Massimo Introvigne, Cristianità n. 362 (2011)
I. Due milioni di giovani sfidano il relativismo: Papa Benedetto XVI alla XXVI Giornata Mondiale della Gioventù
1. Due sfide: persecuzione e corruzione. Una radice: il relativismo
La XXVI Giornata Mondiale della Gioventù, la GMG, è stata “una cascata di luce” (1) su un mondo caratterizzato dalla persecuzione dei cristiani e da una crisi al cui centro sta la corruzione morale e dottrinale. Una “festa della fede” (2) — così l’ha chiamata il Papa ripartendo domenica 21 agosto dall’aeroporto di Madrid Barajas — con due milioni d’invitati. Un richiamo alla Spagna, “grande nazione” (3) per la sua storia al servizio della fede, a “[…] progredire senza rinunciare alla sua anima profondamente religiosa e cattolica” (4). Ma soprattutto una sfida lanciata al relativismo, denunciato in tutti gl’interventi del Pontefice come la fonte avvelenata delle “[…] frontiere che il peccato innalza tra i popoli e le generazioni” (5). Questa la sintesi del pensiero di Benedetto XVI su un evento il cui successo, come spesso accade per i viaggi del Papa, ha puntualmente smentito ogni sorta di previsione pessimistica. Fin dalla prima giornata del suo viaggio, il Pontefice ha enunciato lo schema concettuale della sua visita spagnola: le molteplici crisi contemporanee, compresa quella economica e del lavoro, hanno come radice comune il relativismo. La GMG è una risposta seria ed efficace al relativismo in quanto aiuta i giovani a proclamare con coraggio che esiste la verità, dunque esistono le diverse verità: filosofiche, morali, religiose, fino all’incontro con Gesù Cristo, in cui la verità si fa persona.
Il Pontefice ha insistito sul fatto che le GMG non sono una kermesse o un fenomeno turistico. I giovani, ha detto al suo arrivo all’aeroporto della capitale spagnola, sono venuti a Madrid “[…] in cerca della verità che dà un senso genuino alla propria esistenza” (6). Essi “[…] hanno udito la voce di Dio, forse solo come un lieve sussurro, che li ha spinti a cercarlo più assiduamente e a condividere con altri l’esperienza della forza che ha la voce di Dio nella loro vita. Questa scoperta del Dio vivo rianima i giovani e apre i loro occhi alle sfide del mondo nel quale vivono, con i suoi limiti e le sue possibilità” (7). Per questo “la Giornata Mondiale della Gioventù ci porta un messaggio di speranza, come una brezza di aria pura e giovanile, con soffio rinnovatore che ci riempie di fiducia di fronte al domani della Chiesa e del mondo” (8).
Si tratta di un mondo, e di una Chiesa, dove “certamente non mancano difficoltà” (9). In molti interventi del 2011 il Pontefice è tornato sulla duplice persecuzione dei cristiani: cruenta in tanti Paesi dell’Africa e dell’Asia, strisciante e amministrativa in Occidente, proprio a partire dalla Spagna del primo ministro laicista José Luis Rodríguez Zapatero. “Non pochi — ha detto Papa Benedetto XVI all’aeroporto di Madrid, presente fra le altre autorità proprio Zapatero — a causa della loro fede in Cristo soffrono in se stessi la discriminazione, che arriva al disprezzo e alla persecuzione aperta od occulta che patiscono in determinate regioni e paesi” (10). Non c’è solo, dunque, la persecuzione “aperta” — “tensioni e scontri aperti in tanti luoghi del mondo, anche con spargimento di sangue” (11) — ma anche quella “occulta”, dove i cristiani “li si perseguita volendo allontanarli da Lui [Cristo], privandoli dei segni della sua presenza nella vita pubblica, e mettendo a tacere perfino il suo santo Nome” (12).
Accanto alla persecuzione aperta oppure occulta i cristiani, e in particolare i giovani, si trovano di fronte a una seconda sfida che rischia di entrare nel loro stesso cuore e di avvelenarlo: “la superficialità, il consumismo e l’edonismo imperanti, tanta banalizzazione nel vivere la sessualità, tanta mancanza di solidarietà, tanta corruzione” (13). “La giustizia e l’altissimo valore della persona umana si sottomettono facilmente a interessi egoisti, materiali e ideologici” (14). Altri giovani “[…] hanno bisogno di essere messi in guardia per non cadere nella rete della droga, o di avere un’assistenza efficace, se, purtroppo, vi fossero caduti” (15).
La corruzione morale è anche alla radice, ha detto il Papa sull’aereo che lo portava in Spagna, di un fenomeno certo complesso e difficile da decifrare, che oggi preoccupa tutti: la nuova crisi economica internazionale. “Si conferma nell’attuale crisi economica quanto è già apparso nella precedente grande crisi, che la dimensione etica, cioè, non è una cosa esteriore ai problemi economici, ma una dimensione interiore e fondamentale. L’economia non funziona solo con un’autoregolamentazione di mercato, ma ha bisogno di una ragione etica per funzionare per l’uomo. E appare di nuovo quanto aveva già detto nella sua prima enciclica sociale Papa Giovanni Paolo II [1978-2005], che l’uomo dev’essere il centro dell’economia e che l’economia non è da misurare secondo il massimo del profitto, ma secondo il bene di tutti, include responsabilità per l’altro e funziona veramente bene solo se funziona in modo umano, nel rispetto dell’altro” (16).
La stessa dimensione internazionale della crisi economica è, in fondo, una dimensione morale. “E con le diverse dimensioni: responsabilità per la propria Nazione e non solo per se stessi; responsabilità per il mondo — anche una Nazione non è isolata, anche l’Europa non è isolata, ma è responsabile per l’intera umanità e deve pensare ai problemi economici sempre in questa chiave della responsabilità anche per le altre parti del mondo, per quelle che soffrono, hanno sete e fame, non hanno futuro. E quindi — terza dimensione di questa responsabilità — è la responsabilità per il futuro. Sappiamo che dobbiamo proteggere il nostro pianeta, ma dobbiamo proteggere — tutto sommato — il funzionamento del servizio del lavoro economico per tutti e pensare che il domani è anche l’oggi” (17).
La disoccupazione e la crisi di fiducia nel futuro che tanto toccano i giovani hanno la loro radice ultima in un male morale e nella diffusione di diverse forme di corruzione. “Se i giovani di oggi non trovano prospettive nella loro vita, anche il nostro oggi è sbagliato e “male”. Quindi, la Chiesa con la sua dottrina sociale, con la sua dottrina sulla responsabilità verso Dio, apre la capacità di rinunciare al massimo del profitto e di vedere le cose nella dimensione umanistica e religiosa, cioè: essere l’uno per l’altro. Così si possono anche aprire le strade. Il grande numero di volontari che lavorano in diverse parti del mondo, non per sé ma per l’altro, e trovano proprio così il senso della vita, dimostrano che è possibile fare questo e che un’educazione a questi grandi scopi, come cerca di fare la Chiesa, è fondamentale per il nostro futuro” (18).
Ma dietro tutte le forme della crisi si trova, come si è accennato, una singola causa fondamentale, la cui denuncia è un insegnamento centrale del Magistero di Papa Benedetto XVI: il relativismo, la negazione dell’esistenza e della rilevanza della verità. Nell’intervento principale della prima giornata della GMG di Madrid, in Plaza de Cibeles, il Pontefice ha ammonito che oggi “[…] ci sono molti che, credendosi degli dei, pensano di non aver bisogno di radici, né di fondamenti che non siano essi stessi. Desidererebbero decidere solo da sé ciò che è verità o no, ciò che è bene o male, giusto e ingiusto; decidere chi è degno di vivere o può essere sacrificato sull’altare di altre prospettive; fare in ogni istante un passo a caso, senza una rotta prefissata, facendosi guidare dall’impulso del momento. Queste tentazioni sono sempre in agguato. È importante non soccombere ad esse, perché, in realtà, conducono a qualcosa di evanescente, come un’esistenza senza orizzonti, una libertà senza Dio” (19).
Chi non ha paura — ha detto ancora il Papa sul volo verso Madrid — di affermare la sua fiducia e il suo amore per la verità, e per l’unico Dio del monoteismo che è garante dell’unica verità, è subito accusato d’intolleranza e di rifiuto di un “dialogo” (20) che è presentato impropriamente in chiave relativistica e diventa allora un grande mito del nostro tempo. “Il collegamento — ha detto il Pontefice — tra verità e intolleranza, monoteismo e incapacità di dialogo con gli altri, è un argomento che spesso ritorna nel dibattito sul cristianesimo di oggi. E, naturalmente, è vero che nella storia ci sono stati anche abusi, sia del concetto della verità, sia del concetto del monoteismo; ma sono stati abusi” (21). Ma in sostanza “la realtà è totalmente diversa” (22): il relativismo non rende liberi e al contrario solo riconoscendo che esiste la verità è possibile difendere la libertà.
L’argomento secondo cui opporsi al relativismo renderebbe intolleranti invece, ha spiegato Papa Benedetto XVI, “[…] è sbagliato, perché la verità è accessibile solo nella libertà. Si possono imporre con violenza, comportamenti, osservanze, attività, ma non la verità! La verità si apre solo alla libertà, al consenso libero, e perciò libertà e verità sono intimamente unite, l’una è condizione per l’altra. E, del resto, cercare la verità, i veri valori che danno vita e futuro, è senza alternativa: non vogliamo la menzogna, non vogliamo il positivismo di norme imposte con una certa forza; solo i valori veri portano al futuro e diciamo che è necessario, quindi, cercare i valori veri e non permettere l’arbitrio di alcuni, non lasciare che si fissi una ragione positivista che ci dice, circa i problemi etici, i grandi problemi dell’uomo: non c’è una verità razionale. Questo sarebbe veramente esporre l’uomo all’arbitrio di quanti hanno il potere” (23).
Dunque il relativismo rende l’uomo schiavo dei tanti poteri forti del nostro tempo, mentre la verità — come insegna il Vangelo — rende liberi e nello stesso tempo rende capaci di un dialogo autentico e non relativista con gli altri. “Dobbiamo essere sempre alla ricerca della verità, dei veri valori; abbiamo un nucleo nei valori, nei diritti umani fondamentali; altri simili elementi fondamentali sono riconosciuti e, proprio questi, ci mettono in dialogo l’uno con l’altro. La verità come tale è dialogica perché cerca di conoscere meglio, di capire meglio e lo fa in dialogo con gli altri. Così, ricercare la verità e la dignità dell’uomo è la maggiore difesa della libertà” (24).
I due aspetti della crisi — persecuzione “occulta” sotto forma di discriminazione amministrativa e corruzione diffusa fondata ultimamente sul relativismo — si presentano, ha detto il Pontefice all’aeroporto di Madrid, anche in Spagna, Paese pure tanto ricco di radici cristiane e di testimonianze di santi: un “[…] Paese così ricco di storia e cultura, per la vitalità della propria fede, che ha portato frutto in tanti santi e sante in tutte le epoche, in numerosi uomini e donne che lasciando la propria terra hanno portato il Vangelo in ogni angolo del mondo […]. È un grande tesoro che certamente vale la pena di custodire con atteggiamento costruttivo, per il bene comune di oggi e per offrire un orizzonte luminoso all’avvenire delle nuove generazioni. Benché vi siano attualmente motivi di preoccupazione, è maggiore l’ansia degli spagnoli di superarli con il dinamismo che li caratterizza, e al quale tanto contribuiscono le sue profonde radici cristiane” (25).
2. Rispondere al relativismo: fede e ragione
La risposta collettiva che il Papa invita i giovani a dare alla crisi generata dal relativismo mobilita insieme la fede e la ragione. Benedetto XVI mostra che si può percorrere questo itinerario, che è uno, sia a partire dalla fede — che diventa testimonianza radicale di donazione a Cristo nella vita religiosa e sacerdotale e nel servizio ai malati, e sequela del Signore sofferente nella Via Crucis, che, illuminando la nozione stessa di verità, incontra e feconda la ragione —, sia a partire dalla ragione, con l’esperienza di un’educazione e di un’università capaci di affermare il primato della verità e di aprirsi alla fede.
a. Le giovani religiose
Il Pontefice illustra la radicalità della risposta con alcuni esempi specifici. Anzitutto quello delle giovani religiose, incontrate nel Patio de los Reyes dell’Escorial, cui il Pontefice ha spiegato che precisamente “davanti al relativismo e alla mediocrità, sorge il bisogno di questa radicalità [della vita religiosa], che testimonia la consacrazione come un appartenere a Dio, sommamente amato” (26). Mentre il relativismo vuole convincere i giovani che non esistono radici né fondamento, la scelta delle religiose testimonia e grida al mondo che “la radicalità evangelica è rimanere “radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede” (Col 2,7), che nella vita consacrata significa andare alla radice dell’amore a Gesù Cristo con cuore indiviso, senza anteporre nulla a tale amore (cfr S. Benedetto [480 ca.-547], Regola, IV, 21), con una appartenenza sponsale, come l’hanno vissuta i Santi” (27).
La testimonianza delle religiose “[…] possiede oggi una speciale rilevanza, quando “si constata una sorta di ‘eclissi di Dio’, una certa amnesia, se non un vero rifiuto del Cristianesimo e una negazione del tesoro della fede ricevuta, col rischio di perdere la propria identità profonda” (Messaggio per la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù 2011, 1)” (28). Naturalmente, non si tratta di un virtuosismo di cui ciascuno potrebbe inventarsi le regole. Al contrario, ha voluto precisare il Pontefice, “questa radicalità evangelica della vita consacrata si esprime nella comunione filiale con la Chiesa” (29).
b. I seminaristi
Sabato 20 agosto, nella terza giornata a Madrid, il Papa ha presentato altri due esempi di testimonianza radicale per la verità che si affiancano a quello delle religiose: la scelta del sacerdozio e del seminario in una società secolarizzata e anticristiana e il servizio agli handicappati non solo fisici ma mentali, della cui piena dignità di persone una cultura ostile alla vita oggi dubita. Nella Messa celebrata per i seminaristi nella cattedrale di Santa Marìa la Real de la Almudena il Pontefice ha sottolineato nell’omelia come la testimonianza radicale dell’offerta di sé, del celibato, dell’obbedienza alla Chiesa dei seminaristi proclami al mondo che la vera libertà non consiste nel fare quello che si vuole ma nell’essere docili alla verità, che esiste e che si può conoscere.
Il seminarista si prepara a mettere al centro della sua missione sacerdotale l’Eucarestia, dove — ha detto il Papa — “il corpo spezzato e il sangue versato di Cristo, cioè la sua libertà offerta, si sono convertiti attraverso i segni eucaristici nella nuova fonte della libertà redenta degli uomini. In Lui abbiamo la promessa di una redenzione definitiva e la speranza certa dei beni futuri. Attraverso Cristo sappiamo che non siamo dei viandanti verso l’abisso, verso il silenzio del nulla o della morte, ma siamo dei pellegrini verso una terra promessa, verso di Lui, che è la nostra meta e anche la nostra origine” (30).
Ma questa preparazione richiede che i seminari, troppo spesso coinvolti anch’essi nella crisi generale, siano davvero fedeli al loro mandato. Quelli trascorsi in seminario “anzitutto devono essere anni di silenzio interiore, di orazione costante, di studio assiduo e di prudente inserimento nell’azione e nelle strutture pastorali della Chiesa” (31). Tutti noi sacerdoti, ha detto il Pontefice, “[…] dobbiamo esser santi per non creare una contraddizione fra il segno che siamo e la realtà che vogliamo significare” (32).
I tempi sono particolarmente difficili? È vero. Ma “nessuno sceglie il contesto, né i destinatari della propria missione. Ogni epoca ha i suoi problemi, ma Dio offre in ogni tempo la grazia opportuna per farsene carico e superarli con amore e realismo” (33). E — con parole in cui una parte della stampa ha voluto vedere anche una risposta indiretta alle gazzarre anticlericali contro la visita del Papa in Spagna — Benedetto XVI ha invitato i seminaristi a non lasciarsi “[…] intimorire da un ambiente nel quale si pretende di escludere Dio e nel quale il potere, il possedere o il piacere sono spesso i principali criteri sui quali si regge l’esistenza. Può darsi che vi disprezzino, come si suole fare verso coloro che richiamano mete più alte o smascherano gli idoli dinanzi ai quali oggi molti si prostrano. Sarà allora che una vita profondamente radicata in Cristo si rivelerà realmente come una novità, attraendo con forza coloro che veramente cercano Dio, la verità e la giustizia” (34).
Al termine della Messa con i seminaristi il Papa ha annunciato che il patrono del clero secolare spagnolo, san Giovanni d’Avila (1499-1569) — da non confondersi con san Giovanni della Croce (1542-1591) —, sarà presto proclamato Dottore della Chiesa. Sarà così onorato un grande predicatore stimato dall’imperatore Carlo V d’Asburgo (1500-1558), che gli affidò l’omelia ai funerali dell’amatissima moglie Isabella del Portogallo (1503-1539), ricordando ancora una volta il legame fra la gloria della Spagna e le sue radici cristiane. Ma in epoca di crisi economica è anche significativo che la Chiesa attiri l’attenzione su un maestro spirituale che non mancò mai d’insistere — a costo anche d’incomprensioni e difficoltà con la gerarchia ecclesiastica del suo tempo — sull’austerità e sulla sobrietà della vita, di cui anche i più ricchi devono dare l’esempio specie in tempi di generali ristrettezze.
c. Il servizio agli handicappati fisici e mentali
Visitando la Fondazione Istituto San José, dove i religiosi dell’Ordine Ospedaliero di san Giovanni di Dio (1495-1550), i cosiddetti Fatebenefratelli, nel solco dell’opera del loro confratello milanese attivo in Spagna san Benedetto Menni (1841-1914), si prendono cura di handicappati e malati di mente, il Pontefice ha ricordato che una testimonianza speciale per la verità è quella che riafferma, in un mondo tentato dall’eutanasia, che nessuna vita è inutile. Opere come questa, ha detto il Papa, testimoniano “[…] della dignità di ogni vita umana, creata a immagine di Dio. Nessuna afflizione è capace di cancellare questa impronta divina incisa nel più profondo dell’uomo. E non solo: dal momento in cui il Figlio di Dio volle abbracciare liberamente il dolore e la morte, l’immagine di Dio si offre a noi anche nel volto di chi soffre. Questa speciale predilezione del Signore per colui che soffre ci porta a guardare l’altro con occhi limpidi, per dargli, oltre alle cose esterne di cui necessita, lo sguardo amorevole di cui ha bisogno” (35).
L’incontro con la sofferenza — e tanto più con giovani sofferenti o handicappati — è, oggi più che mai, una sfida. “[…] quando il dolore appare nell’orizzonte di una vita giovane, rimaniamo sconcertati e forse ci chiediamo: può continuare ad essere grande la vita quando irrompe in essa la sofferenza? A tale riguardo, nella mia enciclica sulla speranza cristiana, dicevo: “La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente (…) Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente, è una società crudele e disumana” (Spe salvi, 38)” (36). Nella “[…] nostra società, nella quale troppo spesso si pone in dubbio la dignità inestimabile della vita, di ogni vita” (37), il servizio alla sofferenza è un’altra sfida al relativismo, un’altra testimonianza eloquente e persuasiva per la verità, in questo caso la verità sulla persona umana e sulla vita, il cui valore non dipende dalla buona salute fisica o mentale.
d. L’educazione e l’università
Tre testimonianze, dunque — le religiose, i seminaristi e coloro che si mettono al servizio degli handicappati —, di come la verità sulla persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio, non sia negoziabile. A queste testimonianze che nascono dalla fede, Benedetto XVI ne ha voluto affiancare una che parte dalla ragione. L’Escorial, che il Papa ha chiamato “[…] luogo emblematico [dove] ragione e fede si sono fuse armoniosamente nell’austera pietra per modellare uno dei monumenti più rinomati della Spagna” (38), è stato anche teatro dell’incontro del 19 agosto con i giovani docenti universitari, in cui a Benedetto XVI sono tornati “[…] alla mente i miei primi passi come professore all’università di Bonn. Quando si vedevano ancora le ferite della guerra ed erano molte le carenze materiali, tutto veniva superato dall’entusiasmo di un’attività appassionante, dal contatto con colleghi delle diverse discipline e dal desiderio di dare risposta alle inquietudini ultime e fondamentali degli alunni. Questa “universitas”, che ho vissuto, di professori e discepoli che assieme cercano la verità in tutti i saperi, o, come avrebbe detto Alfonso X il Saggio [re di Castiglia (1221-1284)], tale “riunione di maestri e discepoli con volontà e obiettivo di apprendere i saperi” (Siete partidas, partida II, tit. XXXI), rende chiaro il significato e anche la definizione dell’Università” (39).
L’università — non è la prima volta che Papa Benedetto XVI lo ricorda — è parte del problema e della crisi se diventa scuola di relativismo, ma può essere una parte decisiva della soluzione se riscopre il ruolo della verità e offre ai giovani solidi punti di riferimento. “Tuttavia, dove troveranno i giovani tali punti di riferimento in una società sgretolata e instabile?” (40). Non certo solo nelle nozioni tecniche, per quanto avanzate ed eccellenti. “Talvolta si ritiene che la missione di un professore universitario sia oggi esclusivamente quella di formare dei professionisti competenti ed efficaci che possano soddisfare la domanda del mercato in ogni momento preciso. Si afferma pure che l’unica cosa che si deve privilegiare nella congiuntura presente sia la pura capacità tecnica. Certamente, oggi si estende questa visione utilitaristica dell’educazione, anche di quella universitaria, diffusa specialmente a partire da ambiti extrauniversitari” (41).
Ma così appunto, cedendo al relativismo, l’università tradisce sé stessa e diventa fattore a sua volta rilevante e pericoloso della crisi. “Voi — ha detto il Papa — che avete vissuto come me l’università, e che la vivete ora come docenti, sentite senza dubbio il desiderio di qualcosa di più elevato che corrisponda a tutte le dimensioni che costituiscono l’uomo. Sappiamo che quando la sola utilità e il pragmatismo immediato si ergono a criterio principale, le perdite possono essere drammatiche: dagli abusi di una scienza senza limiti, ben oltre se stessa, fino al totalitarismo politico che si ravviva facilmente quando si elimina qualsiasi riferimento superiore al semplice calcolo di potere. Al contrario, l’idea genuina di università è precisamente quello che ci preserva da tale visione riduzionista e distorta dell’umano” (42).
La vera università, che storicamente — è bene sempre ricordarlo a chi tenta di farlo dimenticare — è nata dal cristianesimo e dalla Chiesa, “[…] è stata ed è tuttora chiamata ad essere sempre la casa dove si cerca la verità propria della persona umana. Per tale ragione non a caso fu la Chiesa ad aver promosso l’istituzione universitaria, proprio perché la fede cristiana ci parla di Cristo come del Logos mediante il quale tutto è stato fatto (cfr Gv 1,3), e dell’essere umano creato ad immagine e somiglianza di Dio” (43).
Se Cristo è Logos, ragione, allora diventa possibile fidarsi della verità, allora vale la pena dedicare la vita alla verità che la ragione può scoprire. “Questa buona novella scopre una razionalità in tutto il creato e guarda all’uomo come ad una creatura che partecipa e può giungere a riconoscere tale razionalità” (44). Ma la buona novella sull’università si perde a causa di poteri forti che proclamano il relativismo per i loro fini di ricchezza e di potere. “L’università incarna, pertanto, un ideale che non deve snaturarsi, né a causa di ideologie chiuse al dialogo razionale, né per servilismi ad una logica utilitaristica di semplice mercato, che vede l’uomo come semplice consumatore” (45).
A tutto questo però si può reagire, riprendendo la grande tradizione dell’università come casa della verità. Anche oggi infatti “[…] i giovani hanno bisogno di autentici maestri; persone aperte alla verità totale nei differenti rami del sapere, […] persone convinte, soprattutto, della capacità umana di avanzare nel cammino verso la verità. La gioventù è tempo privilegiato per la ricerca e l’incontro con la verità. Come già disse Platone [428/427-347 a.C.], “Cerca la verità mentre sei giovane, perché se non lo farai, poi ti scapperà dalle mani” (Parmenide, 135d). Questa alta aspirazione è la più preziosa che potete trasmettere in modo personale e vitale ai vostri studenti, e non semplicemente alcune tecniche strumentali ed anonime, o alcuni freddi dati, usati solo in modo funzionale” (46).
Vi è dunque bisogno di docenti che siano sentinelle della verità e baluardi contro il relativismo, pronti a “[…] non perdere mai questa sensibilità e quest’anelito per la verità; a non dimenticare che l’insegnamento non è un’arida comunicazione di contenuti, bensì una formazione dei giovani che dovrete comprendere e ricercare; in essi dovete suscitare questa sete di verità che hanno nel profondo e quest’ansia di superarsi” (47).
Al vero educatore il Papa assegna due compiti: quello di “[…] tenere a mente, in primo luogo, che il cammino verso la verità piena impegna anche l’intero essere umano: è un cammino dell’intelligenza e dell’amore, della ragione e della fede. Non possiamo avanzare nella conoscenza di qualcosa se non ci muove l’amore, e neppure possiamo amare qualcosa nella quale non vediamo razionalità, dato che “non c’è l’intelligenza e poi l’amore: ci sono l’amore ricco di intelligenza e l’intelligenza piena di amore” (Caritas in veritate, 30). Se verità e bene sono uniti, così lo sono anche conoscenza e amore. Da questa unità deriva la coerenza di vita e di pensiero, l’esemplarità che si esige da ogni buon educatore” (48).
Ma c’è anche un secondo compito. “In secondo luogo, occorre considerare che la stessa verità è sempre più alta dei nostri traguardi. Possiamo cercarla ed avvicinarci ad essa, però non possiamo possederla totalmente, o meglio è essa che ci possiede e che ci motiva. Nell’opera intellettuale e docente, perciò, l’umiltà è una virtù indispensabile, che ci protegge dalla vanità che chiude l’accesso alla verità. Non dobbiamo attirare gli studenti a noi stessi, bensì indirizzarli verso quella verità che tutti cerchiamo. In tale compito vi aiuterà il Signore, che vi chiede di essere semplici ed efficaci come il sale, come la lampada che fa luce senza fare rumore (cfr Mt 5,13-15)” (49).
“Tutto ciò — ha concluso il Papa — ci invita a volgere sempre lo sguardo a Cristo, nel cui volto risplende la Verità che ci illumina, ma che è anche la via che ci conduce alla pienezza duratura, poiché è il Viandante che è al nostro fianco e ci sostiene con il suo amore” (50).
e. Seguire Cristo nella Via Crucis
Se le religiose, i seminaristi, coloro che si mettono al servizio dei malati testimoniano la verità, contro il relativismo, con una fede radicalmente vissuta che incontra la ragione, gli educatori la testimoniano con una passione per la verità vissuta nell’amore e nell’umiltà che incontra la fede. Tutti — meglio, tutti i fedeli — incontrano la verità quando scoprono che è una persona, Gesù Cristo, e camminano con lui anche nelle difficoltà, fino al Calvario. È questa l’immagine che la sera del 19 agosto a Madrid il Papa ha voluto lasciare ai giovani al termine della Via Crucis. È l’immagine “[…] della croce gloriosa di Cristo, che contiene la vera sapienza di Dio, quella che giudica il mondo e quanti credono di essere sapienti (cfr 1 Cor 1,17-19)” (51).
Ispirato dalla “contemplazione di queste straordinarie immagini del patrimonio religioso delle diocesi spagnole” (52), “[…] nelle quali la fede e l’arte si armonizzano, per giungere al cuore dell’uomo ed invitarlo alla conversione” (53), il Papa è tornato a proporre ai giovani, come fa spesso, di arrivare al vero in un’epoca di crisi percorrendo la via più immediata: quella del bello, la via pulchritudinis. “Quando lo sguardo della fede è limpido e autentico — ha detto il Pontefice — la bellezza si pone al suo servizio ed è capace di raffigurare i misteri della nostra salvezza fino a commuoverci profondamente e trasformare il nostro cuore, come accadde a santa Teresa di Gesù [1515-1582] nel contemplare un’immagine di Cristo pieno di piaghe (cfr Libro della vita, 9,1)” (54). Capire la bellezza di queste piaghe, della croce “icona dell’amore supremo” (55), “ruvido legno” (56) che però si fa luce capace d’illuminare la nostra “notte del dolore” (57) significa essere passati definitivamente dalla parte di Cristo, che è la parte della verità che non delude.
3. La GMG: una risposta adeguata
a. Rispondere al relativismo
Animato da queste testimonianze — di chi sceglie il sacerdozio, di chi dedica la vita a servire i portatori di handicap o i malati di mente — come potrà il giovane della GMG dire a sua volta no al relativismo, decidere di vivere nella verità e per la verità? Era questo il tema preparato per la veglia di preghiera del 20 agosto all’aeroporto dei Quattro Venti.
La prima verità da testimoniare, ha scritto il Papa nel discorso destinato ai tantissimi giovani della veglia — non pronunciato a causa della pioggia battente, ma distribuito alla stampa e pubblicato sul sito Internet della Santa Sede —, è che non siamo frutto del caso ma di un progetto di amore di Dio. “Questa è la grande verità della nostra vita e che dà senso a tutto il resto. Non siamo frutto del caso o dell’irrazionalità, ma all’origine della nostra esistenza c’è un progetto d’amore di Dio” (58). Il vero coraggio sta nel non accettare le monete false del relativismo, nel non accontentarsi di niente di meno della verità. “Cari giovani — ha esortato il Pontefice — non conformatevi con qualcosa che sia meno della Verità e dell’Amore, non conformatevi con qualcuno che sia meno di Cristo” (59).
I frutti saranno immediatamente visibili e sperimentabili. “Se rimarrete nell’amore di Cristo, radicati nella fede, incontrerete, anche in mezzo a contrarietà e sofferenze, la fonte della gioia e dell’allegria. La fede non si oppone ai vostri ideali più alti, al contrario, li eleva e li perfeziona” (60).
Anche nel discorso per la veglia, tornando sempre sul tema principale del suo viaggio, Papa Benedetto XVI ha denunciato ancora una volta il relativismo come radice della crisi contemporanea, come velo che impedisce di comprendere il senso del dolore e delle prove e di affidarsi a Cristo che solo può aiutarci a superarle. “Precisamente oggi, in cui la cultura relativista dominante rinuncia alla ricerca della verità e disprezza la ricerca della verità, che è l’aspirazione più alta dello spirito umano, dobbiamo proporre con coraggio e umiltà il valore universale di Cristo, come salvatore di tutti gli uomini e fonte di speranza per la nostra vita. Egli, che prese su di sé le nostre afflizioni, conosce bene il mistero del dolore umano e mostra la sua presenza piena di amore in tutti coloro che soffrono. E questi, a loro volta, uniti alla passione di Cristo, partecipano molto da vicino alla sua opera di redenzione” (61).
E l’appello alla verità, ha aggiunto il Papa, vale sia per chi è chiamato a testimoniarla nella vita sacerdotale e religiosa, sia per chi ha come vocazione l’incontro con le verità oggi scomode e contestate della famiglia e del matrimonio. Molti dei giovani della GMG scopriranno, o hanno già scoperto, che “sono chiamati dal Signore al matrimonio, nel quale un uomo e una donna, formando una sola carne (cfr Gn 2,24), si realizzano in una profonda vita di comunione. È un orizzonte luminoso ed esigente al tempo stesso. Un progetto di amore vero che si rinnova e si approfondisce ogni giorno condividendo gioie e difficoltà, e che si caratterizza per un dono della totalità della persona. Per questo, riconoscere la bellezza e la bontà del matrimonio, significa essere coscienti che solo un contesto di fedeltà e indissolubilità, come pure di apertura al dono divino della vita, è quello adeguato alla grandezza e dignità dell’amore matrimoniale” (62).
b. A che serve la GMG?
Ma a che serve, in definitiva, la GMG, in questa situazione di crisi diffusa, per la Spagna, per l’Europa, per il mondo? Lo ha detto il Papa già nel suo viaggio in aereo verso Madrid: le GMG “[…] danno visibilità alla fede, visibilità alla presenza di Dio nel mondo e creano così il coraggio di essere credenti. Spesso i credenti si sentono isolati in questo mondo, quasi perduti. Qui, vedono che non sono soli, che c’è una grande rete di fede, una grande comunità di credenti nel mondo, che è bello vivere in questa amicizia universale. E così, mi sembra, nascono amicizie, amicizie oltre i confini delle diverse culture, dei diversi Paesi. E questa nascita di una rete universale di amicizia, che collega mondo e Dio, è un’importante realtà per il futuro dell’umanità, per la vita dell’umanità di oggi” (63).
Certo, la GMG da sola non basta, né il Papa pensa che sia sufficiente se rimane un evento isolato. Ma la GMG, anzitutto, per chi vi partecipa ha un prima e un dopo. “Naturalmente, la GMG non può essere un avvenimento isolato: fa parte di un cammino più grande, va preparato da questo cammino della Croce che trasmigra in diversi Paesi e già unisce giovani nel segno della Croce e nel meraviglioso segno della Madonna. E così la preparazione della GMG è molto più che preparazione tecnica di un avvenimento con tanti problemi tecnici, naturalmente; è una preparazione interiore, un mettersi in cammino verso gli altri, insieme verso Dio. E poi, dopo, segue la fondazione di gruppi di amicizia, tenere questo contatto universale che apre le frontiere delle culture, dei contrasti umani, religiosi, e così è un cammino continuo che poi guida ad un nuovo vertice, ad una nuova GMG. Mi sembra, in questo senso, che si debba vedere la GMG come segno, parte di un grande cammino; crea amicizie, apre frontiere e rende visibile che è bello essere con Dio, che Dio è con noi. In questo senso, vogliamo continuare con questa grande idea del Beato Papa Giovanni Paolo II” (64).
A chi obietta che le statistiche offrono un quadro ben diverso dall’entusiasmo della GMG e presentano dati molto pessimistici sulla pratica religiosa cattolica, specie in Spagna e specie dei giovani, il Papa risponde che “la seminagione di Dio è sempre silenziosa, non appare subito nelle statistiche. E con il seme che il Signore mette nella terra con le GMG, è come con il seme del quale Egli parla nel Vangelo: qualcosa cade sulla strada e si perde; qualcosa cade sulla pietra, e si perde; qualcosa cade tra i rovi, e si perde; ma qualcosa cade sulla terra buona e porta grande frutto” (65).
Succede la stessa cosa, ha concluso il Papa, “[…] anche con la seminagione della GMG: molto si perde — e questo è umano. Con altre parole del Signore: il granello di senape è piccolo, ma cresce e diventa un grande albero. Con altre parole ancora: certamente, molto si perde, non possiamo subito dire: da domani ricomincia una grande crescita della Chiesa. Dio non agisce così. Ma cresce in silenzio e tanto. So dalle altre GMG che sono nate tante amicizie, amicizie per la vita; tante nuove esperienze che Dio c’è. E su questa crescita silenziosa noi riponiamo fiducia e siamo sicuri, anche se le statistiche non parleranno molto, che il seme del Signore realmente cresce e sarà per moltissime persone l’inizio di un’amicizia con Dio e con altri, di un’universalità del pensiero, di una responsabilità comune che realmente ci mostra che questi giorni portano frutto” (66).
A Madrid, ha detto il Papa all’aeroporto, tanti giovani trovano “ragioni per sperare, senza arrestarsi davanti ai loro più alti ideali” (67); trovano “[…] un’occasione privilegiata per mettere in comune le loro aspirazioni, scambiare reciprocamente la ricchezza delle proprie culture ed esperienze, animarsi l’un l’altro in un cammino di fede e di vita, nel quale alcuni si credono soli o ignorati nei propri ambienti quotidiani. Invece no, non sono soli. Molti loro coetanei condividono i loro stessi propositi e, fidandosi completamente di Cristo, sanno che hanno realmente un futuro davanti a loro e non temono gli impegni decisivi che danno pienezza a tutta la vita” (68).
c. Perché il Papa alla GMG
Perché dunque il Papa è venuto a Madrid? Sono venuto, risponde Benedetto XVI, per “[…] aiutare i giovani discepoli di Gesù a rimanere saldi nella fede e ad assumere la meravigliosa avventura di annunciarla e testimoniarla apertamente con la propria vita” (69). Per proporre loro una testimonianza “[…] decisa e prudente al contempo, senza nascondere la propria identità cristiana, in un clima di rispettosa convivenza con altre legittime opzioni ed esigendo, nello stesso tempo, il dovuto rispetto per le proprie” (70). Per “[…] dire ai giovani, con tutta la forza del mio cuore: che niente e nessuno vi tolga la pace; non vergognatevi del Signore. Egli non ha avuto riserve nel farsi uno come noi e sperimentare le nostre angustie per portarle a Dio, e così ci ha salvato” (71). Per — ha aggiunto il Papa nel primo saluto ai partecipanti del 18 agosto a Plaza de Cibeles — incitare i giovani a cercare “[…] soprattutto la verità, che non è un’idea, un’ideologia o uno slogan, ma una Persona, il Cristo, Dio stesso venuto tra gli uomini” (72).
E nel discorso principale dello stesso 18 agosto, sempre in Plaza de Cibeles, il Pontefice ha aggiunto che “vi sono parole che servono solamente per intrattenere e passano come il vento; altre istruiscono la mente in alcuni aspetti; quelle di Gesù, invece, devono giungere al cuore, radicarsi in esso e forgiare tutta la vita. Senza ciò, rimangono vuote e divengono effimere. Esse non ci avvicinano a Lui. E, in tal modo, Cristo continua ad essere lontano, come una voce tra molte altre che ci circondano e alle quali ci siamo già abituati” (73). E “[…] quando non si cammina al fianco di Cristo, che ci guida, noi ci disperdiamo per altri sentieri, come quello dei nostri impulsi ciechi ed egoisti, quello delle proposte che lusingano, ma che sono interessate, ingannevoli e volubili, lasciano il vuoto e la frustrazione dietro di sé” (74). Chi invece capisce la differenza qualitativa delle parole di Gesù che risuonano nella GMG rispetto a ogni altra parola davvero, come insegna il Vangelo, “[…] costruisce sopra la roccia stabile, resistente agli attacchi delle avversità, contrariamente a chi edifica sulla sabbia, forse in un luogo paradisiaco, potremmo dire oggi, ma che si sgretola al primo soffio dei venti e si trasforma in rovina” (75).
d. Come usare bene la GMG
E ai giovani di Madrid il Papa ha proposto di approfittare “[…] di questi giorni per conoscere meglio Cristo e avere la certezza che, radicati in Lui, il vostro entusiasmo e la vostra allegria, i vostri desideri di andare oltre, di raggiungere ciò che è più elevato, fino a Dio, hanno sempre un futuro certo, perché la vita in pienezza dimora già nel vostro essere” (76). L’esperienza della GMG, allora, sarà davvero una “cascata di luce” che ciascun giovane partecipante porterà nel suo ambiente colpito dalla crisi e dal relativismo, una testimonianza che “[…] contribuirà a proiettare la luce di Cristo sui vostri coetanei e su tutta l’umanità, mostrando un’alternativa valida a tanti che si sono lasciati andare nella vita, perché le fondamenta della propria esistenza erano inconsistenti. A tanti che si accontentano di seguire le correnti di moda, si rifugiano nell’interesse immediato, dimenticando la giustizia vera, o si rifugiano nelle proprie opinioni invece di cercare la verità senza aggettivi” (77).
Se profitterete veramente della GMG, ha detto il Papa ai giovani nel primo incontro con loro, al ritorno da Madrid “[…] la vostra allegria contagerà gli altri. Si domanderanno quale sia il segreto della vostra vita e scopriranno che la roccia che sostiene tutto l’edificio e sopra la quale si appoggia tutta la vostra esistenza è la persona stessa di Cristo, vostro amico, fratello e Signore, il Figlio di Dio fatto uomo, che dà consistenza a tutto l’universo” (78).
Ma come faranno i giovani della GMG a trasformare un mondo che sembra inondato e sommerso dal relativismo? Nell’omelia della Messa del 21 agosto il Papa ha risposto — prendendo spunto dal Vangelo della domenica — che tutto si gioca sul tipo di rapporto che ciascun giovane riuscirà a stabilire con la verità fatta persona, Gesù Cristo. Si tratta allora, anzitutto, di non sbagliare immagine di Cristo: “Ma chi è Lui veramente?” (79). Nel capitolo 16 del Vangelo di Matteo “vediamo descritti due modi distinti di conoscere Cristo. Il primo consisterebbe in una conoscenza esterna, caratterizzata dall’opinione corrente […] [dove] si considera Cristo come un personaggio religioso in più di quelli già conosciuti” (80).
Il secondo modo di conoscenza invece “[…] va al di là dei semplici dati empirici o storici, ed è capace di cogliere il mistero della persona di Cristo nella sua profondità” (81). Possiamo chiamare questo modo di conoscere Cristo “fede” (82). “Però la fede non è frutto dello sforzo umano, della sua ragione, bensì è un dono di Dio: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne, né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”. Ha la sua origine nell’iniziativa di Dio, che ci rivela la sua intimità e ci invita a partecipare della sua stessa vita divina” (83).
Questo secondo modo di conoscere è davvero diverso dal primo. Chi dà credito all’opinione corrente considera Cristo non “la” verità ma “una” verità fra altre che sarebbero tutte più o meno sullo stesso piano, cioè rimane chiuso nella gabbia del relativismo. Da questa gabbia esce invece chi si persuade che “la fede non dà solo alcune informazioni sull’identità di Cristo, bensì suppone una relazione personale con Lui, l’adesione di tutta la persona, con la propria intelligenza, volontà e sentimenti alla manifestazione che Dio fa di se stesso” (84). Oggi è difficile superare il relativismo sulla base di un semplice processo intellettuale. “Così, la domanda “Ma voi, chi dite che io sia?” in fondo sta provocando i discepoli a prendere una decisione personale in relazione a Lui. Fede e sequela di Cristo sono in stretto rapporto. E, dato che suppone la sequela del Maestro, la fede deve consolidarsi e crescere, farsi più profonda e matura, nella misura in cui si intensifica e rafforza la relazione con Gesù, la intimità con Lui” (85).
Ai giovani della GMG il Papa ricorda che “[…] anche oggi Cristo si rivolge a voi con la stessa domanda che fece agli apostoli: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Rispondetegli con generosità e audacia, come corrisponde a un cuore giovane qual è il vostro. Ditegli: Gesù, io so che Tu sei il Figlio di Dio, che hai dato la tua vita per me. Voglio seguirti con fedeltà e lasciarmi guidare dalla tua parola. Tu mi conosci e mi ami. Io mi fido di te e metto la mia intera vita nelle tue mani. Voglio che Tu sia la forza che mi sostiene, la gioia che mai mi abbandona” (86).
Ancora, una generica adesione a Cristo non sarebbe sufficiente. Gesù stesso ha indicato il luogo dove, dopo l’Ascensione, è possibile incontrarlo nella storia. Questo luogo è la Chiesa. Non ce ne sono altri. “Nella sua risposta alla confessione di Pietro, Gesù parla della Chiesa: “E io a te dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”” (87). Anche la risposta esatta alla domanda su che cosa sia la Chiesa è decisiva, per non ricadere nel relativismo, per cui la Chiesa sarebbe solo una fra tante istituzioni ugualmente autorevoli — o ugualmente poco autorevoli. Ma “[…] la Chiesa non è una semplice istituzione umana, come qualsiasi altra, ma è strettamente unita a Dio. Lo stesso Cristo si riferisce ad essa come alla “sua” Chiesa. Non è possibile separare Cristo dalla Chiesa, come non si può separare la testa dal corpo (cfr 1 Cor 12,12). La Chiesa non vive di se stessa, bensì del Signore. Egli è presente in mezzo ad essa, e le dà vita, alimento e forza” (88). E la vera Chiesa si trova dove c’è il “Successore di Pietro” (89), dove c’è la catena ininterrotta della “fede che ci è stata trasmessa dagli Apostoli” (90).
Dunque “[…] seguire Gesù nella fede è camminare con Lui nella comunione della Chiesa. Non si può seguire Gesù da soli. Chi cede alla tentazione di andare “per conto suo” o di vivere la fede secondo la mentalità individualista, che predomina nella società, corre il rischio di non incontrare mai Gesù Cristo, o di finire seguendo un’immagine falsa di Lui” (91). E l’amore alla Chiesa si dimostra nella “partecipazione all’Eucarestia di ogni domenica, il frequente accostarsi al sacramento della riconciliazione — cui il Papa ha voluto esortare anche confessando personalmente alcuni giovani, estratti a sorte fra i tantissimi partecipanti — e il coltivare la preghiera e la meditazione della Parola di Dio” (92).
Dalla fede vissuta nella Chiesa nascono la testimonianza e la missione, che sono per tutti e sono indispensabili. “Da questa amicizia con Gesù nascerà anche la spinta che conduce a dare testimonianza della fede negli ambienti più diversi, incluso dove vi è rifiuto o indifferenza. Non è possibile incontrare Cristo e non farlo conoscere agli altri. Quindi, non conservate Cristo per voi stessi! Comunicate agli altri la gioia della vostra fede. Il mondo ha bisogno della testimonianza della vostra fede, ha bisogno certamente di Dio” (93). Nonostante tutto, vi è ancora “una moltitudine di giovani che aspirano a cose più grandi e, scorgendo nei propri cuori la possibilità di valori più autentici, non si lasciano sedurre dalle false promesse di uno stile di vita senza Dio” (94).
e. Il dopo GMG
Come tutte le belle cose, anche la GMG è finita. Porterà frutto se i milioni di giovani che sono stati a Madrid sapranno trovare il coraggio — davvero rompendo la cappa della dittatura del relativismo — di continuare a vivere come se la GMG fosse ancora in corso e di parlarne ai loro amici rimasti a casa. Ai volontari, così decisivi per la riuscita della GMG, il Papa ha detto: “Nel tornare ora alla vostra vita ordinaria, vi incoraggio a conservare nel vostro cuore questa gioiosa esperienza e a crescere ogni giorno di più nel dono di voi stessi a Dio e agli uomini. È possibile che in molti di voi si sia manifestata timida o con forza una domanda molto semplice: Che cosa vuole Dio da me? Qual è il suo disegno sulla mia vita? Cristo mi chiama a seguirlo più da vicino? Non potrei spendere tutta la mia vita nella missione di annunciare al mondo la grandezza del suo amore attraverso il sacerdozio, la vita consacrata o il matrimonio? Se è sorta questa inquietudine, lasciatevi guidare dal Signore e offritevi volontariamente al servizio di Colui che “non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). La vostra vita raggiungerà una pienezza insospettata. Forse qualcuno sta pensando: il Papa è venuto a ringraziarci e ora sta chiedendo. Sì, è così. Questa è la missione del Papa, Successore di Pietro” (95).
Lasciando la Spagna, all’aeroporto di Madrid, il Pontefice si è rivolto ancora ai giovani, invitandoli “[…] adesso a diffondere in ogni angolo del mondo la gioiosa e profonda esperienza di fede vissuta in questo nobile Paese. Trasmettete la vostra gioia specialmente a coloro che avrebbero voluto venire ma non hanno potuto farlo per diversi motivi, a quanti hanno pregato per voi e a coloro ai quali la celebrazione della Giornata ha toccato il cuore. Con la vostra vicinanza e testimonianza, aiutate i vostri amici e compagni a scoprire che amare Cristo è vivere in pienezza” (96).
E a tutti i partecipanti a queste indimenticabili giornate, “cari amici — ha detto Papa Benedetto XVI nell’Angelus del 21 agosto, congedandosi dall’immenso popolo della GMG, che è stato con la sua presenza una smentita vivente a tanti luoghi comuni sulla presunta lontananza dei giovani dalla Chiesa e dal Pontefice —, ora ritornerete nei vostri luoghi di dimora abituale. I vostri amici vorranno sapere che cosa è cambiato in voi dopo essere stati in questa nobile Città con il Papa e centinaia di migliaia di giovani di tutto il mondo: che cosa direte loro? Vi invito a dare un’audace testimonianza di vita cristiana davanti agli altri. Così sarete lievito di nuovi cristiani e farete sì che la Chiesa riemerga con vigore nel cuore di molti” (97).
La XXVI GMG non è finita. È cominciata quando i giovani sono ripartiti da Madrid e sono tornati a casa, portando con sé l’invito del Papa ad annunciare la verità ai loro coetanei.
II. La verità fondamento della politica, dell’ecumenismo e della missione: Papa Benedetto XVI in Germania
Nel suo viaggio apostolico e visita di Stato in Germania del 22-25 settembre 2011 Papa Benedetto XVI ha proposto un’analisi impietosa dei mali di una “società senza Dio” (98) e ha indicato nell’apertura alla verità e al diritto naturale i soli possibili fondamenti di una società veramente civile, di un dialogo interreligioso ed ecumenico che non degeneri nel relativismo e di un rinnovato slancio missionario che si rivolga non solo alle coscienze individuali ma anche alla società e alle istituzioni. I tre temi — il fondamento della società e del diritto, il dialogo con le altre comunità e religioni e le consegne ai cattolici per una nuova missione — hanno caratterizzato rispettivamente la prima, la seconda e la terza e quarta giornata del viaggio pontificio, il che ne giustifica una presentazione almeno parzialmente cronologica.
1. Il diritto naturale, fondamento della politica
La diagnosi è stata ripetuta fin dalla cerimonia di benvenuto del 22 settembre al Castello di Bellevue a Berlino: “Nei confronti della religione — ha detto il Papa — vediamo una crescente indifferenza nella società che, nelle sue decisioni, ritiene la questione della verità piuttosto come un ostacolo, e dà invece la priorità alle considerazioni utilitaristiche” (99). Ma — ha aggiunto subito — senza una base comune forte la società si disfa: “[…] c’è bisogno di una base vincolante per la nostra convivenza, altrimenti ognuno vive solo seguendo il proprio individualismo. La religione è uno di questi fondamenti per una convivenza riuscita. “Come la religione ha bisogno della libertà, così anche la libertà ha bisogno della religione”. Queste parole del grande vescovo e riformatore sociale Wilhelm von Ketteler [(1811-1877) uno dei maestri della dottrina sociale della Chiesa nel secolo XIX], di cui si celebra quest’anno il secondo centenario della nascita, sono ancora attuali” (100). Infatti, “la libertà ha bisogno di un legame originario ad un’istanza superiore. Il fatto che ci sono valori che non sono assolutamente manipolabili è la vera garanzia della nostra libertà. Chi si sente obbligato al vero e al bene, subito sarà d’accordo con questo: la libertà si sviluppa solo nella responsabilità di fronte a un bene maggiore” (101).
Il riferimento a von Ketteler — il cui pensiero ha anche contribuito alla formulazione, che il Papa ha voluto ricordare, di quel “[…] principio di sussidiarietà [per cui] la società deve dare spazio sufficiente alle strutture più piccole per il loro sviluppo e, allo stesso tempo, deve essere di supporto, in modo che esse, un giorno, possano reggersi anche da sole” (102) — ha introdotto la giornata di Benedetto XVI, che ha avuto al suo centro il discorso al Parlamento Federale di Berlino e dunque il riferimento alla politica. Il fondamento della politica e del diritto è stato il tema di questo discorso, senz’altro destinato a prendere posto fra i più importanti del pontificato.
Il Papa ha cominciato “[…] con una piccola narrazione tratta dalla Sacra Scrittura. Nel Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento importante? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli chiede. Domanda invece: “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1Re 3,9). Con questo racconto la Bibbia vuole indicarci che cosa, in definitiva, deve essere importante per un politico” (103): “[…] il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto” (104). Se la politica non è capace di distinguere il bene dal male, si “[…] può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia. “Togli il diritto — e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino [354-430]“ (105).
Il Pontefice ha utilizzato senza reticenze — in Germania e a Berlino — l’esempio del nazionalsocialismo per mostrare che una politica che rifiuta di distinguere il bene da male e di fondarsi su un’istanza superiore della giustizia conduce alla catastrofe e all’ignominia. “Noi tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto — era diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio” (106).
Nel suo incontro con i rappresentanti della comunità ebraica, Papa Benedetto XVI — oltre a ribadire che il cammino di dialogo fra cattolici ed ebrei, definito nel suo contesto e nei suoi termini dal Concilio Ecumenico Vaticano II, è “irrevocabile” (107) — ha voluto “[…] richiamare alla memoria il pogrom della “notte dei cristalli” dal 9 al 10 novembre 1938. Pochi percepirono tutta la portata di tale atto di umano disprezzo come lo percepì il prevosto del Duomo di Berlino, [il beato] Bernhard Lichtenberg [1875-1943], che, dal pulpito della cattedrale di Sant’Edvige, gridò: “Fuori il Tempio è in fiamme — è anch’esso una casa di Dio”” (108). “Il regime di terrore del nazionalsocialismo — ha commentato il Pontefice — si fondava su un mito razzista, di cui faceva parte il rifiuto del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, del Dio di Gesù Cristo e delle persone credenti in Lui. L’”onnipotente” Adolf Hitler [1889-1945] era un idolo pagano, che voleva porsi come sostituto del Dio biblico, Creatore e Padre di tutti gli uomini” (109). Le conseguenze di questa idolatria non riguardano solo Hitler, ma la politica e la storia dell’Europa in genere. “Con il rifiuto del rispetto per questo Dio unico si perde sempre anche il rispetto per la dignità dell’uomo. Di che cosa sia capace l’uomo che rifiuta Dio e quale volto possa assumere un popolo nel “no” a tale Dio, l’hanno rivelato le orribili immagini provenienti dai campi di concentramento alla fine della guerra” (110).
Tornando al memorabile discorso al Parlamento Federale, il Pontefice ha ricordato che dopo il nazionalsocialismo i tedeschi si posero con particolare inquietudine la questione di quali leggi fossero giuste e dovessero essere obbedite. Non basta che una legge sia scritta nei codici — le leggi naziste lo erano — perché possa essere considerata giusta. Ma la questione è viva ancora oggi: “Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo distinguere tra il bene e il male, tra il vero diritto e il diritto solo apparente?” (111). Si potrebbe rispondere: è giusta la legge che ha ricevuto i voti della maggioranza dei parlamentari. Ma — non dimenticando che lo stesso Hitler andò originariamente al potere tramite regolari elezioni — Papa Benedetto XVI ribadisce che il voto di una maggioranza in Parlamento non può essere il criterio ultimo che garantisce la giustizia. “In gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta: nel processo di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento” (112).
Che le leggi di Hitler fossero ingiuste oggi è evidente a molti. “Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente. Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé” (113). Un tempo, la risposta prevalente è che giusta era la legge umana che non contraddiceva la legge di Dio. “Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto” (114).
Ma attenzione: il cristianesimo non ha mai inteso la legge divina come l’islam intende la shari’a, cioè come un diritto rivelato che il diritto dello Stato deve semplicemente riprodurre. Senza citare per nome l’islam — ma il riferimento implicito è evidente —, il Pontefice ha ricordato che “contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto” (115), attingendo alla tradizione filosofica greca e al diritto romano. Da questo incontro — che era già stato al centro del famoso discorso tenuto da Papa Benedetto XVI a Ratisbona il 12 settembre 2006 (116) — “[…] è nata la cultura giuridica occidentale, che è stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la cultura giuridica dell’umanità” (117). L’Occidente nasce dalla scelta del cristianesimo di non proporre o imporre un “diritto religioso” (118) ma di mettersi “dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione” (119).
Grazie a questa scelta, almeno fino ai primi decenni del secolo XX la maggioranza della cultura occidentale ha risposto alla domanda su quale legge sia giusta che giusta è la legge conforme al diritto naturale, un diritto che può essere riconosciuto dalla ragione a prescindere dalla fede religiosa di ciascuno. Ma, ha detto il Papa, “[…] nell’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della situazione. L’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine” (120). Com’è stato possibile ciò? Il Papa ne ha attribuito la responsabilità al positivismo giuridico, di cui è stato principale teorico Hans Kelsen (1881-1973), e alla sua “[…] tesi secondo cui tra l’essere e il dover essere ci sarebbe un abisso insormontabile. Dall’essere non potrebbe derivare un dovere, perché si tratterebbe di due ambiti assolutamente diversi” (121).
Intendiamoci, ha detto il Papa: la nozione positivista della natura e della ragione — “[…] che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la spiegano” (122) e afferma che “[…] ciò che non è verificabile o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto” (123) — ha contribuito al progresso delle scienze e delle tecniche. In questo senso il Pontefice ha affermato, aprendo un dialogo con chi ha una certa visione della scienza, che “il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana” (124). Ma è una visione che ha un problema: implica che “[…] l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del soggettivo e cadono fuori dall’ambito della ragione nel senso stretto della parola. Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista — e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica — le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco. Questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica” (125). Per quanto abbia contribuito allo sviluppo scientifico, quella positivista “[…] nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità. Lo dico proprio in vista dell’Europa, in cui vasti ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento comune per la formazione del diritto, mentre tutte le altre convinzioni e gli altri valori della nostra cultura vengono ridotti allo stato di una sottocultura” (126).
Ma questa ragione positivista “[…] assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio” (127). Invece, ha spiegato il Pontefice, “bisogna tornare a spalancare le finestre” (128). Consapevole di avventurarsi su un terreno molto polemico in Germania, Papa Benedetto XVI ha affermato che “[…] la comparsa del movimento ecologico nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta, pur non avendo forse spalancato finestre, tuttavia è stata e rimane un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare, perché vi si intravede troppa irrazionalità” (129). Con tutti i suoi limiti, l’ecologismo tanto popolare in Germania è di per sé un’ammissione che — al di là del formalismo del positivismo giuridico — esiste una realtà, una natura di cui le leggi devono tener conto, mostrandosi come leggi ingiuste se non lo fanno.
Ma quando si parla di ecologia occorre subito “[…] affrontare con forza ancora un punto che oggi come ieri viene largamente trascurato: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli ascolta la natura, la rispetta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana” (130). Anche l’uomo ha una natura, su cui si fonda il diritto naturale, e anche la legge che non rispetta la natura dell’uomo è ingiusta.
Citando ancora “il grande teorico del positivismo giuridico” (131), il Pontefice ha ricordato che “[…] Kelsen, all’età di 84 anni — nel 1965 — abbandonò il dualismo di essere e dover essere. Aveva detto che le norme possono derivare solo dalla volontà. Di conseguenza, la natura potrebbe racchiudere in sé delle norme solo se una volontà avesse messo in essa queste norme. Ciò, d’altra parte, presupporrebbe un Dio creatore, la cui volontà si è inserita nella natura. “Discutere sulla verità di questa fede è una cosa assolutamente vana”, egli nota a proposito. Lo è veramente? — vorrei domandare. È veramente privo di senso riflettere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un Creator Spiritus?” (132).
Un non credente potrebbe rispondere che sì, parlare di Dio è privo di senso. Ma anche lui, ha affermato Papa Benedetto XVI, dovrebbe prendere in esame “[…] il patrimonio culturale dell’Europa. Sulla base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire. Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe della sua interezza” (133). “La cultura dell’Europa — ha aggiunto il Pontefice tornando a una sorta di sintesi del discorso di Ratisbona del 2006 — è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma — dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa” (134).
Ma che ne è dei cattolici? Nella Messa all’Olympiastadion di Berlino il Pontefice si è mostrato consapevole del fatto che molti, anziché testimoniare per la Chiesa di fronte al relativismo, la contestano o in vari modi la feriscono dall’interno. “Nella parabola della vite, Gesù non dice: “Voi siete la vite”, ma: “Io sono la vite, voi i tralci” (Gv 15,5)” (135). Questa è la vera natura della Chiesa. “Alcuni guardano la Chiesa fermandosi al suo aspetto esteriore. Allora la Chiesa appare solo come una delle tante organizzazioni in una società democratica, secondo le cui norme e leggi, poi, deve essere giudicata e trattata anche una figura così difficile da comprendere come la “Chiesa”” (136).
Se qualcuno considera la Chiesa un’organizzazione puramente umana, una qualunque associazione, allora “l’esperienza dolorosa che nella Chiesa ci sono pesci buoni e cattivi, grano e zizzania” (137) rischia d’indurre ad abbandonarla. È un tema che, con riferimento allo scandalo dei preti pedofili, Papa Benedetto XVI aveva anticipato ai giornalisti nel volo aereo verso Berlino. Parlando dei tedeschi che a causa dello scandalo hanno lasciato la Chiesa Cattolica ha detto: “Io posso capire che, alla luce di tali informazioni, soprattutto se si tratta di persone vicine, uno dice: “Questa non è più la mia Chiesa. La Chiesa era per me forza di umanizzazione e di moralizzazione. Se rappresentanti della Chiesa fanno il contrario, non posso più vivere con questa Chiesa”. Questa è una situazione specifica. Generalmente le motivazioni sono molteplici, nel contesto della secolarizzazione della nostra società. E queste uscite, di solito, sono l’ultimo passo di una lunga catena di allontanamento dalla Chiesa. In questo contesto, mi sembra importante domandarsi, riflettere: “Perché sono nella Chiesa? Sono nella Chiesa come in un’associazione sportiva, un’associazione culturale ecc., dove ho i miei interessi e, se non trovano più risposta, esco; o essere nella Chiesa è una cosa più profonda?”. Io direi, sarebbe importante sapere che essere nella Chiesa non è essere in qualche associazione, ma essere nella rete del Signore, nella quale Egli tira fuori pesci buoni e cattivi dalle acque della morte alla terra della vita. Può darsi che in questa rete sono proprio accanto a pesci cattivi e sento questo, ma rimane vero che io non ci sono per questi o per questi altri, ma perché è la rete del Signore; è una cosa diversa da tutte le associazioni umane, una realtà che tocca il fondamento del mio essere” (138).
È perché non si comprende questo — ha aggiunto il Papa nell’omelia all’Olympiastadion — che, anche al di là del caso specifico della pedofilia, “insoddisfazione e malcontento vanno diffondendosi, se non si vedono realizzate le proprie idee superficiali ed erronee di “Chiesa” e i propri “sogni di Chiesa”” (139). S’insegue il tempo presente, senza accorgersi che è un “[…] tempo di inquietudine e di qualunquismo, in cui così tanta gente perde l’orientamento e il sostegno; in cui la fedeltà dell’amore nel matrimonio e nell’amicizia è diventata così fragile e di breve durata” (140).
Ai cattolici il Papa è venuto a ricordare che “rimanere in Cristo significa […] rimanere anche nella Chiesa” (141). “La Chiesa come “la pienezza e il completamento del Redentore” ([venerabile] Pio XII [1939-1958], Mystici corporis, AAS 35 [1943] p. 230: “plenitudo et complementum Redemptoris“) è per noi pegno della vita divina e mediatrice dei frutti di cui parla la parabola della vite. La Chiesa è il dono più bello di Dio. Pertanto, dice anche S. Agostino: “Ognuno possiede lo Spirito Santo nella misura in cui ama la Chiesa di Cristo” (In Ioan. Ev. tract. 32, 8 [PL 35, 1646])” (142). Il Pontefice è venuto in Germania a ricordare che “[…] Dio non vuole ciò che è arido, morto, artificiale, che alla fine è gettato via, ma vuole le cose feconde e vive, la vita in abbondanza” (143). Ma questo annuncio può essere efficace solo se è proclamato “con la Chiesa e nella Chiesa” (144).
2. La verità, fondamento dell’ecumenismo
La seconda giornata del viaggio in Germania di Papa Benedetto XVI, venerdì 23 settembre, è stata dedicata al dialogo ecumenico e interreligioso. In modo simbolicamente significativo, la stessa giornata si è conclusa con un omaggio alla Madonna, i vespri mariani nella Wallfahrtskapelle di Etzelsbach, testimonianza delle radici mariane cui la Chiesa non vuole e non può rinunciare. In questa occasione il Papa ha fatto cenno a due temi impegnativi, relativamente poco consueti nel Magistero pontificio. Il primo è la devozione al Cuore Immacolato di Maria e il suo legame profondo con quella al Sacro Cuore di Gesù. Il Pontefice ha parlato del “[…] Cuore immacolato di Maria come simbolo dell’unità profonda e senza riserve con Cristo nell’amore. Non è l’autorealizzazione, il voler possedere e costruire se stessi, a compiere il vero sviluppo della persona, cosa che oggi viene proposta come modello della vita moderna, ma che facilmente si muta in una forma di egoismo raffinato. È piuttosto l’atteggiamento del dono di sé, la rinuncia a se stessi, che si orienta verso il cuore di Maria e con ciò anche verso il cuore di Cristo, come pure verso il prossimo, e solo in questo modo ci fa trovare noi stessi” (145). Il secondo è il tema della mediazione universale: sul Calvario, il Signore “[…] rende Maria in certo modo mediatrice del flusso di grazia che deriva dalla Croce” (146), così che “quando i cristiani in tutti i tempi e in tutti i luoghi si rivolgono a Maria, si fanno guidare dalla certezza spontanea che Gesù non può rifiutare le richieste che gli presenta sua Madre” (147). Insieme all’esplicita rivendicazione dell’importanza storica e spirituale dell’“immagine miracolosa di Etzelsbach” (148), questi spunti che fanno da sigillo alla giornata del Papa dedicata all’ecumenismo e al dialogo non sono certo secondari.
Quanto al dialogo, il contesto è sempre quello di una società dove Dio è diventato per molti irrilevante. Che senso ha che le religioni, in un simile contesto, dialoghino fra loro? Papa Benedetto XVI ha sottolineato tre diversi aspetti. Anzitutto — ha detto nella celebrazione ecumenica nella cappella dell’ex-convento degli Agostiniani di Erfurt — i credenti possono rispondere insieme alla domanda: “L’uomo ha bisogno di Dio, oppure le cose vanno abbastanza bene anche senza di Lui? Quando, in una prima fase dell’assenza di Dio, la sua luce continua ancora a mandare i suoi riflessi e tiene insieme l’ordine dell’esistenza umana, si ha l’impressione che le cose funzionino anche senza Dio. Ma quanto più il mondo si allontana da Dio, tanto più diventa chiaro che l’uomo, nell’hybris del potere, nel vuoto del cuore e nella brama di soddisfazione e di felicità, “perde” sempre di più la vita. La sete di infinito è presente nell’uomo in modo inestirpabile. L’uomo è stato creato per la relazione con Dio e ha bisogno di Lui” (149).
A Berlino, il Papa ha incontrato i rappresentanti musulmani. Il Pontefice ha riconosciuto che “molti musulmani attribuiscono grande importanza alla dimensione religiosa. Ciò, a volte, è interpretato come una provocazione in una società che tende ad emarginare questo aspetto o ad ammetterlo tutt’al più nella sfera delle scelte individuali dei singoli” (150). Questa testimonianza pubblica dell’importanza della religione in una società secolarizzata che danno i musulmani è positiva. “La Chiesa cattolica si impegna fermamente perché venga dato il giusto riconoscimento alla dimensione pubblica dell’appartenenza religiosa. Si tratta di un’esigenza che non diventa irrilevante nel contesto di una società maggiormente pluralista” (151). E tuttavia non tutto quello che si presenta come dimensione pubblica della religione è accettabile. “Va fatta, però, attenzione che il rispetto verso l’altro sia sempre mantenuto” (152).
In secondo luogo, le religioni possono e devono testimoniare insieme per i valori del diritto naturale, oggetto della magnifica lezione al Parlamento Federale, che in quanto fondati sulla natura e riconosciuti dalla ragione non sono né cattolici né protestanti né musulmani, ma sono per tutti e s’impongono a tutti. Riprendendo ancora una volta il tema centrale del discorso di Ratisbona del 2006, Papa Benedetto XVI ha ripetuto ai musulmani che — fra religioni che professano credenze evidentemente inconciliabili sul piano teologico — il dialogo più urgente è quello sulla ragione, sul diritto naturale, sui valori comuni che non derivano dalle rispettive Sacre Scritture ma dalla natura umana. “Il rispetto reciproco cresce solo sulla base dell’intesa su alcuni valori inalienabili, propri della natura umana, soprattutto l’inviolabile dignità di ogni persona. Tale intesa non limita l’espressione delle singole religioni; al contrario, permette a ciascuno di testimoniare in modo propositivo ciò in cui crede, non sottraendosi al confronto con l’altro” (153).
In Germania, ha ricordato il Pontefice, “[…] tale quadro di riferimento comune è rappresentato dalla Costituzione, il cui contenuto giuridico è vincolante per ogni cittadino, che sia appartenente o meno ad una confessione religiosa.
“Naturalmente il dibattito sulla migliore formulazione di principi come la libertà di culto pubblico è vasto e sempre aperto, tuttavia è significativo il fatto che la Legge Fondamentale li esprima in un modo ancora oggi valido, a distanza di più di 60 anni (cfr art. 4, 2). In essa troviamo espresso prima di tutto quell’ethos comune che è alla base della convivenza civile e che in qualche modo segna anche le regole apparentemente solo formali del funzionamento degli organi istituzionali e della vita democratica” (154).
Qualcuno potrebbe chiedersi, a proposito della Costituzione, “[…] come possa un tale testo, elaborato in un’epoca storica radicalmente diversa, in una situazione culturale quasi uniformemente cristiana, essere adatto alla Germania di oggi, che vive nel contesto di un mondo globalizzato ed è segnata da un notevole pluralismo in materia di convinzioni religiose” (155). La risposta è che, elaborata in gran parte da cristiani, la Costituzione volle porsi sul terreno comune — ai cattolici, ai protestanti, agli ebrei, ai non credenti e oggi anche ai musulmani — di valori e di princìpi che la ragione può riconoscere come naturali e inalienabili. “La ragione di ciò, mi pare — ha detto il Papa —, si trova nel fatto che i padri della Legge Fondamentale ebbero la piena consapevolezza, in quel momento importante, di dover cercare un solido terreno, nel quale tutti i cittadini potessero riconoscersi. Nel fare ciò essi non prescindevano dalla propria appartenenza religiosa; per molti di loro, anzi, la visione cristiana dell’uomo era la vera forza ispiratrice. Tuttavia sapevano di doversi confrontare con uomini con una base confessionale diversa o addirittura non religiosa: il terreno comune fu trovato nel riconoscimento di alcuni diritti inalienabili, che sono propri della natura umana e che precedono ogni formulazione positiva” (156).
Il Papa ha così ribadito ai musulmani la nozione esposta nel memorabile discorso al Parlamento Federale: è la legge naturale “[…] il fondamento che oggi riconosciamo valido per un mondo segnato dal pluralismo. Fondamento che, in realtà, indica anche degli evidenti confini a tale pluralismo: non è pensabile, infatti, che una società possa sostenersi nel lungo termine senza un consenso sui valori etici fondamentali” (157).
Di conseguenza, il Papa ha richiamato i musulmani a una testimonianza comune — che ciascuno dà animato dalla sua fede, diversa per il cristiano e per il musulmano, ma consapevole di proporre qualcosa che, in quanto riconoscibile dalla ragione, vale per tutti — proprio per i valori della legge naturale, oltre che per la rilevanza pubblica della religione. “In quanto uomini religiosi, a partire dalle rispettive convinzioni possiamo dare una testimonianza importante in molti settori cruciali della vita sociale. Penso, ad esempio, alla tutela della famiglia fondata sul matrimonio, al rispetto della vita in ogni fase del suo naturale decorso o alla promozione di una più ampia giustizia sociale” (158). Così, il Papa ha anticipato anche l’agenda per l’incontro di Assisi del successivo mese di ottobre 2011: “[…] per questo ritengo importante celebrare una Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia del mondo; e vogliamo fare questo il prossimo 27 ottobre, a 25 anni dallo storico incontro di Assisi guidato dal mio Predecessore, il Beato Giovanni Paolo II [1978-2005]“ (159).
Anche ai protestanti, fra le cui file — è inutile negarlo — si levano voci favorevoli all’aborto, all’eutanasia o al matrimonio fra omosessuali, il Papa ha chiesto di collaborare alla testimonianza comune che le persone di fede offrono al mondo per i princìpi non negoziabili del diritto naturale. Nella cappella dell’ex-convento di Erfurt, Benedetto XVI ha ricordato che l’impegno per Dio non può non tradursi “[…] nell’impegno per quella creatura che Egli volle a sua immagine, per l’uomo. Viviamo in un tempo in cui i criteri dell’essere uomini sono diventati incerti. L’etica viene sostituita con il calcolo delle conseguenze. Di fronte a ciò noi come cristiani dobbiamo difendere la dignità inviolabile dell’uomo, dal concepimento fino alla morte — nelle questioni della diagnosi pre-impiantatoria fino all’eutanasia” (160). E questo non riguarda solo la vita privata ma la politica e le leggi: deve attuarsi non solo nelle Chiese ma “nella comunità di un popolo e di uno Stato” (161).
C’è un terzo aspetto. Oltre all’importanza della religione — in una società dove molti la giudicano irrilevante — e ai valori del diritto naturale, che la Chiesa Cattolica testimonia insieme a uomini di qualunque fede, la testimonianza comune con i protestanti — almeno con quelli che mantengono la fede dei loro padri — include molto di più. Cattolici e protestanti possono proclamare insieme non solo che Dio c’è, ma che la Sacra Scrittura è la sua Parola e che Gesù Cristo è Dio. Possono anche condividere — ha voluto aggiungere il Pontefice —, se non tutte le risposte, almeno le domande drammatiche che Martin Lutero (1483-1546) si pose all’alba dell’epoca moderna.
Da anni raffinato studioso di Lutero, Papa Benedetto XVI ha definito “momento di profonda emozione” (162) la sua visita all’ex-convento agostiniano di Erfurt, dove ha incontrato i rappresentanti dei luterani tedeschi. “Qui Lutero ha studiato teologia. Qui è stato ordinato sacerdote nel 1507. Contro il desiderio del padre, egli non continuò gli studi di giurisprudenza, ma studiò teologia e si incamminò verso il sacerdozio nell’Ordine di sant’Agostino” (163). L’esperienza di Lutero, già moderna e insieme di reazione alla modernità che nasce, si presenta come un insieme di domande pressanti. “In questo cammino non gli interessava questo o quello. Ciò che non gli dava pace era la questione su Dio, che fu la passione profonda e la molla della sua vita e dell’intero suo cammino. “Come posso avere un Dio misericordioso?”: questa domanda gli penetrava nel cuore e stava dietro ogni sua ricerca teologica e ogni lotta interiore” (164). Per Lutero “la teologia non era una questione accademica, ma la lotta interiore con se stesso, e questo, poi, era una lotta riguardo a Dio e con Dio” (165).
Le domande di Lutero — che naturalmente non erano nuove, ma che acquisivano un tono nuovo in una cultura dominata dall’Umanesimo e dal Rinascimento, che erano penetrati anche nella Chiesa e tendevano a esaltare la grandezza dell’uomo mettendo fra parentesi la nozione di peccato — sarebbero di grande attualità ancora oggi, ma il nuovo ateismo dell’indifferenza, che contagia anche tanti cristiani tiepidi, va oltre senza nemmeno più porsele. “”Come posso avere un Dio misericordioso?”. Che questa domanda sia stata la forza motrice di tutto il suo cammino mi colpisce sempre nuovamente. Chi, infatti, si preoccupa oggi di questo, anche tra i cristiani? Che cosa significa la questione su Dio nella nostra vita? Nel nostro annuncio? La maggior parte della gente, anche dei cristiani, oggi dà per scontato che Dio, in ultima analisi, non si interessa dei nostri peccati e delle nostre virtù. Egli sa, appunto, che tutti siamo soltanto carne. Se oggi si crede ancora in un al di là e in un giudizio di Dio, allora quasi tutti presupponiamo in pratica che Dio debba essere generoso e, alla fine, nella sua misericordia, ignorerà le nostre piccole mancanze” (166).
Invece, la questione del peccato che tormentava Lutero non ha smesso di essere molto seria, anche se i peccati sono in parte cambiati. “Ma sono veramente così piccole le nostre mancanze? Non viene forse devastato il mondo a causa della corruzione dei grandi, ma anche dei piccoli, che pensano soltanto al proprio tornaconto? Non viene forse devastato a causa del potere della droga, che vive, da una parte, della brama di vita e di denaro e, dall’altra, dell’avidità di piacere delle persone dedite ad essa? Non è forse minacciato dalla crescente disposizione alla violenza che, non di rado, si maschera con l’apparenza della religiosità? La fame e la povertà potrebbero devastare a tal punto intere parti del mondo se in noi l’amore di Dio e, a partire da Lui, l’amore per il prossimo, per le creature di Dio, gli uomini, fosse più vivo? Le domande in questo senso potrebbero continuare. No, il male non è un’inezia” (167).
Sembra, anzi, che il male sia oggi dominante: ma “esso non potrebbe essere così potente se noi mettessimo Dio veramente al centro della nostra vita” (168). In questo senso è utile “l’incontro con Martin Lutero” (169): perché “la domanda: Qual è la posizione di Dio nei miei confronti, come mi trovo io davanti a Dio? — questa scottante domanda di Martin Lutero deve diventare di nuovo, e certamente in forma nuova, anche la nostra domanda” (170). Per quanto in forme diverse, Lutero e noi ci troviamo entrambi di fronte al contesto della modernità iniziata con l’Umanesimo.
La risposta di Lutero inizia in un senso che è comune a protestanti e cattolici. Di fronte alla modernità nascente Lutero ribadisce che “Dio, l’unico Dio, il Creatore del cielo e della terra, è qualcosa di diverso da un’ipotesi filosofica sull’origine del cosmo. Questo Dio ha un volto e ci ha parlato. Nell’uomo Gesù Cristo è diventato uno di noi — insieme vero Dio e vero uomo. Il pensiero di Lutero, l’intera sua spiritualità era del tutto cristocentrica: “Ciò che promuove la causa di Cristo” era per Lutero il criterio ermeneutico decisivo nell’interpretazione della Sacra Scrittura. Questo, però, presuppone che Cristo sia il centro della nostra spiritualità e che l’amore per Lui, il vivere insieme con Lui orienti la nostra vita” (171).
Naturalmente, il Pontefice non si nasconde che la risposta di Lutero non finisce qui. Né finisce qui la storia del protestantesimo. Da Lutero inizia un processo di allontanamento dalla Chiesa Cattolica che oggi si esprime in “due aspetti” (172) nuovi, che il riformatore tedesco non aveva previsto. Il primo è che le comunità protestanti storiche oggi sono minoritarie rispetto a un nuovo protestantesimo, di tipo principalmente pentecostale, i cui numeri — il Papa non ha citato statistiche precise ma il grande esperto di statistica religiosa scomparso il 4 agosto 2011, David Barrett (1927-2011), parlava di mezzo miliardo di credenti (173) — sono impressionanti. “Negli ultimi tempi – ha detto Benedetto XVI — la geografia del cristianesimo è profondamente cambiata e sta cambiando ulteriormente. Davanti ad una forma nuova di cristianesimo, che si diffonde con un immenso dinamismo missionario, a volte preoccupante nelle sue forme, le Chiese confessionali storiche restano spesso perplesse” (174). Il giudizio della Chiesa Cattolica su queste nuove forme è anch’esso perplesso, ma non è soltanto negativo. “È un cristianesimo di scarsa densità istituzionale, con poco bagaglio razionale e ancora meno bagaglio dogmatico e anche con poca stabilità. Questo fenomeno mondiale ci pone tutti davanti alla domanda: che cosa ha da dire a noi di positivo e di negativo questa nuova forma di cristianesimo?” (175).
Il secondo fenomeno nuovo, che non riguarda le nuove comunità pentecostali ma precisamente il protestantesimo storico, è il cedimento di molte comunità cristiane al secolarismo. Ci sono comunità protestanti che si schierano su posizioni antitetiche a quelle della Chiesa Cattolica sui temi della vita e della famiglia, spesso peraltro perdendo di conseguenza fedeli che passano alle nuove forme di tipo pentecostale. “Più profonda e nel nostro Paese più scottante — ha detto il Pontefice — è la seconda sfida per l’intera cristianità” (176), che riguarda la risposta da dare al “contesto del mondo secolarizzato” (177). Adattarsi al contesto significa annacquare la fede cristiana. “L’assenza di Dio nella nostra società si fa più pesante, la storia della sua rivelazione, di cui ci parla la Scrittura, sembra collocata in un passato che si allontana sempre di più. Occorre forse cedere alla pressione della secolarizzazione, diventare moderni mediante un annacquamento della fede? Naturalmente, la fede deve essere ripensata e soprattutto rivissuta oggi in modo nuovo per diventare una cosa che appartiene al presente. Ma non è l’annacquamento della fede che aiuta, bensì solo il viverla interamente nel nostro oggi” (178).
“Non saranno le tattiche a salvarci, a salvare il cristianesimo — ha ricordato in modo accorato il Papa ai dirigenti protestanti —, ma una fede ripensata e rivissuta in modo nuovo, mediante la quale Cristo, e con Lui il Dio vivente, entri in questo nostro mondo. Come i martiri dell’epoca nazista ci hanno condotti gli uni verso gli altri e hanno suscitato la prima grande apertura ecumenica, così anche oggi la fede, vissuta a partire dell’intimo di se stessi, in un mondo secolarizzato, è la forza ecumenica più forte che ci ricongiunge, guidandoci verso l’unità nell’unico Signore” (179).
Nella cappella dell’ex-convento di Erfurt, e in un contesto di preghiera, il Pontefice ha ripetuto che “la cosa più necessaria per l’ecumenismo è innanzitutto che, sotto la pressione della secolarizzazione, non perdiamo quasi inavvertitamente le grandi cose che abbiamo in comune, che di per sé ci rendono cristiani e che ci sono restate come dono e compito. È stato l’errore dell’età confessionale aver visto per lo più soltanto ciò che separa, e non aver percepito in modo esistenziale ciò che abbiamo in comune nelle grandi direttive della Sacra Scrittura e nelle professioni di fede del cristianesimo antico. È questo il grande progresso ecumenico degli ultimi decenni” (180). Ma di questa fede comune dobbiamo anche dire con franchezza che “[…] il pericolo di perderla, purtroppo, non è irreale” (181). Ci sono forme di “annacquamento” (182) che non permettono neppure più di riconoscere la fede cristiana come tale.
Il discorso del Pontefice ai protestanti è stato molto franco e ha coinvolto anche un certo cattolicesimo progressista che chiedeva al Papa un “dono ecumenico” (183) che segnalasse ai luterani che la Chiesa Cattolica era pronta ad andare incontro alle critiche di taluni di loro su materie come la possibilità di celebrare l’Eucarestia insieme a esponenti del protestantesimo, la bioetica, il celibato dei sacerdoti o l’ordinazione delle donne. “Alla vigilia della visita del Papa — ha detto Benedetto XVI — si è parlato diverse volte di un dono ecumenico dell’ospite, che ci si aspettava da questa visita. Non c’è bisogno che io specifichi i doni menzionati in tale contesto” (184). Il Pontefice ha risposto, senza giri di parole, “[…] che questo costituisce un fraintendimento politico della fede e dell’ecumenismo. Quando un Capo di Stato visita un Paese amico, generalmente precedono contatti tra le istanze, che preparano la stipulazione di uno o anche di più accordi tra i due Stati: nella ponderazione dei vantaggi e degli svantaggi si arriva al compromesso che, alla fine, appare vantaggioso per ambedue le parti, così che poi il trattato può essere firmato” (185). Immaginare così l’ecumenismo implica un completo fraintendimento della fede cristiana, che non è un’invenzione della Chiesa sottoposta a un continuo negoziato politico che tiene conto del contesto sociale, ma si fonda sull’insegnamento immutabile di Gesù Cristo. No, “[…] la fede dei cristiani non si basa su una ponderazione dei nostri vantaggi e svantaggi. Una fede autocostruita è priva di valore. La fede non è una cosa che noi escogitiamo o concordiamo. È il fondamento su cui viviamo. L’unità cresce non mediante la ponderazione di vantaggi e svantaggi, bensì solo attraverso un sempre più profondo penetrare nella fede mediante il pensiero e la vita” (186).
3. Il coraggio, fondamento della missione
Nelle ultime due giornate del suo viaggio in Germania — sabato 24 e domenica 25 settembre — Papa Benedetto XVI si è concentrato su come i cristiani possono, in concreto, rendere pubblica testimonianza alla verità e alla fede. Se giovedì 22 il Pontefice aveva richiamato la politica e le leggi al diritto naturale, evocando — come ha detto lasciando la Germania — “i fondamenti intellettuali dello Stato” (187), se venerdì 23 aveva messo in guardia il dialogo interreligioso ed ecumenico dalla tentazione di un “annacquamento” della verità nell’illusione di farsi accettare dal relativismo dominante, nel week-end conclusivo del suo viaggio si è chiesto che cosa possono fare i cristiani in una società “[…] in cui non poche persone vogliono, per così dire, “liberare” la vita pubblica da Dio” (188). Sono parole che il Papa ha rivolto ai rappresentanti delle Chiese Ortodosse, le più vicine — ha ricordato — in un cammino ecumenico che ha incoraggiato a percorrere anche riunendosi fra loro in un concilio pan-ortodosso. La testimonianza comune è necessaria perché l’ora è grave e cupa. Ai giovani, nella veglia di Friburgo, il Papa ha detto che “il mondo in cui viviamo, nonostante il progresso tecnico, in ultima analisi non diventa più buono. Esistono tuttora guerre, terrore, fame e malattia, povertà estrema e repressione senza pietà. E anche quelli che nella storia si sono ritenuti “portatori di luce”, senza però essere stati illuminati da Cristo, l’unica vera luce, non hanno realmente creato alcun paradiso terrestre, bensì hanno instaurato dittature e sistemi totalitari, in cui anche la più piccola scintilla di umanesimo è stata soffocata” (189).
A Erfurt il Pontefice ha ricordato quello che partendo dalla Germania ha poi definito il tempo in cui “[…] si è tentato per decenni di rimuovere la religione dalla vita delle persone” (190), cioè le due dittature patite dai tedeschi dell’Est, i quali hanno “[…] dovuto sopportare una dittatura “bruna” [nazista] e una “rossa” [comunista], che per la fede cristiana avevano l’effetto che ha la pioggia acida” (191). Grazie a Dio, questa pioggia è cessata. “Se in questa città torniamo indietro col pensiero al 1981 […], trent’anni fa, ai tempi della DDR — chi avrebbe immaginato che il muro e il filo spinato alle frontiere sarebbero caduti pochi anni dopo? E se andiamo ancora più indietro, di circa settant’anni fino al 1941, ai tempi del nazionalsocialismo — chi avrebbe potuto predire che il cosiddetto “Reich millenario” sarebbe stato ridotto in cenere già quattro anni dopo?” (192). Né bisogna dimenticare che “[…] i cambiamenti politici dell’anno 1989 nel vostro Paese non erano motivati soltanto dal desiderio di benessere e di libertà di movimento, ma, in modo decisivo, anche dal desiderio di veracità. Questo desiderio venne tenuto desto, fra l’altro, da persone che stavano totalmente al servizio di Dio e del prossimo ed erano disposte a sacrificare la propria vita” (193).
E tuttavia le conseguenze negative del comunismo non sono ancora scomparse oggi. “Tante conseguenze tardive di quel tempo sono ancora da smaltire, soprattutto nell’ambito intellettuale e religioso. La maggioranza della gente in questa terra vive ormai lontana dalla fede in Cristo e dalla comunione della Chiesa” (194). Mentre nell’epoca del comunismo “molti cattolici risoluti sono rimasti fedeli a Cristo e alla Chiesa proprio nella difficile situazione di un’oppressione esteriore” (195), “[…] hanno accettato svantaggi personali pur di vivere la propria fede” (196) e con coraggio “[…] hanno resistito all’ideologia comunista” (197), le nuove possibilità offerte dalla libertà, pure certamente positive, non hanno però necessariamente “portato anche a crescita nella fede” (198). “Non bisogna forse cercare le radici profonde della fede e della vita cristiana in ben altro che non nella libertà sociale?” (199).
Incontrando a Friburgo il Consiglio del Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi il Papa ha tratto un esempio dai programmi exposure che permettono a cattolici europei di andare a vivere per qualche tempo in un Paese del Terzo Mondo, sperimentandone i problemi dall’interno. “Immaginiamo che un tale programma exposure abbia luogo qui in Germania. Esperti provenienti da un Paese lontano verrebbero a vivere per una settimana presso una famiglia tedesca media. Qui ammirerebbero tante cose, ad esempio il benessere, l’ordine e l’efficienza. Ma, con uno sguardo non prevenuto, constaterebbero anche tanta povertà: povertà per quanto riguarda le relazioni umane e povertà nell’ambito religioso” (200).
Forse si renderebbero conto che “viviamo in un tempo caratterizzato, in gran parte, da un relativismo subliminale che penetra tutti gli ambiti della vita. A volte, questo relativismo diventa battagliero, rivolgendosi contro persone che affermano di sapere dove si trova la verità o il senso della vita. E notiamo come questo relativismo eserciti sempre di più un influsso sulle relazioni umane e sulla società” (201). Ne troviamo esempi “[…] nell’incostanza e nella discontinuità di tante persone e in un eccessivo individualismo. Qualcuno non sembra affatto capace di rinunciare a qualcosa o di fare un sacrificio per altri. Anche l’impegno altruistico per il bene comune, nei campi sociali e culturali, oppure per i bisognosi, sta diminuendo. Altri non sono più in grado di legarsi in modo incondizionato ad un partner. Quasi non si trova più il coraggio di promettere di essere fedele per tutta la vita; il coraggio di decidersi e di dire: io ora appartengo totalmente a te, oppure di impegnarsi con decisione per la fedeltà e la veracità, e di cercare con sincerità le soluzioni dei problemi” (202).
“A questo punto — ha detto ancora il Papa nella veglia di Friburgo con i giovani — non dobbiamo tacere il fatto che il male esiste. Lo vediamo, in tanti luoghi di questo mondo; ma lo vediamo anche — e questo ci spaventa — nella nostra stessa vita. Sì, nel nostro stesso cuore esistono l’inclinazione al male, l’egoismo, l’invidia, l’aggressività” (203).
Nell’omelia a Friburgo il Papa ha perfino fatto notare che “ci sono teologi che, di fronte a tutte le cose terribili che avvengono oggi nel mondo, dicono che Dio non possa essere affatto onnipotente. Di fronte a questo, noi professiamo Dio, l’Onnipotente, il Creatore del cielo e della terra. E noi siamo lieti e riconoscenti che Egli sia onnipotente. Ma dobbiamo, al contempo, renderci conto che Egli esercita il suo potere in maniera diversa da come noi uomini siamo soliti fare. Egli stesso ha posto un limite al suo potere, riconoscendo la libertà delle sue creature. Noi siamo lieti e riconoscenti per il dono della libertà. Tuttavia, quando vediamo le cose tremende, che a causa di essa avvengono, ci spaventiamo” (204).
Il male palese, che appare immediatamente come tale, ha detto il Papa ai giovani, “con una certa autodisciplina […] forse è, in qualche misura, controllabile. Ė più difficile, invece, con forme di male piuttosto nascosto, che possono avvolgerci come una nebbia indistinta, e sono la pigrizia, la lentezza nel volere e nel fare il bene. Ripetutamente nella storia, persone attente hanno fatto notare che il danno per la Chiesa non viene dai suoi avversari, ma dai cristiani tiepidi” (205).
Al Consiglio del Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi il Pontefice ha fatto notare che questi cristiani tiepidi s’incontrano anche nella Chiesa Cattolica tedesca, che pure sembra tanto vigorosa dal punto di vista organizzativo. In Germania “tante persone sono carenti dell’esperienza della bontà di Dio. Non trovano alcun punto di contatto con le Chiese istituzionali e le loro strutture tradizionali. Ma perché?” (206). “In Germania la Chiesa è organizzata in modo ottimo. Ma, dietro le strutture, vi si trova anche la relativa forza spirituale, la forza della fede in un Dio vivente? Sinceramente dobbiamo però dire che c’è un’eccedenza delle strutture rispetto allo Spirito. Aggiungo: la vera crisi della Chiesa nel mondo occidentale è una crisi di fede. Se non arriveremo ad un vero rinnovamento nella fede, tutta la riforma strutturale resterà inefficace” (207).
Nella Messa della domenica a Friburgo Papa Benedetto XVI ha commentato un Vangelo dove “[…] il Signore conclude la sua parabola con parole drastiche: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio […]“. Tradotta nel linguaggio del tempo, l’affermazione potrebbe suonare più o meno così: agnostici, che a motivo della questione su Dio non trovano pace; persone che soffrono a causa dei loro peccati e hanno desiderio di un cuore puro, sono più vicini al Regno di Dio di quanto lo siano i fedeli “di routine”, che nella Chiesa vedono ormai soltanto l’apparato, senza che il loro cuore sia toccato da questo, dalla fede” (208).
Beninteso, “questo, però, non significa affatto che tutti coloro che vivono nella Chiesa e lavorano per essa siano da valutare come lontani da Gesù e dal Regno di Dio. Assolutamente no!” (209). Ma la “parola drastica” di Gesù deve fare riflettere chi riduce l’impegno sociale e caritativo, pure lodevole, a un mero “servizio tecnico” (210), chi trascura il rapporto con la dottrina e il Magistero e oggi — il Papa lo ricorda in tutti i suoi viaggi — “lo studio del Catechismo della Chiesa Cattolica” (211), chi dimentica che una Chiesa locale, sia pure ricca di opere come quella di Germania, porta frutto solo se rimane “unita con i Successori di san Pietro e degli Apostoli” (212).
Qualche volta abbondano le opere, ma manca “l’umiltà [la quale] è una virtù che nel mondo di oggi e, in genere, di tutti i tempi, non gode di grande stima. Ma i discepoli del Signore sanno che questa virtù è, per così dire, l’olio che rende fecondi i processi di dialogo, possibile la collaborazione e cordiale l’unità. Humilitas, la parola latina per “umiltà”, ha a che fare con humus, cioè con l’aderenza alla terra, alla realtà. Le persone umili stanno con ambedue i piedi sulla terra. Ma soprattutto ascoltano Cristo, la Parola di Dio, la quale rinnova ininterrottamente la Chiesa ed ogni suo membro” (213).
Sono concetti che il Pontefice ha ribadito nel lungo discorso di Friburgo ai cattolici impegnati nella Chiesa e nella società, esposti allo scoraggiamento e alla tentazione di cedere alla pressione del relativismo dominante. “Da decenni — ha detto loro il Papa — assistiamo ad una diminuzione della pratica religiosa, constatiamo un crescente distanziarsi di una parte notevole di battezzati dalla vita della Chiesa. Emerge la domanda: la Chiesa non deve forse cambiare? Non deve forse, nei suoi uffici e nelle sue strutture, adattarsi al tempo presente, per raggiungere le persone di oggi che sono alla ricerca e in dubbio?” (214).
Il Pontefice ha risposto con un aneddoto. “Alla beata Madre Teresa [1910-1997] fu richiesto una volta di dire quale fosse, secondo lei, la prima cosa da cambiare nella Chiesa. La sua risposta fu: Lei ed io!” (215). La risposta implica che nella Chiesa, è vero, c’è sempre bisogno di cambiare, di convertirsi. Ma “come deve configurarsi allora concretamente questo cambiamento? Si tratta qui forse di un rinnovamento come lo realizza ad esempio un proprietario di casa attraverso una ristrutturazione o la tinteggiatura del suo stabile? Oppure si tratta qui di una correzione, per riprendere la rotta e percorrere in modo più spedito e diretto un cammino? Certamente, questi ed altri aspetti hanno importanza. Ma per quanto riguarda la Chiesa, il motivo fondamentale del cambiamento è la missione apostolica dei discepoli e della Chiesa stessa. Infatti, la Chiesa deve sempre di nuovo verificare la sua fedeltà a questa missione” (216).
La missione non cambia, non è mai cambiata, perché viene dal Signore. “A causa delle pretese e dei condizionamenti del mondo, però, la testimonianza viene ripetutamente offuscata, vengono alienate le relazioni e viene relativizzato il messaggio” (217). Quando i cristiani sono fedeli alla missione, il mondo li perseguita. “Nello sviluppo storico della Chiesa si manifesta, però, anche una tendenza contraria: quella cioè di una Chiesa che si accomoda in questo mondo, diventa autosufficiente e si adatta ai criteri del mondo” (218).
Per ripartire dalla missione, “per corrispondere al suo vero compito, la Chiesa deve sempre di nuovo fare lo sforzo di distaccarsi dalla mondanità del mondo. Con ciò essa segue le parole di Gesù: “Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv17,16)” (219). Paradossalmente, “in un certo senso, la storia viene in aiuto alla Chiesa attraverso le diverse epoche di secolarizzazione, che hanno contribuito in modo essenziale alla sua purificazione e riforma interiore. Le secolarizzazioni infatti — fossero esse l’espropriazione di beni della Chiesa o la cancellazione di privilegi o cose simili — significarono ogni volta una profonda liberazione della Chiesa da forme di mondanità: essa si spogliava, per così dire, della sua ricchezza terrena e tornava ad abbracciare pienamente la sua povertà terrena. Con ciò, la Chiesa condivideva il destino della tribù di Levi che, secondo l’affermazione dell’Antico Testamento, era la sola tribù in Israele che non possedeva un patrimonio terreno, ma, come parte di eredità, aveva preso in sorte esclusivamente Dio stesso, la sua parola e i suoi segni. Con tale tribù, la Chiesa condivideva in quei momenti storici l’esigenza di una povertà che si apriva verso il mondo, per distaccarsi dai suoi legami materiali, e così anche il suo agire missionario tornava ad essere credibile” (220).
Naturalmente il secolarismo non vuole favorire l’opera della Chiesa ma attaccarla. E tuttavia questo attacco ha spesso l’effetto contrario. “Gli esempi storici mostrano che la testimonianza missionaria di una Chiesa distaccata dal mondo emerge in modo più chiaro” (221). Non si tratta di una sorta di furbizia, per cui qualcuno si mette a tavolino e studia “[…] una nuova tattica per rilanciare la Chiesa. Si tratta piuttosto di deporre tutto ciò che è soltanto tattica e di cercare la piena sincerità, che non trascura né reprime alcunché della verità del nostro oggi, ma realizza la fede pienamente nell’oggi vivendola, appunto, totalmente nella sobrietà dell’oggi, portandola alla sua piena identità, togliendo da essa ciò che solo apparentemente è fede, ma in verità sono convenzioni ed abitudini” (222).
Non si tratta neppure — sbaglierebbe, ha detto il Papa, chi pensasse il contrario — di “ritirarsi dal mondo” (223), di non occuparsi della società o di non annunciare la dottrina sociale della Chiesa. Al contrario “una Chiesa alleggerita degli elementi mondani” (224), che pone la sua fiducia essenzialmente nella verità, può annunciare in modo più forte “la signoria dell’amore di Dio” (225) sulla storia, una signoria che non riguarda solo i singoli ma anche la società.
Si può dire lo stesso “con altre parole: la fede cristiana è per l’uomo uno scandalo sempre e non soltanto nel nostro tempo. Che il Dio eterno si preoccupi di noi esseri umani, ci conosca; che l’Inafferrabile sia diventato in un determinato momento afferrabile; che l’Immortale abbia patito e sia morto sulla croce; che a noi esseri mortali siano promesse la risurrezione e la vita eterna — credere questo è per noi uomini una vera pretesa.
“Questo scandalo […] non può essere abolito se non si vuole abolire il cristianesimo” (226).
Purtroppo, ha aggiunto il Papa alludendo nuovamente alla questione dei preti pedofili, lo scandalo fondamentale che la fede è per il mondo “[…] è stato messo in ombra proprio recentemente dagli altri scandali dolorosi degli annunciatori della fede. Si crea una situazione pericolosa, quando questi scandali prendono il posto dello skandalon primario della Croce e così lo rendono inaccessibile, quando cioè nascondono la vera esigenza cristiana dietro l’inadeguatezza dei suoi messaggeri” (227).
Eppure Gesù ripete ai cristiani, e il Papa ha ripetuto ai giovani a Friburgo: “Voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14). Sentiamo spesso queste parole, ha sottolineato il Pontefice, ma ci sfugge il loro mistero. Sono, invece, parole che dovrebbero stupirci. Infatti il Signore non dice che noi cristiani potremo diventare la luce del mondo se ci convertiremo. Dice che siamo — che siamo ora, con tutte le nostre miserie — la luce del mondo. “Come può allora Cristo dire che i cristiani — e con ciò forse anche quei cristiani deboli e spesso così tiepidi — sono la luce del mondo? Forse capiremmo se Egli gridasse: Convertitevi! Siate la luce del mondo! Cambiate la vostra vita, rendetela chiara e splendente! Non dobbiamo forse restare stupiti che il Signore non ci rivolga un appello, ma dica che siamo la luce del mondo, che siamo luminosi, che splendiamo nel buio?” (228).
Cominciamo a penetrare in qualche modo nel mistero se capiamo che “non sono i nostri sforzi umani o il progresso tecnico del nostro tempo a portare luce in questo mondo. Sempre di nuovo dobbiamo fare l’esperienza che il nostro impegno per un ordine migliore e più giusto incontra i suoi limiti. La sofferenza degli innocenti e, infine, la morte di ogni uomo costituiscono un buio impenetrabile che può forse essere rischiarato per un momento da nuove esperienze, come da un fulmine nella notte. Alla fine, però, rimane un’oscurità angosciante” (229).
Noi cristiani siamo la luce del mondo non per i nostri meriti ma perché partecipiamo alla luce di Gesù Cristo. “Intorno a noi può esserci il buio e l’oscurità, e tuttavia vediamo una luce: una piccola fiamma, minuscola, che è più forte del buio apparentemente tanto potente ed insuperabile. Cristo, che è risorto dai morti, brilla in questo mondo, e lo fa nel modo più chiaro proprio là dove secondo il giudizio umano tutto sembra cupo e privo di speranza. Egli ha vinto la morte — Egli vive — e la fede in Lui penetra come una piccola luce tutto ciò che è buio e minaccioso. Chi crede in Gesù, certamente non vede sempre soltanto il sole nella vita, quasi che gli possano essere risparmiate sofferenze e difficoltà, ma c’è sempre una luce chiara che gli indica una via che conduce alla vita in abbondanza (cfr Gv 10,10). Gli occhi di chi crede in Cristo scorgono anche nella notte più buia una luce e vedono già il chiarore di un nuovo giorno” (230).
Luce “del mondo”: nel senso che “la luce non rimane sola. Tutt’intorno si accendono altre luci. Sotto i loro raggi si delineano i contorni dell’ambiente così che ci si può orientare. Non viviamo da soli nel mondo. Proprio nelle cose importanti della vita abbiamo bisogno di altre persone. Così, in modo particolare, nella fede non siamo soli, siamo anelli nella grande catena dei credenti” (231), che è la Chiesa.
Alle origini di questa catena — e della stessa Germania — ci sono i santi che hanno portato e radicato il Vangelo nella terra tedesca: l’irlandese san Kilian (VII sec.), l’inglese san Bonifacio (673?-754), la principessa di origine ungherese sant’Elisabetta di Turingia (1207-1231), a proposito della quale il Papa ha detto nella Messa a Erfurt che “[…] il frutto della sua santità si estende per i secoli” (232). Se il richiamo ai santi come radici delle nazioni si ripete in tutti i viaggi di Benedetto XVI, a Erfurt il Papa si è chiesto: “Che cosa hanno in comune questi santi? Come possiamo descrivere e rendere fecondo per noi l’aspetto particolare della loro vita? Sì, i santi ci mostrano che è possibile e che è bene vivere in modo radicale il rapporto con Dio, mettere Dio al primo posto e non come una realtà tra le altre” (233).
Nella veglia di Friburgo il Pontefice ha aggiunto che “ripetutamente l’immagine dei santi è stata sottoposta a caricatura e presentata in modo distorto, come se essere santi significasse essere fuori dalla realtà, ingenui e senza gioia. Non di rado si pensa che un santo sia soltanto colui che compie azioni ascetiche e morali di altissimo livello e che perciò certamente si può venerare, ma mai imitare nella propria vita. Quanto è errata e scoraggiante questa opinione! Non esiste alcun santo, fuorché la beata Vergine Maria, che non abbia conosciuto anche il peccato e che non sia mai caduto” (234). I santi non sono coloro che non sono mai caduti: sono santi perché si sono sempre rialzati.
Il Papa ne ha tratto occasione per ricordare ai giovani, richiamando pure il ricordo della Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid, che “Cristo non si interessa tanto a quante volte nella vita vacillate e cadete, bensì a quante volte vi rialzate. Non esige azioni straordinarie, ma vuole che la sua luce splenda in voi. Non vi chiama perché siete buoni e perfetti, ma perché Egli è buono e vuole rendervi suoi amici. Sì, voi siete la luce del mondo, perché Gesù è la vostra luce. Voi siete cristiani — non perché realizzate cose particolari e straordinarie — bensì perché Egli, Cristo, è la vostra vita. Siete santi perché la sua grazia opera in voi” (235).
Come fare ad annunciare questa santità a una società che non vuole sentirne parlare? Al momento di congedarsi dalla Germania il Pontefice ha indicato una strada, non certo esclusiva ma oggi importante: disseminare nella società secolarizzata “[…] comunità piccole di credenti — e già esistono — che con il proprio entusiasmo diffondono raggi di luce nella società pluralistica, rendendo altri curiosi di cercare la luce che dà vita in abbondanza” (236). E che cosa annunciare, in particolare? Il Papa lo ha detto ai rappresentanti ortodossi: i cristiani oggi devono “[…] mettere il miracolo dell’incarnazione di Dio al centro dell’annuncio. Consapevoli che su questo miracolo si fonda ogni dignità della persona, si impegnano insieme per la protezione della vita umana dal suo concepimento fino alla sua morte naturale. La fede in Dio, il Creatore della vita, e il restare assolutamente fedeli alla dignità di ogni persona rafforzano i cristiani nell’opporsi con forza ad ogni intervento manipolatore e selettivo nei confronti della vita umana. Inoltre, conoscendo il valore del matrimonio e della famiglia, in quanto cristiani ci sta molto a cuore, come cosa importante, proteggere l’integrità e la singolarità del matrimonio tra un uomo e una donna da ogni interpretazione sbagliata” (237). Ripartire dalla missione, dunque, annunciando tutta la verità, anche quella morale più sgradita al relativismo. La strada del compromesso può sembrare più agevole. Ma non porta da nessuna parte.
Note:
(1) Benedetto XVI, Incontro con i giornalisti durante il volo verso Madrid, del 18-8-2011, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 20-8-2011.
(2) Idem, Cerimonia di congedo nell’Aeroporto Internazionale di Madrid Barajas, del 21-8-2011, ibid. 22/23-8-2011.
(3) Ibidem.
(4) Ibidem.
(5) Ibidem.
(6) Idem, Cerimonia di benvenuto nell’Aeroporto Internazionale di Madrid Barajas, del 18-8-2011, ibid. 19-8-2011.
(7) Ibidem.
(8) Ibidem.
(9) Ibidem.
(10) Ibidem.
(11) Ibidem.
(12) Ibidem.
(13) Ibidem.
(14) Ibidem.
(15) Ibidem.
(16) Idem, Incontro con i giornalisti durante il volo verso Madrid, cit.
(17) Ibidem.
(18) Ibidem.
(19) Idem, Discorso alla Festa di accoglienza dei giovani nella Plaza de Cibeles, del 18-8-2011, ibid. 20-8-2011.
(20) Idem, Incontro con i giornalisti durante il volo verso Madrid, cit.
(21) Ibidem.
(22) Ibidem.
(23) Ibidem.
(24) Ibidem.
(25) Idem, Cerimonia di benvenuto nell’Aeroporto Internazionale di Madrid Barajas, cit.
(26) Idem, Incontro con giovani religiose nel Patio de los Reyes de El Escorial, del 19-8-2011, ibid. 20-8-2011.
(27) Ibidem.
(28) Ibidem.
(29) Ibidem.
(30) Idem, Santa Messa con i seminaristi nella Cattedrale di Santa María la Real de la Almudena, del 20-8-2011, ibid. 21-8-2011.
(31) Ibidem.
(32) Ibidem.
(33) Ibidem.
(34) Ibidem.
(35) Idem, Visita alla Fundación Instituto S. José, del 20-8-2011, ibidem.
(36) Ibidem.
(37) Ibidem.
(38) Idem, Incontro con giovani docenti universitari nella Basilica di San Lorenzo de El Escorial, del 19-8-2011, ibid. 20-8-2011.
(39) Ibidem.
(40) Ibidem.
(41) Ibidem.
(42) Ibidem.
(43) Ibidem.
(44) Ibidem.
(45) Ibidem.
(46) Ibidem.
(47) Ibidem.
(48) Ibidem.
(49) Ibidem.
(50) Ibidem.
(51) Idem, Via Crucis con i giovani nella Plaza de Cibeles, del 19-8-2011, ibid. 21-8-2011.
(52) Ibidem.
(53) Ibidem.
(54) Ibidem.
(55) Ibidem.
(56) Ibidem.
(57) Ibidem.
(58) Idem, Discorso per la Veglia di preghiera con i giovani nell’Aeroporto Cuatro Vientos di Madrid, del 20-8-2011, ibid. 22/23-8-2011.
(59) Ibidem.
(60) Ibidem.
(61) Ibidem.
(62) Ibidem.
(63) Idem, Incontro con i giornalisti durante il volo verso Madrid, cit.
(64) Ibidem.
(65) Ibidem.
(66) Ibidem.
(67) Idem, Cerimonia di benvenuto nell’Aeroporto Internazionale di Madrid Barajas, cit.
(68) Ibidem.
(69) Ibidem.
(70) Ibidem.
(71) Ibidem.
(72) Idem, Saluto iniziale alla Festa di accoglienza dei giovani nella Plaza de Cibeles, del 18-8-2011, ibid. 20-8-2011.
(73) Idem, Discorso alla Festa di accoglienza dei giovani nella Plaza de Cibeles, cit.
(74) Ibidem.
(75) Ibidem.
(76) Ibidem.
(77) Ibidem.
(78) Ibidem.
(79) Idem, Santa Messa per la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù nell’Aeroporto Cuatro Vientos di Madrid, del 21-8-2011, ibid. 22/23-8-2011.
(80) Ibidem.
(81) Ibidem.
(82) Ibidem.
(83) Ibidem.
(84) Ibidem.
(85) Ibidem.
(86) Ibidem.
(87) Ibidem.
(88) Ibidem.
(89) Ibidem.
(90) Ibidem.
(91) Ibidem.
(92) Ibidem.
(93) Ibidem.
(94) Ibidem.
(95) Idem, Incontro con i volontari della XXVI Giornata Mondiale della Gioventù nel Padiglione 9 della nuova Fiera di Madrid-IFEMA, del 21-8-2011, ibidem.
(96) Idem, Cerimonia di congedo nell’Aeroporto Internazionale di Madrid Barajas, cit.
(97) Idem, Recita dell’Angelus Domini nell’Aeroporto Cuatro Vientos di Madrid, del 21-8-2011, ibid. 22/23-8-2011.
(98) Il riferimento è al titolo del saggio del sociologo tedesco Andreas Püttman, Gesellschaft ohne Gott. Risiken und Nebenwirkungen der Entchristlichung Deutschlands, “Società senza Dio. Rischi ed effetti collaterali della scristianizzazione della Germania”, GerthMedien, Asslar 2010, oggetto di numerosi commenti alla vigilia della visita del Papa.
(99) Benedetto XVI, Cerimonia di benvenuto al Castello di Bellevue di Berlino, del 22-9-2011, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 23-9-2011.
(100) Ibidem.
(101) Ibidem.
(102) Ibidem.
(103) Idem, Visita al Parlamento Federale nel Reichstag di Berlino, del 22-9-2011, ibid. 24-9-2011.
(104) Ibidem.
(105) Ibidem.
(106) Ibidem.
(107) Idem, Incontro con i rappresentanti della Comunità Ebraica in una sala del Reichstag di Berlino, del 22-9-2011, ibidem.
(108) Ibidem.
(109) Ibidem.
(110) Ibidem.
(111) Idem, Visita al Parlamento Federale nel Reichstag di Berlino, cit.
(112) Ibidem.
(113) Ibidem.
(114) Ibidem.
(115) Ibidem.
(116) Cfr. Idem, Discorso “Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni” in occasione dell’incontro con i Rappresentanti della Scienza nell’Aula Magna dell’università di Regensburg, del 12-9-2006, testo originale tedesco in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. II, 2, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, pp. 257-267, trad. it. in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 14-9-2006; cfr. pure la lettura di don Pietro Cantoni, Il discorso di Ratisbona, in Cristianità, anno XXXV, n. 339, gennaio-febbraio 2007, pp. 9-12.
(117) Idem, Visita al Parlamento Federale nel Reichstag di Berlino, cit.
(118) Ibidem.
(119) Ibidem.
(120) Ibidem.
(121) Ibidem.
(122) Ibidem.
(123) Ibidem.
(124) Ibidem.
(125) Ibidem.
(126) Ibidem.
(127) Ibidem.
(128) Ibidem.
(129) Ibidem.
(130) Ibidem.
(131) Ibidem.
(132) Ibidem.
(133) Ibidem.
(134) Ibidem.
(135) Idem, Omelia durante la Messa nell’Olympiastadion di Berlino, del 22-9-2011, ibidem.
(136) Ibidem.
(137) Ibidem.
(138) Idem, Incontro di Benedetto XVI con i giornalisti durante il volo verso la Germania, del 22-9-2011, ibidem.
(139) Idem, Omelia durante la Messa nell’Olympiastadion di Berlino, cit.
(140) Ibidem.
(141) Ibidem.
(142) Ibidem.
(143) Ibidem.
(144) Ibidem.
(145) Idem, Vespri Mariani presso la Wallfahrtskapelle di Etzelsbach, del 23-9-2011, ibid. 25-9-2011.
(146) Ibidem.
(147) Ibidem.
(148) Ibidem.
(149) Idem, Celebrazione ecumenica nella Chiesa dell’ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt, del 23-9-2011, ibidem.
(150) Idem, Incontro con i rappresentanti della Comunità Musulmana nel Salone dei ricevimenti della Nunziatura Apostolica a Berlino, del 23-9-2011, ibid. 24-9-2011.
(151) Ibidem.
(152) Ibidem.
(153) Ibidem.
(154) Ibidem.
(155) Ibidem.
(156) Ibidem.
(157) Ibidem.
(158) Ibidem.
(159) Ibidem.
(160) Idem, Celebrazione ecumenica nella Chiesa dell’ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt, cit.
(161) Ibidem.
(162) Idem, Incontro con i rappresentanti del Consiglio della “Chiesa Evangelica in Germania” nella Sala del Capitolo dell’ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt, del 23-9-2011, ibid. 25-9-2011.
(163) Ibidem.
(164) Ibidem.
(165) Ibidem.
(166) Ibidem.
(167) Ibidem.
(168) Ibidem.
(169) Ibidem.
(170) Ibidem.
(171) Ibidem.
(172) Ibidem.
(173) Cfr. David B. Barrett e Todd M. Johnson, Christianity 2011. Martyrs and the Resurgence of Religion, in International Bulletin of Missionary Research, vol. 35, n. 1, New Haven (Connecticut) gennaio 2011, pp. 28-29.
(174) Benedetto XVI, Incontro con i rappresentanti del Consiglio della “Chiesa Evangelica in Germania” nella Sala del Capitolo dell’ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt, cit.
(175) Ibidem.
(176) Ibidem.
(177) Ibidem.
(178) Ibidem.
(179) Ibidem.
(180) Ibidem.
(181) Ibidem.
(182) Ibidem.
(183) Idem, Celebrazione ecumenica nella Chiesa dell’ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt, cit.
(184) Ibidem.
(185) Ibidem.
(186) Ibidem.
(187) Idem, Cerimonia di congedo nell’Aeroporto di Lahr, del 25-9-2011, ibid. 26/27-9-2011.
(188) Idem, Incontro con rappresentanti delle Chiese Ortodosse nella Hörsaal del Seminario di Freiburg im Breisgau, del 24-9-2011, ibidem.
(189) Idem, Veglia di preghiera con i giovani nella Fiera di Freiburg im Breisgau, del 24-9-2011, ibidem.
(190) Idem, Cerimonia di congedo nell’Aeroporto di Lahr, cit.
(191) Idem, Omelia durante la Messa nella Domplatz di Erfurt, del 24-9-2011, ibid. 25-9-2011. Le parentesi quadre compaiono nel testo ufficiale dell’omelia.
(192) Ibidem.
(193) Ibidem.
(194) Ibidem.
(195) Ibidem.
(196) Ibidem.
(197) Ibidem.
(198) Ibidem.
(199) Ibidem.
(200) Idem, Incontro con il Consiglio del Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi (ZDK) nella Hörsaal del Seminario di Freiburg im Breisgau, del 24-9-2011, ibidem.
(201) Ibidem.
(202) Ibidem.
(203) Idem, Veglia di preghiera con i giovani nella Fiera di Freiburg im Breisgau, ibid. 26/27-9-2011.
(204) Idem, Omelia durante la Messa nell’Aeroporto turistico di Freiburg im Breisgau, del 25-9-2011, ibidem.
(205) Idem, Veglia di preghiera con i giovani nella Fiera di Freiburg im Breisgau, cit.
(206) Idem, Incontro con il Consiglio del Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi (ZDK) nella Hörsaal del Seminario di Freiburg im Breisgau, cit.
(207) Ibidem.
(208) Idem, Omelia durante la Messa nell’Aeroporto turistico di Freiburg im Breisgau, cit.
(209) Ibidem.
(210) Ibidem.
(211) Ibidem.
(212) Ibidem.
(213) Ibidem.
(214) Idem, Incontro con cattolici impegnati nella Chiesa e nella società nel Konzerthaus di Freiburg im Breisgau, del 25-9-2011, ibidem.
(215) Ibidem.
(216) Ibidem.
(217) Ibidem.
(218) Ibidem.
(219) Ibidem.
(220) Ibidem.
(221) Ibidem.
(222) Ibidem.
(223) Ibidem.
(224) Ibidem.
(225) Ibidem.
(226) Ibidem.
(227) Ibidem.
(228) Idem, Veglia di preghiera con i giovani nella Fiera di Freiburg im Breisgau, cit.
(229) Ibidem.
(230) Ibidem.
(231) Ibidem.
(232) Idem, Omelia durante la Messa nella Domplatz di Erfurt, cit.
(233) Ibidem
(234) Idem, Veglia di preghiera con i giovani nella Fiera di Freiburg im Breisgau, cit.
(235) Ibidem.
(236) Idem, Cerimonia di congedo nell’Aeroporto di Lahr, cit.
(237) Idem, Incontro con rappresentanti delle Chiese Ortodosse nella Hörsaal del Seminario di Freiburg im Breisgau, cit.