forzati del matrimonio”, il divorzio avrebbe uno scopo sociale, consistente nel diminuire la piaga dei figli illegittimi e, addirittura, uno scopo morale, consistente nel ridurre gli scandali derivanti dalle unioni illecite.
Ora, le statistiche che i paesi divorzisti offrono al proposito, nonché l’analisi ragionevole delle conseguenze implicite nel principio divorzistico, rivelano in maniera inequivocabile che il divorzio, lungi dal permettere il raggiungimento degli scopi indicati, aggrava ciascuna delle tre malattie sociali e si trasforma in una macchina senza freni, appositamente costruita per impedire il conseguimento del bene comune e per soddisfare l’arbitrio e l’egoismo individuali.
Se il divorzio fosse il rimedio estremo dei fallimenti matrimoniali e non, al contrario, uno strumento che scalza alla radice la stabilità familiare, la frequenza della sua applicazione nei paesi divorzisti dovrebbe corrispondere, in primo luogo, alla frequenza dei fallimenti matrimoniali nei paesi non divorzisti, e, in secondo luogo, conservare un valore percentuale immutato con il trascorrere degli anni.
La verifica statistica mostra inequivocabilmente, invece, sia che il numero dei divorzi nei paesi divorzisti è incomparabilmente maggiore delle rotture dell’unità familiare nei paesi non divorzisti, sia che il numero dei divorzi aumenta di anno in anno in misura molto più sensibile dell’aumento dei matrimoni.
Per documentare l’aumento progressivo dei divorzi nei paesi divorzisti riportiamo alcuni dati riferentisi a una serie di paesi divorzisti, ritenuti tra i più “civili” e “avanzati” (1):
Per alcune regioni all’avanguardia nel processo di dissoluzione della famiglia, i dati sono ancora più preoccupanti. Per la Contea di Dallas nel Texas, ad esempio, valgono i dati che indichiamo nella seguente tabella (2):
Il raffronto tra l’indice di separazione valido per l’Italia fino all’apparizione della legge Fortuna-Baslini e l’indice di divorziabilità dei paesi divorzisti mostra ancora più chiaramente in quale misura la possibilità del divorzio sia fattore di rottura della stabilità familiare.
In Italia la percentuale delle separazioni rispetto ai matrimoni oscillava tra l’1% e il 2%. Infatti, l’Annuario Statistico Italiano dava i seguenti dati (3):
Ora, mentre in Italia neppure 2 matrimoni su 100 finivano con una separazione, finivano con il divorzio 1 matrimonio su 12 nel Messico, 1 su 10 in Francia, 1 su 4 negli Stati Uniti.
Rispetto ai paesi dell’Europa orientale, dominati dal giogo comunista, che, secondo i dirigenti comunisti, creerebbe condizioni di vita favorevoli alla stabilità familiare, di contro all’instabilità dei paesi a regime “borghese e capitalista”, le statistiche offrivano i seguenti eloquenti dati (4):
La famiglia costituisce oggi l’entità catalizzatrice di tutti gli attacchi delle forze rivoluzionarie che hanno esteso la loro azione disgregante dalla dimensione politica alla dimensione domestica della società. Il divorzio, l’aborto, l’eutanasia, la pianificazione familiare obbligata, la legalizzazione dell’omosessualità e della più assoluta libertà sessuale, la liberalizzazione della droga, la soppressione di ogni tipo di educazione che non sia quella interamente impartita dallo Stato, sono tappe di un processo di sovversione che, perseguito all’insegna della “liberazione” dell’uomo, conduce inesorabilmente al suo totale asservimento da parte del potere rivoluzionario.
La battaglia che ciascuno di noi è chiamato a combattere contro il divorzio, è certamente battaglia contro una legge oggettivamente iniqua; ma è anche battaglia contro tutto quello che inevitabilmente seguirebbe, se il divorzio fosse mantenuto nella nostra legislazione, a cominciare dall’aborto. Chi combatte il divorzio, combatte anche l’aborto, allo stesso modo che chi si schiera a favore del divorzio spiana la strada di fatto, all’aborto: un divorzista che si dichiarasse contrario all’aborto, non soltanto compirebbe, in quanto divorzista, una scelta in aperto contrasto con i principi del diritto naturale, ma dimostrerebbe di non intendere l’analogia e la consequenzialità dei momenti sovversivi e di non cogliere l’unitarietà e la globalità del processo rivoluzionario di distruzione della famiglia.
L’unitarietà e la globalità di tale processo, che non è evidentemente solo italiano, ma coinvolge tutto il mondo “civile”, sono dimostrate dall’analogia e dalla consequenzialità dei passaggi, dalla semplice e scarna evidenza dei fatti. Compariamo, ad esempio, la cronistoria dell’introduzione dell’aborto in Inghilterra e del divorzio in Italia, attingendo a fonti assolutamente diverse: per quanto riguarda l’Inghilterra alla Atheist Agenda del giornalista antiprogressista inglese Dillon Mac Carthy, apparsa sul numero di luglio-agosto 1969 della rivista The Crusader; per quanto riguarda l’Italia a un articolo, apparso lo stesso anno sulla Rivista Massonica, firmato con il probabile pseudonimo di Natale Pesvelossi, a commento del voto di approvazione al divorzio della Camera dei deputati.
Il Mac Carthy sottolinea anzitutto come gli inglesi fossero assolutamente insensibili al problema dell’aborto, e come dunque cadessero nel vuoto il primo progetto di legge, presentato dal deputato di estrema sinistra Joe Reeves nel 1953, e quelli successivi dei laburisti Kenneth Robinson (Camera dei Comuni) e lord Silkin (Camera dei Pari). Nel 1964 i laburisti andavano però al governo. Il momento veniva considerato opportuno per iniziare su larga scala quello che Mac Carthy definisce come il processo di “familiarizzazione” del paese con il problema. Veniva all’uopo fondata la British Humanist Association, a cui era affidata la funzione di motore propulsore di tutta la campagna propagandistica che si sviluppava attraverso dibattiti, inchieste a senso unico, sondaggi manipolati, diffusione di stampati, interventi della televisione e della stampa. Una volta che il tema era divenuto, grazie alla poderosa orchestrazione, “all’ordine dei giorno“, compariva la Abortion Law Reform Association (A.L.R.A.) allo scopo di influire direttamente sugli organi legislativi, attraverso ogni tipo di pressione sui partiti e sui singoli deputati. Dopo un ennesimo progetto, questa volta del conservatore Simon Wingfield Dighby, gli sforzi della minoranza rivoluzionaria vengono finalmente premiati con l’approvazione in due tempi (1967-68) dell’Abortion Act del deputato liberale David Steele.
Vediamo adesso la cronistoria che dell’introduzione del divorzio in Italia ci traccia il Pesvelossi: “1954: l’on. Sansone deposita alla Camera dei deputati il primo progetto di legge sul divorzio nel dopoguerra. Progetto che rimane in un cassetto. 1958: il sen. Sansone e la sen. Giuliana Nenni ripresentano, essendosi ad una nuova legislatura, quel progetto di legge sul divorzio. Anche questo viene insabbiato. 1956: l’on. Fortuna presenta un nuovo progetto sullo stesso tema. La stampa, salve poche eccezioni, tace. I partiti politici tacciono. I cittadini italiani hanno oramai capito le regole del gioco e si decidono. 1966: si costituisce a Roma la L.I.D. che si ramifica ovunque“. Il Pesvelossi si sofferma a questo punto a descrivere la multiforme attività della L.I.D.: “dibattiti, conferenze, incontri, stimolazioni alla pubblica opinione, manifestazioni” (2), una campagna propagandistica che crea il problema e permette la successiva pressione sul mondo politico, conclusasi in quel 5 giugno 1968 in cui “circa ottanta parlamentari, primo dei quali l’on. Fortuna, depositano il primo progetto di legge della nuova legislatura: quello per il divorzio” (3). Il successivo voto favorevole, sia pure di strettissima misura, della Camera dei deputati, è, secondo il Pesvelossi, “il successo preparato, voluto, sofferto dalla Lega italiana per l’istituzione del Divorzio, sorta anni or sono ad iniziativa di pochi uomini, subito diffusasi in tutta Italia anche per merito e per sacrificio di molti nostri Fratelli” (4). “È stata – conclude il Pesvelossi – una campagna dura ma leale, sfibrante ma meritevole. Per gli aderenti alla L.I.D. ha significato tempo, denaro, entusiasmo.
E ovunque, in prima fila, ci sono stati i massoni italiani” (5).
In Italia, come in Inghilterra, si inizia a preparare il terreno con progetti di legge che cadono regolarmente nel vuoto, a testimoniare l’assoluta insensibilità del paese al problema suscitato. Si coagulano in seguito gli sforzi in associazioni, quali in Inghilterra la British Humanist Association, in Italia la L.I.D., con la funzione di organizzare il lancio propagandistico del problema, e offrire di conseguenza alla parte più corruttibile della classe politica, il pretesto per legiferare. La legge è il risultato dell’impegno attivistico di minoranze rivoluzionarie che, grazie a intense campagne propagandistiche, costate “tempo, denaro, entusiasmo“, riescono a imporre nella più “evoluta” Inghilterra l’aborto, in Italia il divorzio.
Se qualcuno avesse l’ingenuità di obiettare che l’analogia delle modalità non implica l’identità dei contenuti, e che divorzio e aborto restano due problemi distinti, non rimarrebbe che dimostrare la consequenzialità delle fasi anche attraverso la materiale identità della minoranza rivoluzionaria.
L’on. Loris Fortuna, esaltato dalla Rivista Massonica come campione del divorzismo, è lo stesso personaggio che l’11 febbraio 1973 depositava alla Camera dei deputati la proposta di legge n. 1655, Disciplina dell’aborto, a nome del Partito Socialista e del Movimento di Liberazione della Donna (M.L.D.), una delle punte avanzate delle rivendicazioni femministe.
La sede del Movimento di Liberazione della Donna, in via Torre Argentina 18, è, guarda caso, la stessa della Lega Italiana per l’Istituzione del Divorzio. Gli stessi locali ospitano, oltre al M.L.D. e alla L.I.D., il Partito Radicale, la Lega Obiettori di Coscienza, l’Associazione di Libero Pensiero Giordano Bruno, l’Associazione per la Cremazione, il Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano (F.U.O.R.I.), e allo stesso numero civico si trovano anche il Movimento Gaetano Salvemini, la rivista L’Astrolabio e il Movimento Politico dei Lavoratori.
La massoneria, che abbiamo visto così idealmente compenetrata con la L.I.D., non è ufficialmente presente ma, con tutta probabilità, solo di fatto, come proprietaria dei locali in questione.
Non diversamente il Mac Carthy ci informava che nella sede della British Humanist Association, a Londra, coabitavano gruppi quali The International Alliance of Women, The Progressist League, The Democratic Union for the Birth Control, The Medical Socialist Association, The Euthanasie Association.
Nei mesi immediatamente seguenti la proposta di legge Fortuna, esplodeva in Italia il problema aborto, secondo le modalità ormai note.
La stessa minoranza che si era battuta per il divorzio iniziava a consacrare “tempo, denaro, entusiasmo” all’aborto.
Sulla falsariga dell’Associazione francese Choisir, creata nel 1971 dalla scrittrice Simone de Beauvoir e dalla avvocatessa Gisèle Halimi “per difendere gratuitamente e moralmente qualsiasi donna accusata di pratiche abortive“, veniva fondata anche in Italia l’associazione Scegliere.
Cominciava l’agitazione dei gruppi femministi e, soprattutto, della stampa a larga tiratura, in particolare delle riviste femminili. Un servizio a più puntate apparso nell’aprile 1973 sulla rivista Amica potrebbe far scuola in questo senso. Poiché il problema non è sentito o più presumibilmente avversato dai lettori, lo si crea. Si inizia dunque dicendo che si può essere favorevoli o contrari all’aborto ma che, in ogni modo, occorre parlarne; si insiste quindi sulla necessità della “presa di coscienza” o “responsabilizzazione” della pubblica opinione; si riportano a tinte drammatiche i soliti casi pietosi, si gonfiano oltre l’inverosimile le cifre (si arriva a parlare di ventimila donne morte di aborto ogni anno, laddove l’Istituto Centrale di Statistica ci informa che in Italia muoiono mediamente ogni anno poco più di ottomila donne in età di parto); si prefabbricano statistiche e inchieste, non arrivando a definire l’aborto un bene in sé, ma presentandolo come un male minore per evitare alle donne “la dolorosa necessità” di subirlo in condizioni drammatiche, “nell’avvilente limite della clandestinità“. Così, gradualmente, con l’apparenza di informare sul problema l’opinione pubblica, si compie una vera e propria opera di deformazione, fino ad arrivare a proporre in questi testuali agghiaccianti termini il famigerato metodo Karman di soppressione del feto: “Il metodo appare semplicissimo: non è doloroso, richiede poco tempo, costa poco o nulla, applicarlo è facile come togliere le tonsille“.
La contingenza del referendum ha fatto sopire, per ovvi motivi prudenziali, la campagna abortista già violentemente iniziata; essa riesploderà con maggiore intensità e virulenza, non è difficile prevederlo, non appena eventualmente confermata la legge divorzista.
Non resterebbe a questo punto che prevedere le conseguenze. Poiché abbiamo seguito l’itinerario della sovversione in Inghilterra, rifacciamoci a fonti ufficiali inglesi, quali il volume Social Trends, pubblicato dall’Ufficio Centrale di Statistica del governo lo scorso anno. I divorzi, che erano 27.000 nel 1961, dopo il Divorce Reform Act del 19 giugno 1970, che superava la precedente legislazione divorzista legata al concetto delle colpe, ammettendo come unico motivo di divorzio la “irreparabile rottura della comunione coniugale”, salivano a 62.000 nel 1970 e a 77.000 nel 1971.
Gli aborti, che tra l’aprile e il dicembre 1968, all’indomani della approvazione della legge, erano 25.000, nel 1969 furono 58.400, nel 1970 91.800 e nel 1971 raggiunsero quota 133.000. Le ultime cifre ci mancano, ma sono tristemente prevedibili. Esse dimostrano inconfutabilmente come attraverso l’introduzione di simili leggi non si risolvono casi pietosi, ma si attenta scientemente alla famiglia come istituzione naturale. Il divorzio spiana la strada all’aborto, e una volta introdotto con l’aborto il principio omicida nella legislazione positiva, l’escalation è prevedibile: lo si estende ai bambini malformati e minorati, poi ai malati incurabili, ai vecchi inutili alla società, fino ad arrivare allo sterminio legalizzato dei “dannosi”, di coloro che si oppongono alla instaurazione del terrore rivoluzionario. È la famiglia che si vuole distruggere; è la famiglia che occorre oggi salvare. E, allo stesso modo che, attraverso tappe diverse e graduate, si vuole distruggere tutta la famiglia, è tutta la famiglia, a tutti i livelli, che occorre oggi difendere, colpendo il male quanto più possibile alle radici.
Abbiamo dimostrato le modalità della tecnica rivoluzionaria, nel cogliere le analogie tra l’introduzione, in paesi diversi, dell’aborto e del divorzio; abbiamo dimostrato, nel riconoscere l’identità della minoranza rivoluzionaria, la consequenzialità dei passaggi sovversivi; abbiamo misurato le conseguenze della loro azione per la vita delle famiglie e delle società; apprestiamoci a combatterli con l’impegno e la decisione necessari.
ROBERTO DE MATTEI
Note:
(1) NATALE PESVELOSSI, Il divorzio in Italia, in Rivista Massonica, dicembre 1969, n. 12, p. 513.
(2) Ibidem.
(3) Ibidem, p. 514.
(4) Ibidem, p. 513.
(5) Ibidem, p. 514-515.