Marco Invernizzi, Cristianità n. 395 (2019)
L’Europa, la cultura e la conversione
È difficile parlare oggi di Europa, anche se vi siamo costretti dalla situazione politica e dalle imminenti elezioni per il parlamento europeo: è difficile per il possibile e probabile fraintendimento che grava su ogni discussione a proposito di che cosa significhi Europa ed essere europeo.
Il nazionalismo di ieri
Qualcosa di simile avvenne quasi duecento anni fa nell’imminenza del Risorgimento italiano e nel corso di esso. Pochi negavano l’utilità dell’unità d’Italia in forma di confederazione degli Stati della Penisola e forse lo stesso Impero d’Austria avrebbe potuto accettarla. Ma fra chi spingeva per questa soluzione vi erano liberali e nazionalisti, illuministi e romantici, che usavano l’idea di nazione come arma contro gli imperi e davano a quest’idea una dimensione sacrale, che sfociava in una vera e propria «religione della nazione», dotata addirittura di una propria liturgia. Si cominciò a parlare di «morire per la patria» e a celebrarne i «martiri», dimenticando quelli veri, per la fede, che presto verranno uccisi o imprigionati dai nazionalisti più accesi (1). Inoltre, Giuseppe Mazzini (1805-1872), nazionalista romantico e repubblicano, annunciò un accordo fra le forze rivoluzionarie nazionaliste dei vari Paesi per costituire una Giovane Europa.
Anche allora i contro-rivoluzionari si trovarono di fronte a una scelta difficile e assai impopolare. Il recente libro di Paolo Martinucci (2) ne è una conferma: stretti tra forze rivoluzionarie, che gettarono la maschera soprattutto dopo il 1848, e monarchie legittime ma contagiate dagli stessi princìpi rivoluzionari che combattevano, e che spesso trattavano i contro-rivoluzionari in modo peggiore degli stessi liberali, gli uomini di cui Martinucci illustra le biografie scelsero la strada della coerenza e soprattutto della sofferenza. Essi cercarono da una parte di rallentare il processo di scristianizzazione che avanzava rapidamente dietro l’idea nazionale, e dall’altra parte di affermare i princìpi della buona politica nella loro interezza, perché qualcuno dopo di loro capisse e cercasse di mantenervisi fedele. Di ciò oggi non possiamo che ringraziarli, pregando per le loro anime.
Essi aiutano a capire che il combattimento dell’ora presente contro le forze della Rivoluzione non deve mai oscurare la fedeltà al progetto d’amore di Dio verso gli uomini e verso le nazioni, a cui continuamente bisogna ritornare purificando sé stessi e le proprie intenzioni. In poche parole, bisogna pure combattere tutte le battaglie nella storia, ma ricordare sempre che le battaglie più importanti sono quella dentro ciascuno di noi e quella che aiuti la società a ritrovare la fedeltà al progetto originario. Si combattano pure le singole battaglie, politiche o a quel tempo militari, ma non si pensi che ciò possa essere sufficiente al fine di ricostruire «una società a misura d’uomo e secondo il piano di Dio» (3).
Per questo motivo fece bene il 29 marzo 1848 il beato Pio IX (1846-1878) a ordinare al suo esercito di non iniziare la guerra contro l’Austria a fianco dei sardi e dei napoletani, come pretendevano le forze liberali, anche se ciò per decenni fece dimenticare a molti cattolici che il principio della libertà è un valore cristiano, che la Rivoluzione ha adottato ma stravolgendolo.
La Chiesa allora non era contro l’unità d’Italia ma contro il modo con cui veniva perseguita; allo stesso modo la Chiesa non era contro la libertà e contro l’uguaglianza che, al contrario, sono princìpi entrati nella storia come universali grazie al cristianesimo (4).
Egualmente oggi la Chiesa non è contro l’Europa, né contro il processo volto a renderla un insieme di Paesi coesi attorno a un progetto unitario. Ma ciò può e dovrebbe avvenire solo a precise condizioni.
L’europeismo di oggi
La prima condizione è la rinascita dell’uomo europeo. Il libro di Giovanni Reale sui valori spirituali e culturali dell’Europa esprime bene questa precondizione, saggia e indispensabile: tutto sarà vano se non ripartiremo dalle singole persone (5). Scrive il filosofo francese Edgar Morin, citato dal filosofo Giovanni Reale (1931-2014): «L’Europa oggi, per gli europei occidentali, è burro eccedente, quote di latte, lotte fratricide fra maiali olandesi e francesi, riunioni interminabili in cui ci si strappa all’alba uno 0,01 di aumento o di diminuzione sulla barbabietola, valigette diplomatiche che viaggiano da Bruxelles a Strasburgo, indici di produzione, tassi comparati d’inflazione. Il pensiero dei problemi europei è riservato agli euro-tecno-burocrati e a dei deputati che nessun elettore saprebbe riconoscere e che hanno il seggio in un Empireo di Strasburgo. Non bisogna certamente augurarsi che le valigie diplomatiche si vuotino e che gli eurocrati cessino il loro lavoro. Bisogna sperare soprattutto che i politici si dedichino sempre più al destino comune. Ma per questo bisogna che spunti il nuovo spirito europeo, che dà la coscienza della comunità di destino» (6).
Ciò significa aver presente quello che in passato non sempre è stato messo al centro della riflessione di quanti a diverso titolo hanno combattuto contro le forze rivoluzionarie: in pratica non sopravvalutare le singole battaglie, che pure non vanno evitate perché significherebbe sottrarsi a un dovere. Passando a esempi storici precisi, significa partecipare a tutte le «insorgenze» dell’epoca moderna, dal 18 aprile 1948 alla «maggioranza silenziosa» che scese in piazza a Milano contro il «sessantottismo» nel 1971, alla rinascita di un’aggregazione politica conservatrice a partire dalle elezioni politiche del 1994, alle tre manifestazioni del Family Day nel 2007, 2015 e 2016. Partecipare sì ma tenendo conto dei limiti e dei possibili esiti non felici da un punto di vista politico. Così come la Restaurazione del 1815 rallentò il processo rivoluzionario ma non ricollegò la società europea alle sue radici, al suo progetto originario, quello che attraverso la prima evangelizzazione aveva costruito la respublica christiana.
Le prossime elezioni europee
Le elezioni europee che si terranno nel prossimo mese di maggio avranno al loro centro lo scontro politico tra le forze europeiste — ispirate da ideologie progressiste come quelle che portarono a compimento il Risorgimento italiano — e quelle forze politiche chiamate oggi sovraniste, populiste o neo-nazionaliste, che in realtà rappresentano una resistenza di tipo conservatore al processo di disgregazione morale e sociale dei Paesi europei che l’Europa attuale promuove. Tali forze si presentano con luci e ombre e sono molto diversificate da un Paese all’altro e al proprio interno.
Un grave errore sarebbe quello di scegliere le forze sovraniste per distaccarsi dal progetto unitario europeo, ma altrettanto grave sarebbe fare il contrario, abbracciando invece ciecamente il progetto europeista senza verificare quale Europa viene proposta.
Proviamo a metterci nei panni di un uomo normale, che ama la propria terra ma che è convinto innanzitutto che la patria è il suolo che calpestiamo, dove viviamo, dove costruiamo una famiglia e dove speriamo di morire lasciando un’eredità non solo materiale. Da questo sentimento nasce l’affetto per l’Italia «dei mille campanili», quelli che vediamo dal finestrino di un treno mentre ci spostiamo in qualsiasi direzione della Penisola. La patria non è un’idea astratta, costruita razionalisticamente a tavolino, ma una eredità concreta.
Ciò non significa che non sia buona cosa oggi — di fronte a un mondo sempre più globalizzato e dominato da colossi economico-finanziari basati in Cina, in Russia o negli Stati Uniti d’America, in qualche caso contigui ai governi in carica — confederare i singoli Stati europei in una realtà più grande e dunque più capace di stare sul mercato e nello scenario geopolitico internazionale. Ma questa unione degli Stati europei potrà nascere veramente solo nel rispetto dell’identità europea, della sua storia, dei suoi valori fondanti e attenendosi a un modello federale, basato sul rispetto delle identità locali, regionali e nazionali, che cedono pezzi di sovranità non a burocrati europei mai eletti, ma a una rappresentanza europea che in qualche modo sia espressione del consenso popolare: «Le nazioni, gli Stati saranno sempre la base di qualsiasi unione europea. Oggi, vi sono quelli che sono tentati di condannarli insieme ai nazionalismi: non sarebbe come gettare il bambino con l’acqua sporca?» (7), si chiedeva Gonzague de Reynold (1880-1970) con parole che potrebbero essere riscritte ancora oggi.
La necessità di uomini che credano nelle radici europee
E qui ritorniamo all’uomo europeo. Sempre Giovanni Reale fa un’osservazione importante partendo dalla figura di uno che possiamo in qualche modo considerare un padre dell’Europa: «Platone [428/427-347 a. C.], nella Repubblica, esprimeva un concetto di grande portata e di straordinaria profondità: non è la Città (ossia lo Stato) che crea i cittadini, ma viceversa. Infatti, lo Stato non è se non la proiezione ingrandita dell’anima del cittadino» (8).
Realisticamente dobbiamo constatare che oggi sono rari questi uomini europei, coscienti e innamorati della propria storia, fedeli all’identità che nasce dalle radici greche, romane e cristiane, unite attraverso la conversione dei popoli barbari, che hanno dato vita a una cultura e quindi a una civiltà da non confondere con il cristianesimo, tantomeno con Cristo e con la sua Chiesa, ma che non solo non va disprezzata né ignorata, bensì va riconosciuta come il ceppo che collega le nostre radici al tronco che ne è scaturito. Il fatto che storicamente il tronco sia stato tagliato o deformato dal processo rivoluzionario a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, non autorizza nessuno a disprezzare la storia nata da quelle radici, per quanto piena di errori come tutte le cose umane (9).
Purtroppo questo disprezzo è stato diffuso a piene mani ed è penetrato anche nel mondo cattolico, seminando le premesse di un «suicidio culturale» ben descritto da Benedetto XVI (2005-2013) in tanti interventi.
La storia contraddittoria del tentativo di stendere una costituzione per l’Unione Europea che avrebbe dovuto nascere, e che non venne mai approvata, ha rivelato il tentativo malizioso di dare un’identità all’Unione Europea che prescindesse dalle sue radici cristiane. Il grande magistero europeistico di san Giovanni Paolo II (1978-2005) veniva così smentito, umiliato, espulso dalla vita pubblica (10).
Però, siccome il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, la costituzione non nacque perché troppe erano le contraddizioni, le divergenze, le diverse ambizioni fra gli Stati, e si ripiegò così su un progetto di Unione bancaria e monetaria, con la Banca Centrale Europea e l’euro, ma senza una costituzione e senza un progetto culturale e politico condiviso.
Alla radice rimaneva e rimane il problema di fondo, l’uomo europeo: «La sola terapia possibile è quella basata sul recupero del senso e del valore dell’uomo come persona: l’Europa sorge con questo concetto, e soltanto a partire da esso può rinascere» (11). Questo «uomo europeo», così formato o ri-formato, che cosa dovrebbe poi fare? Sempre Reale scrive: «si dovrebbe cercare di conferire adeguata importanza alla cultura» (12), perché solo attraverso quest’ultima si possono costruire ambienti umani nei quali le persone stiano insieme per convinzione, per condivisione di valori comuni, e non solo per interesse. Ciò oggi non viene compreso dagli uomini politici, sempre alla ricerca di un consenso immediato ed emotivo, che non resiste ai cambiamenti di umore della popolazione e al mutare delle situazioni. Così Reale, citando il drammaturgo rumeno Eugène Ionesco (1909-1994), ricorda che «gli uomini politici non conoscono assolutamente l’importanza della cultura. Nel nostro mondo despiritualizzato, la cultura è ancora l’ultima cosa che ci permette di superare il mondo quotidiano e di riunire gli uomini. La cultura unisce gli uomini. La politica li separa» (13).
Non esiste oggi un numero sufficiente di uomini con queste caratteristiche, in grado di esprimere una cultura che possa dare vita a una civiltà. Bisogna pregare perché questi uomini sorgano dalle ceneri del mondo occidentale che muore. È il lavoro lungo e difficile della nostra epoca. È il nostro lavoro.
Marco Invernizzi
Note:
(1) Cfr. Federico Chabod (1901-1960), L’idea di nazione, Laterza, Roma-Bari 2008; e Marco Invernizzi, Il movimento nazionalista in Italia, in IDIS, Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Dizionario del pensiero forte, a cura di Giovanni Cantoni, alla pagina web <https://alleanzacattolica.org/il-movimento-nazionalista-in-italia/?pdf=8132>, consultata l’11-2-2019.
(2) Cfr. Paolo Martinucci, Per Dio e per la patria. Profili di contro-rivoluzionari italiani fra Settecento e Ottocento, saggio introduttivo di M. Invernizzi, D’Ettoris, Crotone 2018.
(3) Giovanni Paolo II (1978-2005), Discorso ai partecipanti al Convegno promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana «Dalla “Rerum novarum” ad oggi: la presenza dei cristiani alla luce dell’insegnamento sociale della Chiesa», del 31-10-1981.
(4) Così il marchese spagnolo Juan Donoso Cortés di Valdegamas (1809-1853) apostrofava i rivoluzionari del suo tempo: «Non vi potete gabellare per apostoli di un nuovo vangelo quando ci parlate del male e del peccato, della redenzione e della grazia, tutte cose di cui è intessuto il Vangelo antico; né potete spacciarvi per depositari di una nuova scienza politica, sociale e religiosa, se poi venite a parlarci di libertà, fratellanza e uguaglianza, cose vecchie come il cattolicesimo, che ha l’età del mondo. Colui che promise di esaltare gli umili e di sottomettere gli orgogliosi compie su di voi la sua promessa: vi condanna a essere goffi commentatori del suo Vangelo immortale proprio perché aspirate, nella vostra pazza ambizione, a promulgare una nuova legge da un nuovo Sinai, se non da un nuovo Calvario» (Juan Donoso Cortés, Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, trad. it., a cura di Giovanni Allegra [1935-1989], il Cerchio, Rimini 2007, p. 207); cfr. pure, sempre in tema, G. Cantoni, Papa Giovanni Paolo II e gli ideali dell’Ottantanove, in Cristianità, anno XXIV, ottobre 1996, pp. 17-18).
(5) Cfr. Giovanni Reale, Radici culturali e spirituali dell’Europa. Per una rinascita dell’«uomo europeo», Cortina, Milano 2003.
(6) Edgar Morin, Pensare l’Europa, trad. it., Feltrinelli, Milano 1988, p. 141.
(7) Gonzague de Reynold, La Casa Europa. Costruzione, unità, dramma e necessità, trad. it., a cura di Giovanni Cantoni, D’Ettoris, Crotone 2015, p. 269.
(8) G. Reale, op. cit., pp. 29-30.
(9) Cfr. il mio L’amore e la civiltà, in Cristianità, anno XLVI, n. 394, novembre-dicembre 2018, pp. 5-14.
(10) Cfr. Giovanni Paolo II, Profezia per l’Europa, presentazione del card. Dionigi Tettamanzi (1934-2017), a cura di Mario Spezzibottiani (1952-2006), Piemme, Casale Monferrato 1999; e Idem, Esortazione apostolica post-sinodale «Ecclesia in Europa» su Gesù Cristo, vivente nella sua Chiesa, sorgente di speranza per l’Europa, del 28-6-2003. Per la continuità del magistero sul tema, cfr. i discorsi di Papa Francesco al Parlamento europeo di Strasburgo, del 25-11-2014, e ai partecipanti alla Conferenza (Re)thinking Europe, organizzata a Roma dalla Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione europea (COMECE), del 28-10-2017.
(11) G. Reale, op. cit., p. 95.
(12) Ibid., p. 136.
(13) Eugène Ionesco, Il mondo è invivibile, cit. ibid., p. 136.